lunedì 28 giugno 2010

Spray e frustate

Avete mai pensato che in giro per il mondo c’è chi somministra ancora delle punizioni corporali? Penitenziagite. Ce lo ha insegnato la Santa Madre Chiesa che umiliare il corpo fa bene all’anima.

Oggi è alla ribalta della cronaca di Singapore il caso esecrabile del trentaduenne svizzero che, con un complice inglese, si è nottetempo intrufolato nel deposito del materiale rotabile della metropolitana ed ivi, armata la mano di bomboletta spray, ha disegnato un graffito – in realtà, ha scritto un esoterico nome, McKoy Banos – sulle fiancate di un paio di dormienti vagoni. Questo nella notte tra il 16 e il 17 maggio. Non del 1993, come sarebbe verosimile in un fatto criminale italiano, ma di quest’anno.

L’improvvisato pittore Oliver ha ricevuto una sentenza di cinque mesi di carcere e tre colpi di rattan per vandalismo di proprietà pubblica, violazione di area sorvegliata e taglio della recinzione protettiva.

Che cosa abbia spinto i due allegri compari a fare questa mattata non è dato sapere. Forse l’alcool, che peraltro non è considerato un’attenuante dalle Corti di Singapore. Anzi.

Tre colpi di rattan. Detto così non fa un gran effetto. In fondo, quanti sanno che cosa sia il rattan? Ebbene, questa storia ci dà lo spunto per fare qualche sana riflessione.

Tanto per cominciare, mai ce ne fosse stato bisogno, è la conferma che l’essere straniero non dà diritto ad alcun genere di impunità. Quando sei a Roma, fai come i romani. E a Singapore, da qualsiasi paese tu provenga, bada bene di fare come i singaporeani.

Che non hanno affatto preso bene la sentenza. Troppo mite, si scatenano gli internauti locali. Ma come, tre soli colpi di rattan? Appena cinque mesi di galera? Tanta gente chiede, se fosse stato un locale o un cittadino cinese, invece che uno svizzero, quanti colpi gli avrebbero dato? E quanti anni, visto che la pena per i suoi reati poteva arrivare a cinque anni? Uno sconto clamoroso, mesi invece che anni.

Poi c’è chi mette il dito nella piaga, sottolineando che l’elvetico reo altro non ha fatto se non evidenziare le carenze della sorveglianza notturna di un’area di interesse strategico. E se invece che di una bomboletta spray, il nostro fosse stato armato di una bomba a tempo, da nascondere in una carrozza e far deflagrare quando era piena di pendolari? Se uno svizzero si può far beffe di recinzioni e zone sorvegliate, che tutela offre la città-stato contro i terroristi di Jemaah Islamiyah?

C’è infine uno zoccolo duro di xenofobi che suggeriscono di trasmettere in diretta la fustigazione, qualcuno si offre volontario per somministrare le frustate, altri vorrebbero i colpi così violenti da costringere lo scriteriato bombolettaro a viaggiare tutto il tempo in piedi, da Singapore alla Svizzera, dove certamente verrà estradato una volta scontata la pena.

La seconda doverosa riflessione riguarda la terrificante rapidità della Legge. Un mese e mezzo per un processo penale. Da noi non basta nemmeno per leccare le marche da bollo da appiccicare sulla citazione. L’uomo ha presentato appello. Col rischio di vedersi aumentata la sentenza, visto che il terzo reato è ancora in sospeso, ed i cinque mesi sono stati comminati per i primi due.

Le terza riguarda l’accanimento del popolo contro lo straniero, reo di fregarsene degli usi e delle leggi locali. Sorprende che sia stato proprio uno svizzero a macchiarsi di tale onta. Uno se li immagina tutti belli precisi, come i loro orologi, rispettosi dei limiti, attenti a non oltrepassare il muro rassicurante della decenza. E invece vedi un po’ il buon Oliver, consulente aziendale nel settore IT, cosa ti combina.

L’ultima non è una riflessione, ma un invito. Se non avete idea di cosa significhi la fustigazione col rattan, in vigore sia a Singapore che in Malaysia, fate come me. Guardate – se ce la fate, fino in fondo – un video che è un pugno nello stomaco. Ma fa riflettere, ammesso che uno ne abbia voglia e coscienza. Se ci fosse più gente che lo fa, magari diventerebbero un po’ meno i fautori di questa punizione corporale, i sostenitori della corrente di pensiero che si domanda, perché tre colpi soli, giudice? Singapore sta forse diventando acquiescente con gli stranieri?

venerdì 25 giugno 2010

Non solo in Italia...

My mum is very possessive. She calls me up and says, “You weren’t home last night. Is something going on?” I say, “Yeah, Mum. I’m cheating on you with another mother.”

Mia madre è molto possessiva. Mi telefona e fa, non eri a casa l’altra notte. C’è sotto qualcosa? Sì, mamma, le ho risposto. Ti sto tradendo con un’altra madre.

mercoledì 23 giugno 2010

Pigri naturali

I’m not into exercising. Yesterday my wife said, “Let’s walk around the block.” I said, “Why? We’re already here.”


Non sono un tipo da esercizio fisico. Ieri mia moglie mi ha proposto, facciamo un giro intorno all’isolato. Le ho risposto: perchè? Siamo già qui!

domenica 20 giugno 2010

Grazie RAI

Ci hai risparmiato – almeno, in Piemonte - la pena del secondo tempo di una vergognosa partita. Tutti a consolarsi con se Atene piange, Sparta non ride. Ma certo. Con quello che guadagnano, giustifichiamoli pure.

Il Sudamerica, che ha colonizzato il campionato italiano, sta dando prova di caparbietà, voglia di vincere, gusto del gioco. E diverte. Da noi la cosa più divertente sono gli occhiali tricolori di Mazzocchi.

Una perla del dopopartita? Gilardino con la faccia da cane bastonato, intervistato da Varriale. Che annuncia lo scoop del secolo. Alle sventure in campo se ne aggiunge un’altra nello spogliatoio. I nostri eroi hanno dovuto far la doccia con l’acqua fredda, perché mancava quella calda. Come diceva la pubblicità del callifugo Ciccarelli: poverino, come soffre.

Dice Oliviero Beha: hanno l’atteggiamento di chi sta già pensando a tornare a casa, ad andare in vacanza. Condivido appieno, basta guardarli quando parlano al microfono.

Ieri, in aereo, ho visto un bel film, Invictus, storia di Mandela e degli Springbocks, la nazionale di rubgy sudafricana. Continuo a pensare che il rugby sia sport per davvero. Quella è gente che per vincere sa di dover soffrire. Lottare. Versare sangue. Che quando cade si rialza e continua. Che lotta in gruppo, che non si arrende, che conquista ogni metro con sudore. Che stringe i denti fino all’ultimo minuto. Che non fa pantomime. Che non cerca di guadagnare un punto con l’inganno.

Gli All Whites non saranno gli All Blacks. Ma si sono dimostrati all’altezza dei campioni del mondo. Sono usciti dallo stadio a testa alta, con un pareggio che per loro, ultimi della classe, vale oro. Italia calcistica: a lavorare.

Premonizioni

Che cosa spinge un viaggiatore, dopo quasi diciannove ore di viaggio, a voler ancora curiosare al di là di una vetrata aeroportuale, per vedere se le proprie valigie escono davvero dalla pancia del velivolo? Forse lo spirito masochistico che fa dire, sì, eccomi tornato a casa, la riconosco da quei piccoli inconfondibili dettagli sintomatici dell’Italia cialtrona e menefreghista. O forse quel tarlo quasi invisibile che ti fa sempre salutare con inquietudine i bagagli alla partenza, nella speranza di ritrovarli a destinazione, pensando a quante migliaia di colli scompaiono misteriosamente nel nulla ogni anno. O magari è solo ciò che dà il titolo a questo racconto: una premonizione. Perché altrimenti non si spiega come mai, proprio ieri, all’aeroporto di Torino, mi sia soffermato così a lungo a rimirare le operazioni di scarico, tanto da godermi questa imperdibile scenetta, tutta italica nella sua sciatteria. Quattro addetti, dico quattro, che gironzolano attorno al nastro appoggiato all’aereo. Uno è dentro alla stiva, gli altri con malagrazia trasbordano il valigiame sul carrello che lo porterà al nastro, per la gioia dei trasvolatori. Tutti tranne uno, subito chiamato con l’altoparlante, e invitato a presentarsi al banco bagagli smarriti. L’invito è garanzia che i colli non ce l’hanno fatta, e sono rimasti in quel di Francoforte – se va bene.

Non ci si aspetta – giova ricordarlo, siamo in Italia, mica in Giappone – che i colli siano trattati in guanti bianchi. Ma nemmeno di vedere che la mia valigia, inconfondibile per i colori particolari, venga malamente sbattuta sul nastro dall’addetto nel ventre dell’aereo, ivi percorra meno di qualche centimetro, per poi cadere rovinosamente al suolo da almeno tre metri. Complimenti. Arrivo al nastro con la certezza – e una certa dose di curiosità mista a giramento di corbelli – di trovare il collo danneggiato. Dopotutto, anche se di solida costruzione giapponese, non è progettata per cadere di spigolo, con tutto il suo peso, dal primo piano di una casa. Infatti. Curiosità appagata. Lo spigolo è squarciato, la ruota non piroetta più, oh, molte grazie, premurosi addetti ai colli.

Vado a fare la denuncia. L’impiegato, evidentemente seccato dal fatto di dovere star lì a lavorare di sabato, invece di essere in centro a far compere, non sembra assolutamente interessato ad ascoltare il mio racconto visuale di come sono andati i fatti. Chi se ne frega chi è stato, tanto c’è l’assicurazione che paga, no?, sembra pensare mentre meccanicamente compila i moduli del caso. È di qualche marca?, mi chiede. No, l’ha fatta Gesù Cristo, mi verrebbe da rispondergli, ma invece gliela dico: Lojel, giapponese. Ovviamente nel verbale non viene riportata, forse era troppo difficile da scrivere. Si rivolga qui, il perito valuterà se è riparabile o se le verrà sostituita. Al che (non è la prima volta che mi capita) lancio una domanda provocatoria, giusto per sondare la sua onestà intellettuale: ma se non è riparabile, me la sostituiscono con una uguale? Certo.

Andiamocene, che è meglio. Uscendo trovo uno dei doganieri più cortesi con cui abbia mai avuto a che fare. Dopo le domande di rito, da dove viene, ha acquistato qualcosa, orologi, altro (ma perché questa fissa per gli orologi? Avete mai provato a guardare i prezzi dei Rolex – quelli veri – in Cina o in Giappone? Lo sapete che sono i cinesi a venire a comprarli in Italia perché risparmiano il venti per cento e soprattutto sono – quasi – sicuri di non farsi dare delle bidonate da dei rivenditori disonesti che spacciano per veri delle imitazioni?). No, non ho acquistato nulla, sono in giro per lavoro. Che tipo di lavoro? Glielo spiego. Insomma, due chiacchiere senza quell’ansia inquisitoria che ti mettono spesso addosso le forze dell’ordine, anche se sai che non hai nulla da nascondere. Alla fine non mi congeda con quel tipico magnanimo vada, vada pure, che sembra quasi dire questa volta l’hai fatta franca… No, mi porge una lunga, convoluta frase di ringraziamento, quasi un apprezzamento per il tempo e l’attenzione che gli ho dedicato. Bravo, sconosciuto finanziere. Ogni tanto fa piacere trovare qualcuno che fa il proprio mestiere con garbo, senza arroganza. Onore al merito.

Compensa per quegli indolenti farabutti che mi hanno sventrato la valigia? No, purtroppo no. Quella rimane così, e ora ci faremo due risate a discutere con la ditta incaricata, che quasi di sicuro cercherà di rifilarmi una porcheria che dura da Natale a Santo Stefano (esperienza diretta, l’ultima volta il bagaglio in sostituzione è durato un viaggio: uno solo, va bene?!), che durerà e varrà – parlo di valore, non di costo – un decimo del mio, e che probabilmente faranno pagare profumatamente alla Lufthansa, incolpevole responsabile del danneggiamento.

Caro direttore di Caselle: le capita ogni tanto di uscire dal suo ufficio e di fare un giro per lo scalo? Giusto per vedere come la gente che lavora lì tratta i clienti ed i loro bagagli. Lo faccia. Ne vale la pena. Se è vero che l’occhio del padrone ingrassa il cavallo, magari qualche miglioramento, noi tapini viaggiatori, lo noteremo. Perché per fare un lavoro malamente, danneggiando proprietà di altri, indisponendo quelli che alla fine pagano lo stipendio di questa gente (niente viaggiatori, niente scalo, niente posti di lavoro), ci vuole lo stesso tempo che a farlo bene. La differenza è l’atteggiamento. Non c’è niente come un capo che sorveglia, per fare lavorare i dipendenti come si deve.

Cara Lufthansa: ho viaggiato con soddisfazione e a lungo con te. Ti do del tu perché ti considero una presenza familiare nel mio frequente peregrinare. Ho perso aerei, ed anche bagagli. Sì, in tanti anni di viaggi è capitato anche questo. Ma mai una volta che tu mi abbia lasciato a terra, abbandonato a me stesso, senza informazioni, senza un piano B che mi portasse dove dovevo essere solo con qualche oretta di differenza. Senza che – in Germania, non in Italia – si siano fatti in quattro per farmi avere la mia valigia dimenticata (a Torino!) portandomela in albergo anche a mezzanotte. Questa è efficienza. Questa è cura del cliente. Per questo oggi scrivo anche a te, cara aviolinea germanica. Perché non mi sembra giusto che tu mi ripaghi un bagaglio (anche se sei tenuta a farlo, anche se chissà quanto spendi di assicurazioni per coprire queste noiose evenienze) senza che io ti informi che non è colpa tua, ma di qualche maldestro e infingardo operatore di nastro. Italiano. Non servirà a nulla tutto questo? Non lo so. Di certo non serve a nulla stare zitti, incassare, farsi maltrattare da chi è coperto dall’anonimato corporativo.

Se non partiamo dai dettagli, dalle piccole cose, solo apparentemente insignificanti, non diventeremo mai un paese civile. E poi ci lamentiamo se i turisti non vengono più in Italia come una volta.

giovedì 17 giugno 2010

Only in Japan

Solo in Giappone qualcuno può trovare logico e perfino giustificabile il pubblicare su un quotidiano nazionale l’inconcepibile notizia che a un turista nipponico al seguito dei Samurai Blue è stata rubata la macchina fotografica, mentre rientrava in albergo dopo aver assistito alla partita.

Ma non basta. Pensate che anche tre giornalisti cinesi sono stati rapinati, armi alla mano, addirittura all’interno del proprio hotel. Soldi, computer, cellulari. Tutto svanito. Robe da non credere.

Confessiamo, orsù, le debolezze del nostro debosciato pianeta. Ebbene sì. Nel resto del mondo, fuori da quell’isola felice che è la Terra del Sol Levante, esiste davvero la criminalità. O tempora o mores.

domenica 13 giugno 2010

Panem et circenses

L'uomo più importante della Gran Bretagna. Così parla, davanti ai suoi soldati in un polveroso spiazzo afgano, il nuovo premier inglese Cameron. Con la sapienza dei tempi teatrali, crea aspettativa. Ripete. Vi porto il saluto dell’uomo più importante. Estrae dalla tasca un foglietto, con la solennità di chi si accinge a leggere passi scelti dalla Magna Charta.

Mister Fabio Capello vi manda il pensiero dell’intero staff della nazionale albionica. Non gli lasciano nemmeno finire la frase: scroscio di applausi a scena aperta.

Non è quantomeno singolare che chi dovrebbe essere – a buon titolo – l’uomo più importante della Gran Bretagna, passi allegramente lo scettro della popolarità e della gloria al commissario tecnico della nazionale calcistica, e per giunta straniero? Avevano capito tutto gli antichi romani, duemila anni fa: per tener buona la gente e non farla pensare, panem et circenses.

mercoledì 9 giugno 2010

McRefugees

Le disparità cinesi hanno prodotto un nuovo, sintetico, straordinariamente triste neologismo. La città che non dorme mai non è più New York, come cantava Frank Sinatra, ma Shanghai. Piccoli essenziali supermercati (quelli che in Giappone chiamano convenience-stores) e fast food appestati di immarcescibile sentore di fritto stanno aperti giorno e notte. E questi ultimi sono diventati la meta dei senza casa alla disperata caccia di fortuna nella metropoli più megalomane della Cina.

I McRefugees cercano ogni sera un tetto sotto il quale dormire. Talvolta non sono disoccupati, ma fanno quei lavori la cui retribuzione non basta nemmeno per un bugigattolo a Shanghai. I datori di lavoro, a questi emigranti arrivati qui nella speranza di vincere la lotteria dell’arricchimento metropolitano, offrono talvolta un letto. Ma in stanzette da condividere in otto, magari senza bagno. Allora, invece di passare la notte come uomini-sardina, tra gli odori – e i rumori – corporali di disgraziati sconosciuti di cui non ci si può fidare, certi preferiscono scegliere la squallida accoglienza di un fast food deserto. Con le sue luci finto allegre, con i suoi fantocci che sorridono beffardi agli avventori mal ingrassati, con quel tangibile afrore di frittura che ti avvolge come un sudario.

Fanno degli studi, addirittura. Dove le poltrone sono imbottite, più morbide e accoglienti, o dove i camerieri sono più tolleranti e – chiudendo un occhio – permettono loro di chiuderli entrambi per qualche ora.

Con la casta dei McRefugees si è creata una nuova professione, i buttafuori che la notte ripuliscono i locali trasformati in dormitori da cinquanta persone. Anche perché a marzo ci è scappato il morto. Un cameriere, studente universitario che lavorava di notte per pagarsi la retta, è stato accoltellato mentre cercava di impedire a due individui di sdraiarsi sulle sedie del locale. L’assassino è stato arrestato dieci giorni dopo il fattaccio. Ma intanto una madre piange l’unico figlio, vittima di una guerra tra poveri, per aver cercato di metter ordine in qualcosa di nemmeno suo.

Da allora la polizia ha intensificato le ronde notturne, controllando documenti di identità e estradando chi non aveva buone ragioni per stare a Shanghai (in Cina, per vivere in una provincia che non sia la propria, occorre avere un lavoro ed un alloggio dove si risiede – ma non basta ad acquisire la cittadinanza).

Albeggia. Poche facce assonnate si rialzano dai rudimentali giacigli, spesso fatti di sedie accostate. Fanno la fila per lavarsi la faccia e cominciare un’altra giornata, di misero lavoro o alla ricerca di uno. Qualcuno sogna il lusso di fare un bagno caldo. O di comprarsi un altro vestito. O di riuscire finalmente ad avere un certificato sanitario che gli permetta di passare dall’altra parte della barricata. In fondo, se uno deve stare lì, è meglio essere pagato per vendere hamburger e patatine piuttosto che correre il rischio di esser buttato fuori tutte le notti. O di esser portato via su un cellulare blu, per esser poi spedito lontano, talmente lontano da non ricordarsi nemmeno più di quella sfavillante, puzzolente, rumorosa, intossicante metropoli che è Shanghai. McRefugees: i nuovi paria.