domenica 31 ottobre 2010

Il paradiso non può attendere - 4a parte

Quando il tè diventa arte

Ospite unico di questa piccola comunità ovviamente non adusa alla presenza di stranieri, dopo cena mi aspettava un’ulteriore premura. Il mio anfitrione non aveva ancora finito con le sorprese, e l’intrattenimento non avrebbe potuto essere più in sintonia con l’atmosfera del luogo: la casa da tè, dove l’arte di servirlo diventa rappresentazione, rito, allegria, tradizione, abilità e agilità tutto insieme.

Accolto con tutti gli onori, manco fossi un capo di stato, addirittura con la direttrice ad omaggiarmi di uno stupendo mazzo di lilium (ribaltiamo i ruoli e le convenzioni: chi ha detto che a un uomo non fa piacere ricevere dei fiori da una donna?), ho potuto godere in esclusiva di uno spettacolo da palcoscenico in cui cinque ragazze e tre ragazzi hanno rappresentato arte e folklore della regione. Nei costumi tradizionali dello Yunnan hanno eseguito danze tipiche, dando prova di armonia e di talento ginnico. La cosa più sorprendente, in una terra dove la danza deve essere espressione di bravura tecnica ma non necessariamente di passione, erano i sorrisi di quei ragazzi mentre si esibivano in gruppo. In forte contrasto con le spesso algide e distaccate espressioni di altre ballerine viste nel nord della Cina, bambole tecnicamente perfette ma apparentemente prive di cuore.

Due delle fanciulle, aggraziate e indistinguibili come tuffatrici di sincronizzato, hanno poi messo in scena quei gesti liturgici, sempre uguali, canonizzati da mille libri, che costituiscono la cerimonia del tè. Ci sono ritmi, tempi e cadenze stabiliti per ogni azione, per ogni fase della preparazione di questa bevanda millenaria. Non rispettarli sarebbe un’offesa a cinquemila anni di cultura. Ogni movenza ha il suo significato, nulla è lasciato al caso, all’improvvisazione. Né la temperatura dell’acqua, variabile a seconda del tipo di tè. Né il tempo di infusione, anch’esso funzione del grado di fermentazione delle foglie. Né la forma di presentarlo, e neppure quella di berlo. Del tè, ancora una volta paragonabile ad un vino d’annata, vanno apprezzati il colore e il profumo, prima di portarlo alla bocca per confermarne la qualità con l’assaggio.

Infine, vestiti in sgargianti tuniche gialle e rosse, due di loro si sono esibiti in funamboliche prove di destrezza nel mescerlo da distanze inusitate - e con mira millimetrica – in tazze e bicchieri di minuscolo diametro, usando delle singolari teiere dal beccuccio lunghissimo e sottile, indirizzando e interrompendo il getto a piacere, con gesti imperiosi ma plastici ed abilità consumata. Una performance a metà tra le arti marziali e la danza, protagonista la bevanda più sorseggiata al mondo.

Il ricordo più concreto di questo viaggio nel cuore dello Yunnan è rappresentato dalle numerose forme di Pu Er compresso, con le quali amo tuttora celebrare – indegnamente – la mia personale cerimonia del tè. Ma ci sono profumi, sapori, immagini, suoni – in una parola, emozioni – che pur intangibili, sono talmente affondati nel profondo della mia memoria da avermi consentito, a distanza di due anni, di redigere questa cronaca in differita. Il paradiso non poteva attendere, il racconto sì. È tutta questione di ispirazione.

Prima pubblicazione : 7 giugno 2009

sabato 30 ottobre 2010

Il paradiso non può attendere - 3a parte

Contadini generosi

Dopo un pomeriggio trascorso su per le colline, apprezzando l’opera sapiente e indefessa dei raccoglitori, il cortese e intelligente comproprietario dell’azienda mi ha organizzato una vera sorpresa, assai gradita perchè sono uno straniero curioso, voglioso di conoscere e di immergermi nella realtà locale: invece di portarmi in qualche ristorante, magari di quelli tristissimi con qualche pretesa di posticcio lusso, abbiamo cenato nel cortile di una casa del villaggio, ospitati dalle famiglie dei raccoglitori di tè, che hanno imbandito un desco normale, senza orpelli, forse giusto un po’ più abbondante del solito, ma allegro e saporito perché fatto dei genuini frutti che madre Terra offre loro, ed accompagnato da un distillato fatto in casa di sapore delizioso, trasparente come certe grappe, spillate di frodo da rudi montanari valdostani, che bevevo trent’anni fa con i compagni di vacanza invernale e che, per la purezza del liquido, avevamo soprannominato la Sangemini.

Un mangiare ed un bere di schietta sostanza, comunitariamente seduti su dei panchettini attorno ad un basso tavolo con tutte le portate esibite lì, pronte alla presa con dei bastoncini consunti dall’uso. Le donne andavano e venivano dalla cucina recando verdure, zuppe, pollami e riso fumante, profumato e candido, i bambini ridevano giocando d’intorno con svaghi autentici, cuccioli di cane da trastullare, biciclette e tricicli malfermi, pattini inchiodati da antiche ruggini, tuttora ignari, beati loro, dell’esistenza di videogiochi e altre diavolerie elettroniche che tolgono ogni fisicità alla ricreazione.

Alla fine un vecchio bellissimo, il volto riarso dal sole ed affrescato da profonde rughe, con una sorprendente capigliatura folta e corvina, terminate le libagioni si è messo a fumare, accendendo del tabacco dentro al piccolo camino laterale di un grosso trombone ligneo. Non ho potuto non fotografarlo. Era il ritratto della serenità, derivata da una vita naturale, dai ritmi stabiliti dalle stagioni e non dal calendario, con le giornate scandite dall’alternarsi di luna e sole, e non dall’affannoso trascorrere del tempo comprovato dalle irrequiete lancette dell’orologio. Un’esistenza fondata su valori basilari, ancora beneficamente non inquinata dalla tecnologia.

Come dappertutto in Cina, si cena presto, prima che il sole tramonti. Una certezza rassicurante, quel disco infiammato che va a riposare dietro alle colline. Domani tornerà di nuovo a riscaldare, a dar luce, a fornire energia alla natura che cresce giorno dopo giorno e porta un sudato eppur modesto benessere, in questa landa lontana da palazzi, lussi, ostentazioni e status symbol.

Il tè ha fatto bene a questa gente, mi dice il padrone della collina. Prima non avevano nemmeno l’elettricità al villaggio. Ora hanno perfino le parabole per guardare la televisione. Allora, mentre condividevo la visione di uno straordinario tramonto con questi contadini spontanei e premurosi, mi è venuto da riflettere. C’è chi parla di rispetto della biodiversità. Chi sostiene che le monocoltivazioni fanno male all’ecologia. Chi manifesta contro il lucro di tirannici padroni sfruttatori di sottopagata manodopera. Tutto questo dal comodo divano di casa propria, magari nel quartiere residenziale di una città fatta di cemento. Con luce disponibile dietro ogni interruttore, acqua sollecita e potabile al girar di rubinetti cromati, gas infinito al semplice sfarfallar di manopole con l’accensione piezoelettrica, e termostati talmente intelligenti da far trovare un caldo focolare anche a distratti padroni di casa senza orari. E col supermercato sotto casa traboccante di ogni ben di dio, che basta aver la moneta per il carrello e la carta di credito danarosa per portarsi a casa spese monumentali, senza bisogno di interrogarsi che fatica manuale c’è dietro a quei banconi pieni di cibarie.

Andiamo a raccontare la favola della biodiversità a chi fino a ieri dormiva per terra e cucinava raccogliendo fascine e dando loro fuoco nella cucina fatta di mattoni. E l’unico divertimento che si poteva permettere, nella sera illuminata da una candela o dal lume a canfino, era quello millenario, gratuito, che ha portato la generazione di oggi ad esserci. Ascoltiamo quello che hanno da dire questi cinesi, grati a chi ha portato loro delle condizioni di vita più accettabili. Gente che ti apre la porta di casa, ti ospita nel cortile collettivo, ti cucina i suoi cibi semplici e saporitissimi, ti offre un tè giovane e straordinario con cui nessun negozio potrebbe mai competere, non importa quanto altisonante e orpellosa la confezione. E si congeda regalandoti una bottiglia di plastica della Sprite piena di un’acquavite pura come l’acqua di fonte. Contadini generosi, ancora scevri dell’invidia da possesso. Mai mi sono sentito così sicuro e insieme ben accetto in alcun posto – dei non pochi che ho visitato – come in questo lontano scorcio dello Yunnan rurale.

E dopo cena? A domani, per la quarta e ultima parte del racconto.

Prima pubblicazione : 4 giugno 2009

venerdì 29 ottobre 2010

Il paradiso non può attendere - 2a parte

L’albero millenario

L’albero del tè viene artificialmente tenuto in forma di cespuglio, per la comodità dei raccoglitori. La costante potatura fa sì che la pianta si sviluppi in ampiezza, offrendo all’uomo un manto di foglioline giovani che si rigenerano di continuo, nella stagione del raccolto. Senza l’intervento umano la pianta crescerebbe in altezza. Ma ne risentirebbe sia il volume delle foglie, sia la praticità della spiccatura. Ogni tanto, in mezzo al tappeto verde brillante che affresca le colline, sorge solitario un albero nella sua piena estensione. Giusto per ricordare come la natura vorrebbe la pianta del tè.

Una leggenda narra che, come tutte le grandi scoperte, anche quella delle proprietà del tè sia stata casuale. Un imperatore cinese, appassionato ricercatore di erbe e piante, riposando sotto un albero dopo una lunga giornata di cammino per le selve, si accese un fuocherello per riscaldare dell’acqua. Alcune foglie caddero nel recipiente, creando un’infusione che risultò corroborante e tolse all’imperatore la stanchezza del giorno. Così si vuole sia nata, cinquemilasettecento anni fa, la storia del tè.

Chá mă gŭ dào - 茶马古道.

Ovvero: l’antica strada del tè a cavallo. Quando non esistevano i camion, il trasporto del tè era affidato ai cavalli. Che dalle ripide mulattiere scendevano in città, someggiati di gerle riempite del prezioso raccolto. L’antica strada del tè a cavallo – una specie di via della seta in tono minore – vien tuttora celebrata nei libri che raccontano la storia del tè nei secoli, e gli umili equini che hanno contribuito a dissetare generazioni di cinesi – e non solo – sono immortalati nel monumento alla cultura del tè nella piazza di Pu Er City.

Macchine? No grazie

Il tè nello Yunnan si raccoglie ancora col metodo tradizionale, tutto a mano, gerla in spalla, solo le foglie più giovani e tenere, che verranno poi asciugate la sera su enormi tavolacci ventilati dal di sotto, di modo da deumidificare il fogliame senza che ammuffisca. Poi segue il processo di ossidazione e di pressatura, così ricchi di piccoli segreti da non consentire ai visitatori l’accesso alle sale dove le foglie verdi lentamente si trasformano in un blocchetto, solitamente rotondo, di tè nero che, come i migliori vini rossi, acquista pregio e valore con l’età.

Questi panetti di tè compresso nascono secoli fa, quando i viaggi erano molto più avventurosi, impegnativi, carenti degli agi odierni e infinitamente più lenti. Ma già allora i cinesi non volevano privarsi della loro bevanda favorita. Trasportare tè in foglie avrebbe richiesto troppo spazio. E probabilmente gli elementi lo avrebbero danneggiato, essendo luce, calore ed umidità principali nemici del tè. Un panetto compattato e quindi sufficiente per dei mesi, ecco l’invenzione dei geniali cinesi. Con una lama bastava sbriciolarne un frammento ogni giorno, metterlo in infusione ed ecco pronto un gustoso e tonificante tè.

Vi è piaciuta la seconda parte? Il racconto continua, domani troverete la terza parte.

Prima pubblicazione : 2 giugno 2009

giovedì 28 ottobre 2010

Il paradiso non può attendere

I miei primissimi lettori ricorderanno questa immagine. L’avevo scelta come icona di asiaticità, per dare un’immediato e inconfondibile taglio orientale al mio blog. In occasione dei due anni di attività di Homing Pigeon, voglio fare un salto indietro nel tempo, pubblicando il reportage sul viaggio che scatenò la mia voglia di raccontare sulla rete.

E nel contempo, visto che siamo in vena di outing, spiegare che io sono un italiano davvero atipico. Non solo le sorti calcistiche dell’Italia mi lasciano alquanto indifferente, e non vado alla disperata ricerca del ristorante italiano anche se sono sperso nel Giappone agreste o nell’ovest del Borneo. C’è un fatto ancora più grave, che fa trasalire stranieri e conterranei: non bevo caffè!

Non ci si fa un’idea di che drammi umani scoppino al terzo giorno di viaggio di un gruppo di turisti italiani in giro per l’Asia. Dopo aver inutilmente provato le brosce allungate delle varie catene di caffetterie americane, aver pregato invano baristi indifferenti di bloccare salvificamente l’erogazione dell’acqua nella tazzina prima di vedersi ammannire una cuccuma traboccante un liquido nerastro e totalmente privo di corposa crema ecrù, si dedicano a lamentazioni sull’impossibilità di bere un buon caffè fuori dai patri confini, sognando con bramosia il momento stesso in cui rimetteranno piede nel primo aeroporto italiano e potranno finalmente appagare il loro desiderio frustrato. I baristi di Caselle, Malpensa e Fiumicino dovrebbero esser milionari, a giudicare dal numero di caffè che si suppone vendano a turisti di rientro in crisi di astinenza.

Io sono un bevitore di tè. Ma non quello nelle bustine, che non considero neppure tale. Parlo proprio del tè in foglia, da preparare secondo regole e riti maturati in migliaia di anni di studio e di cultura. E bevi oggi e bevi domani, il piacere si è trasformato in passione. Ma questo non vuole diventare un trattato sul tè. Non ne avrei le capacità. E comunque richiederebbe anni, per affrontare il tema seriamente. Vuole essere piuttosto il racconto del percorso che mi ha portato in uno dei luoghi più incantevoli del pianeta. Inusitatamente, in Cina.

Il primo approccio con le collinose terrazze di tè l’ho avuto molti anni fa in Malaysia, dove gli inglesi nel milleottocento avevano trovato il clima adatto per coltivare l’arbusto necessario a soddisfare il proprio quotidiano bisogno delle cinque. Poi in Cina ho visitato i campi del tè verde più pregiato, il Long Jing, coltivato sui declivi attorno al grande lago occidentale di Hangzhou, ed essiccato ancora con artigianali metodi manuali. Come per l’apprendimento a scuola, occorre bere – e cercare di capire – il tè per gradi. E quando si arriva ad apprezzare il Pu Er, tè nero cinese, forte e salutarissimo, per assaporarne appieno non solo il gusto ma la cultura secolare, bisogna viaggiare verso la sua terra natia, lo Yunnan.

Provincia dolcissima, detta dell’eterna primavera per quel clima stabile, tiepido, accogliente, che favorisce la coltivazione del generoso arbusto. Da Kunming, capitale provinciale, occorrono alcune ore di auto per raggiungere la cittadina che dà il nome a questo tè: Pu Er. Ma vale il viaggio.

Questo è un racconto a puntate. Domani troverete la seconda parte. Un'occasione per scoprire se ci sono altri appassionati di tè che mi leggono.

Prima pubblicazione : 31 maggio 2009

mercoledì 27 ottobre 2010

Il mio ragazzo

Lei è esile, sottile, dimostra a malapena vent’anni anche se ne ha quasi trenta. Ha una di quelle facce affaticate da un’esistenza precoce che sembra voler dimenticare. Vestita bene ma senza eleganza, sta dietro il bancone di un modesto negozio di orologi. Forse filippina, forse tailandese.

Entra un giovane, scuro di carnagione, una fresca e ribelle chioma di capelli nerissimi, e subito si illumina un sorriso candido e smagliante su quel viso acerbo e olivastro. Si capisce che non è la prima volta che si incontrano. Il saluto non è formale, lui si slancerebbe verso di lei per salutarla con confidenza, ma lei mostra imbarazzo, il volto si contrae in un risolino dalle venature tristi. Molto asiatico.

Ciao, fa lui, come stai. Quanto tempo. Dal retrobottega, attirato dalla cadenza informale della conversazione, compare l’altro. Minuto quanto lei, radi capelli bianchi e stremati, pettinati con cura maniacale a farne un piccolo riporto appiattito come una sogliola, un viso innaturalmente stirato, tratti caucasici, uno dei tanti europei che ad un certo punto della loro esistenza decidono per qualche recondita ragione di mollare tutto e di partire per un viaggio senza ritorno verso quei paradisi artificiali che si trovano qua e là in Asia. Pattaya. Phuket. Phnom Penh. E chissà quanti altri, con troppa carne fresca disponibile, e le autorità sempre pronte a chiudere un occhio, laide e sensibili al soldo frusciante. Ha sessant’anni, ne dimostra settanta e si illude di somigliare a un quarantenne.

L’improvvisa apparizione pare quasi rabbuiare lei. Questo è il mio ragazzo, dice al cliente, con tono manierato e introduttorio. Lui non riesce a trattenersi. Rimira quella figura così stonata rispetto alla locuzione che ha appena udito, e ribatte: il mio ragazzo? Non è un buon attore, e non sa mascherare un’espressione mista di incredulità e disgusto. Si leggono, stagliati sul suo viso bello e sfacciato di gioventù, i mille pensieri che stanno attraversando la sua mente. E nessuno di questi è lusinghiero.

Ci sono scelte – e compromessi – nella vita di ognuno che non andrebbero giudicati. Se non conoscendo la storia delle persone. Forse “il mio ragazzo” significa sicurezza, tranquillità, certezza di un pasto tutti i giorni, perfino un modesto benessere, per quella anonima vecchia signorina dalla gioventù bruciata.

Perché se da noi gli adolescenti si drogano di grandi fratelli e di amici di maria e di partite di calcio sette giorni su sette, laggiù c’è ancora chi viene venduta a quattordici anni da genitori ignavi o disperati di povertà alla tenutaria di un bordello. C’è chi lavora come un somaro in fabbriche malsane o nelle campagne paludose, invece di andare a scuola o giocare con una bambola.

“Il mio ragazzo” non è un compromesso. È una conquista. È una redenzione. È un’affermazione della propria capacità di sopravvivenza allo squallore. Anche se il tuo ragazzo sembra tuo padre, piccola, sconosciuta fanciulla. Solo chi ha vissuto abbastanza là può leggere dietro alla facciata di questi apparenti drammi. E non punta un dito moralista e inquisitorio, giudicando l’ingiudicabile.

sabato 23 ottobre 2010

Il killer della cucina

Non sono uno chef. Non ho mai lavorato dietro ai fornelli professionali di una cucina da ristorante (salvo quella volta al mare, ormai molte estati fa, che imbandii, per una cricca di una ventina di amici, un colossale cacciucco, la mattina presto al mercato ittico a sceglier pesci ignoranti ma saporiti e molluschi bavosi ancora boccheggianti di vita, e l’intero pomeriggio trascorso in un cucinone ristorantizio che temporaneamente ci apparteneva, a pulire, sbollentare, amalgamare e infine amorosamente collocare su un ampio letto di pane insipido agliato una ecumenica e profumatissima zuppa di pesce toscana).

Ma la cucina è una delle mie poche passioni. Sei quello che mangi. Non c’è luogo del mondo dove non abbia osato l’inconcepibile per il turista medio. Bachi da seta infilzati sullo spiedino e arrostiti (Pechino). Millepiedi fritti (spettacolari, nello Yunnan e nel sud della Tailandia). Una volta, nel Guangdong, perfino lo scarafaggio (uno solo, buono ma basta). Pesci crudi (mai deliziosi come in Giappone, sulla costa occidentale, d’inverno, con la neve al mare). Nidi di rondine (in zuppa, probabilmente cari come una spolverata di tartufo, e altrettanto ostici per i non iniziati). E mi fermo qui.

La mia passione culinaria si porta appresso, come effetto collaterale, una insana mania di collezionismo di coltelli. Ho a casa mannaiette cinesi, santoku giapponesi, pelucchini di varia taglia e curvatura, fini lame da sushi, buffi ma efficaci coltelli panciuti comprati per quattro palanche in Cina, perfetti per un battuto di erbette. Ferri dolci, da usare lavare e subito asciugare, pena la fatale ruggine.

Poi, un giorno, a Tokyo, mi sono fatto tentare dall’innovazione tecnologica. Il coltello di ceramica. Mai fatto un acquisto per la mia raccolta, senza aver ben soppesato l’utensile. Meglio ancora se mi veniva data l’opportunità di metterlo alla prova. Pochi tagli sono bastati a convincermi che stavo impugnando un laser. E così un candido quindici centimetri Kyocera è tornato a casa con me, sigillato in valigia, che non vogliamo mica andare a finire sui giornali per tentato dirottamento aereo.

Non è una lama per tutti. Bianco e fragile come una geisha, non ammette urti violenti e men che meno cadute, fatali alla sua delicata composizione ceramica. Fantastico sul morbido, si impunta, ostinato come un mulo, su carote crude e altri materiali di densità consistente. Le ossa non gli sono amiche. Non è una rude ed approssimativa mannaia, è un raffinato cesello celliniano. Dicono che la prova del nove siano le cipolle: quando il filo è fresco e tagliente come un bisturi ti risparmia i pianti da battuto, essendo le cellule lacrimogene finemente separate e non macinate dal peso della lama.

Impossibile da riaffilare con metodi casalinghi (quando verrà il tempo dovrò riportarlo in Giappone per trovare un maestro d’ascia che lo addomestichi?). Ingannevolmente leggero al tocco, ma instancabile sulla materia, che attraversa con spaventosa disinvoltura (attenti alle dita, molto più che con le classiche lame d’acciaio!). Infine, la conturbante caratteristica che lo rende unico, e sinistro come un film di Dario Argento. Se siete abituati al quieto ma pur sempre percettibile sibilo del filo d’acciaio che scorre nell’arrosto mentre ne fate porzioni, all’allegro scoppiettare di verdurami ed erbette frantumate dal solito coltello universale, l’assoluto, monastico silenzio con cui opera la lama in ceramica vi sbalordirà.

Riservato di carattere (ovvio, viste le sue origini giapponesi), può diventare un tacito ma ammiccante complice nella preparazione di molte refezioni. Ma è pretenzioso. Non perdona le distrazioni. Aristocratico come un gatto persiano, non ammette volgari commistioni con altre rumorose ferramenta nel cassetto. La sua natura amagnetica lo rende inadatto all’ostensione calamitata a parete, in mezzo ad altre lame verticali pronte allo sfodero.

Così se ne sta, altezzosamente solitario, riposto nella salvifica custodia, mai un distratto schiaccianoci o un maldestro e vile tagliapizza dovessero urtarlo, offendendo la virginale perfezione del suo filo inviolato. Riposa, in attesa di tornare a prestare la sua raffinata e preziosa opera. Il silenzioso killer della cucina.

Prima pubblicazione : 4 settembre 2009

giovedì 21 ottobre 2010

Silenzi dolorosi

We will remember not the words of our enemies, but the silence of our friends.


Ricorderemo non le parole dei nostri nemici, ma il silenzio dei nostri amici.


Martin Luther King [1929 - 1968]

martedì 19 ottobre 2010

Il mio meccanico

Il mio meccanico è una di quelle botteghe – come il lattaio, la rammendatrice e il verduriere di quartiere – che c’erano tanti anni fa, prima dell’era dei supermarket, ma ora stanno scomparendo.

Il mio meccanico ha una grande porta di ferro a vetrate che si apre a mano senza sforzo e si piega come una fisarmonica plasmandosi sul muro.

Il mio meccanico è in pieno centro storico: a volte, se gli avanza una macchina, la lascia fuori col cofano che sbadiglia puntellato sull’asta, tanto nessuno ruba nulla ma le multe si evitano.

Il mio meccanico ti racconta sempre quello che c’è da fare, e perché, e cosa potrebbe succedere se non lo si fa, e sembra quasi uno zio affettuoso che si preoccupa per la salute di ogni macchina.

Il mio meccanico parla delle automobili con una passione che nemmeno il chirurgo del suo paziente trapiantato di cuore.

Il mio meccanico ha un sacco di ganci e catene e verricelli manuali che pendono da travi a soffitto, una vasta panoplia di chiavi inglesi manco dovesse riparare dagli orologi alle locomotive, e alle pareti i poster di latta con le réclames come i bar degli anni sessanta.

Il mio meccanico manovra, con la competenza e l’abitudine di anni, in spazi talmente stretti che uno non ci girerebbe nemmeno una bicicletta.

Il mio meccanico non è una rimessa, è una silenziosa cattedrale dove si officiano i riti della liturgia automobilistica.

Il mio meccanico si cala ancora nella fossa, guarda in alto, dentro al ventre inquieto della vettura, reggendo una torcia dal lungo cavo mezzo attorcigliato, e capisce tutto senza bisogno di test su strada, senza ipotizzare forse si tratta di questo oppure proviamo a fare quest’altro.

Il mio meccanico sono padre e figlio, al telefono li confondi ogni volta, ma quando rispondono sembrano sempre contenti di sentirti, come un amico che non si faceva vivo da tempo.

Il mio meccanico, il padre, dice in sessant’anni di carriera e non è un modo di dire.

Il mio meccanico, il figlio, non so se ha un figlio, ma mi piacerebbe che ce l’avesse e che un giorno entrasse anche lui nel mestiere con indosso una tuta con la pubblicità dell’olio e cominciasse a curare le macchine con la dedizione del padre e del nonno.

Perché il mio meccanico non è un negozio, è una dinastia. E qualcuno deve pur continuare questa impossibile tradizione di frugali, anacronistiche botteghe nel bel mezzo della città.

Prima pubblicazione : 18 novembre 2009

sabato 16 ottobre 2010

Carlos sotto le stelle

Hunter Valley, un paio d’ore di macchina da Sydney. Una spianata erbosa, circondata da vigneti e cantine, in cui sono allestiti un palco e una platea fatta di dozzinali seggiole in plastica bianca da dehor di bar. Un cielo azzurrissimo, terso come noi non ce lo ricordiamo nemmeno più. Una cocente ma ventosa giornata di fine estate.

Ho sempre provato una profonda ammirazione mista ad invidia nei confronti del popolo australiano, per il loro sapersi godere degli eventi aggregatori senza le nostre restrizioni, grazie al loro senso civico e morigeratezza. Questa si chiama civiltà, e ne beneficiano tutti.

Gente di tutte le età che arriva alla spicciolata. Coppie, famiglie, giovani, e poi tanti capelli bianchi e rughe a volontà. Si respira allegria, serenità e calore. Sotto alcuni tendoni improvvisati lì per lì si possono acquistare a prezzi non da ladri delle bottiglie di ottimo vino bianco o rosso, da degustare in compagnia mentre si assiste al concerto. Ci sono signore che si presentano con un flute di champagne locale in mano (ma guai a chiamarlo così, mai si spazientissero i francesi). Passano dei signori con una bottiglia di cabernet sauvignon d’annata e una borsata di aggraziati bicchieri di plastica. I giovani si orientano perlopiù su dei colossali bicchieroni colmi di birra, accompagnati da hamburgers gargantuani.

L’evento parte quasi in sordina, e con circa un’ora di ritardo. Gli artisti, si sa, amano creare aspettativa. Il primo brano è Jingo. Finito questo, un benvenuto al pubblico. Ma non i soliti saluti formali, ripetuti a memoria e senza passione. Una appropriata lode agli australiani che di recente, per bocca del nuovo primo ministro Rudd, hanno collettivamente chiesto scusa alla propria popolazione aborigena per i misfatti del passato. In risposta, un forte applauso di apprezzamento e condivisione.

Una presenza non invadente, non chiassosa, non istrionica. Minimalista, si muove lentamente in mezzo a ben dieci musicisti componenti il gruppo. Tre percussionisti. Un tastierista. Due fiati. Una chitarra e un basso. Due vocalisti. Ma come tiene il palco. In certi momenti sembra che ci sia solo lui, anche se sono in undici.

Carlos Santana. Un sessantenne senza età. Una berretta di lana calata fin sulle orecchie, da cui sbuca una cascata di riccioli che gli scendono sulle spalle. Una semplice maglietta nera con intricatissimi disegni multicolori. Occhiali scuri che terrà fino al calare della notte, rivelando alfine i suoi occhi segnati ma intensi e taglienti. Un viso aggrinzito ornato da baffetti sporadici, che ricorda vagamente Charles Bronson.

Ma le mani sono la vera magia. Riprese in primo piano ed ingigantite sul maxischermo alle sue spalle, fanno miracoli sulle sei corde. Mani grandi, nodose, irsute. Mani vecchie ma giovani. Sembra che nella vita non abbiano mai fatto altro che correre e scorrere su quella chitarra per estrarvi ritmi trascinanti e straordinari da regalare al pubblico.

La delicatezza struggente di certi pezzi, assoli vibrati che ti entrano dentro. Non ha una chitarra, ha una voce in mano. Una voce che tira fuori da quelle corde accarezzate dalle sue dita infaticabili. Emana energia ad ogni nota. Sessantanni e non sentirli. Ride mentre duetta con i suoi orchestrali. Chitarra e voce. Chitarra e tastiere. Chitarra e tromba. Le corde, sotto le sue dita antiche e magiche, cantano, suonano, imitano altri strumenti.

Un crescendo trascinante. La gente per oltre due ore è rimasta compostamente seduta, per una semplice forma di rispetto nei confronti di chi era nelle file più indietro. Ma alla fine, quando arrivano i pezzi caldi e latini, quelli irresistibili, quelli che ti picchiano duro dentro, allora tutti in piedi, si salta, si balla, si applaude a tempo. Una inverosimile discoteca live all’aperto che va dai dieci ai settant’anni. E dopo il bis, con assoli mozzafiato dei percussionisti e l’ultimo straordinario regalo di quelle mani mai stanche, un tripudio di braccia osannanti levate al cielo nero come la pece e denso di stelle del sud.

Due ore e mezzo filate di pura energia. Carlos Santana, continua a suonare. Starei stato ad ascoltarti tutta la notte.

Prima pubblicazione : 2 marzo 2008

giovedì 14 ottobre 2010

Rodney the great

Oh, when I was a kid, I was ugly. When I was born, the doctor smacked my mother!

When I was born, the doctor came out to the waiting room and said to my father, "I'm very sorry. We did everything we could. But he pulled through."

And I was an ugly kid. Everytime my old man wanted sex, my mother showed him my picture. I mean, ugly. My mother breastfed me through a straw.

Once when I was lost I saw a policeman and asked him to help me find my parents. I said to him, "Do you think we'll ever find them?" He said, "I don't know kid. There are so many places they can hide."


Quando ero piccolo, se ero brutto! Quando sono nato, il dottore ha sculacciato mia madre!

Quando sono nato il dottore, uscendo dalla sala parto, ha detto a mio padre: Mi spiace molto. Abbiamo fatto di tutto. Ma è riuscito a uscire lo stesso.

Ero davvero brutto. Quando il mio vecchio voleva fare all’amore, mia madre gli faceva vedere una mia foto. Brutto, sul serio. Mia madre mi allattava al seno. Con una cannuccia.

Una volta mi ero perso. Vidi un poliziotto e gli chiesi aiuto per ritrovare i miei genitori. Gli dissi, pensa che riusciremo a trovarli? Mi rispose, non lo so, bimbo. Ci sono talmente tanti posti dove possono essersi nascosti.

Rodney Dangerfield (1921 - 2004)

mercoledì 13 ottobre 2010

OCD

Una sigla ricorrente sulla bocca di tanti, in questi ultimi tempi, è OCD. Per esteso, Obsessive Compulsive Disorder. In italiano, la sindrome ossessivo-compulsiva, malattia psicosomatica del momento.

Ogni epoca recente ha avuto il suo disturbo di moda, che non ho mai capito se ci sarebbe stato lo stesso in tale misura, se le riviste da spiaggia avessero evitato, per vendere qualche copia in più, di fare un tale cancan in proposito, al punto da renderlo quasi trendy. L’anoressia affonda le radici negli anni sessanta, resa pubblica ed esibita ai flash dei fotografi da modelle alla Twiggy secche e allampanate come l’ombra della sera etrusca, vere e proprie radiografie ambulanti. Poi è stata la volta della bulimia, faccia opposta della stessa medaglia, disordine alimentare che porta a ingozzarsi compulsivamente di cibo per poi sentirsi in colpa e vomitarlo, trasformando il proprio esofago in un permanente, indaffarato ascensore da cibo. Discesa e risalita. L’anoressico rifiuta gli alimenti, talvolta fino alla morte. Il bulimico ne abusa. Testimonial d’eccezione una bulimica che da morta fa immagine ancor più che da viva: lady di.

I semi delle disfunzioni alimentari germogliano in presenza di squilibri mentali causati da traumi infantili o da una vita psicologicamente insoddisfacente. Vere e proprie malattie, da curare non solo sul lettino dello psicologo, hanno fatto la fortuna delle case farmaceutiche, che hanno inondato il mercato di Prozac e di suoi assimilati.

Oggi abbiamo i soliti opinionisti che disquisiscono a destra e a manca di OCD. Sindrome molto democratica, al contrario delle altre che avevano delle categorie a rischio dove solevano colpire, le indossatrici, gli istruttori da palestra, i culturisti pompati di steroidi che nemmeno i cavalli dopati, tutta gente che basa il proprio business (e spesso la propria stessa esistenza) sull’aspetto fisico, sul corpo perfetto, secondo i canoni plicometrici in voga. Botticelli e Tiziano si sentono sghignazzare nelle tombe.

L’OCD invece offre un’opportunità a tutti. Basta leggere l’imponente casistica di comportamenti che, se riscontrati anche in forma blanda nel soggetto, fanno temere, quando non già diagnosticare, qualche grado della malattia.

Contate sempre gli scalini quando salite o scendete le scale? Vi toccate la punta del naso o vi urge palpare il corno scacciaguai quando vedete un gatto nero? Conservate ogni cianfrusaglia a costo di dover uscire da casa voi? Il vostro vicino di carrello al supermercato è troppo lento e dovete per forza sorpassarlo? Bevete il caffè solo con la mano sinistra per paura dei germi, secondo la logica che la maggior parte della gente impugna la tazzina con la destra, e quindi più labbra la toccano dalla parte opposta? Vi mandano in bestia il pane sottosopra in tavola, il coltello apparecchiato con la lama in fuori, la frutta servita prima del dolce e non viceversa? Quando vedete un quadro appeso storto non riuscite a trattenervi e dovete a tutti i costi raddrizzarlo? Controllate tre volte il gas tutte le notti prima di andare a dormire? Non vi addormentate se non sapete di avere un bicchier d’acqua pronto sul comodino? Fate dieci giri dell’isolato perché volete parcheggiare nel vostro solito buco che qualche impertinente ha osato occupare? E potrei continuare per ore.

Molto probabilmente non lo sapete, ma è ora di andare dallo strizza, a farsi dare una sintonizzata alle valvole del cervello, prima che se ne bruci una e buonanotte ai suonatori.

Non si fraintenda il mio tono semiserio. Con questo non voglio dire che gli psicologi si inventino il lavoro. Ho massimo rispetto e stima, per avere visto in persone vicine a me dei risultati insperati, dei tanti seri professionisti del lettino – absit iniuria verbo – che curano con competenza, capacità e sensibilità umana degli autentici malati di patologie psicosomatiche.

Da dilettante osservatore del mio prossimo, sono affascinato e attratto dalle mille sfaccettature della psiche umana e dai tanti insondabili risvolti che mostra. Ammiro la maestria degli psicologi, veri chirurghi senza bisturi, che sezionano il cervello del paziente senza anestesia (salvo i casi più gravi, dove l’ipnosi aiuta), ne estraggono il marcio in forma di traumi pregressi, spesso difficili da raggiungere perché rimossi per autodifesa e nascosti nel subconscio, e poi rimettono a posto il tutto, restituendo il paziente ad una esistenza migliore.

Precisato ciò, credo che occorra un minimo di prudenza da parte di chi fa informazione nell’additare come potenziali soggetti da curare degli individui totalmente sani, che magari manifestano solo qualche piccolo innocuo ticchio.

Se no, generalizzando così tanto la gamma dei sintomi e gabellando ogni ghiribizzo per una malattia, alla fine si scopre che, chi più chi meno, siamo tutti malati. E se siamo tutti malati, questa è la normalità. E se nessuno è sano, mancando il termine di paragone, allora per assurdo più nessuno è malato. Perché la sanità non solo è l’anormalità, ma non esiste nemmeno.

Ora ditemi cosa state pensando: secondo voi devo fare una capatina dallo strizza anch’io?

Dicono che una risata sia la miglior cura per certe malattie. Per questo chiudo con una raffinata scheggia di humour all’inglese. Un paziente si presenta dallo psicologo. Dottore, dottore, soffro di CDO. E che cosa sarebbe questo CDO?, chiede il medico. L’obsessive compulsive disorder, dottore, solo con le lettere disposte nel giusto ordine alfabetico, così come deve essere!!

Prima pubblicazione : 19 novembre 2007

martedì 12 ottobre 2010

Cani e gatti

Cinesi e giapponesi. Come cani e gatti. E non solo per la proverbiale avversione che le due razze manifestano reciprocamente, dietro ai sorrisi, agli inchini e agli altri salamelecchi utilitaristici o di facciata.

Basta osservare i nostri due amici a quattro zampe per riconoscere l’atteggiamento che spesso caratterizza cinesi e giapponesi, quando pranzano.

I giapponesi sono dei gatti. Si avvicinano guardinghi alla pietanza, e non accettano alcunché in sospetto di meno che immacolata qualità. La studiano attentamente e se non fosse cattiva educazione forse la annuserebbero anche, alla ricerca di pecche recondite. Se non supera l’esame visivo, già sanno che non potrà appagare le loro sensibili papille. Anche la refezione più frettolosa e meno pretenziosa deve rispettare certi irrinunciabili canoni estetici.

Emesso il mentale imprimatur, assumono morsetti di cibo cauti e frugali, mangiando con morigeratezza e snobberia tutta felina. Talvolta avanzano delle minime quantità dalle già non abbondanti porzioni. I gesti sono misurati e lenti, il deglutire silenzioso e austero. Gatti.

I cinesi si avventano sul cibo con quella foga che fa presumere antiche fami patite e, come i cani, sembrano inconsapevoli che quello non sarà necessariamente il loro ultimo pasto.

Chiassosi e sbrodoloni, sorbiscono zuppe brodose e si ingozzano di riso scaraventandoselo in bocca direttamente dalla ciotola, i bastoncini usati con gesti secchi e nervosi, come una cazzuola da muratore.

Capaci di mangiare a qualsiasi ora del giorno e della notte, non hanno ore canoniche, e solo quelle, in cui sedersi a tavola. Sono guidati dall’istinto e non dalla convenzione dell’orologio. Quando hanno fame non ragionano, tocca mangiare e, come i cani, trangugiano il cibo disponibile, quello che sia, purché sia.

Riescono a consumare un frettoloso pasto in qualsiasi posizione immaginabile dalla fantasia umana. Se non hanno un tavolo o una sedia, si accucciano per terra e svuotano rapidamente in bocca il contenuto di essenziali contenitori di polistirolo. Del riso. Qualche pezzo di carne. Delle verdure appena sbollentate. Il loro bere è caldo, mai freddo. Un brodo fumante. Da aspirare rumorosamente. La minestra, perfino nella lingua cinese, non si mangia, si beve. Un corposo rutto di apprezzamento di solito segnala la fine del celere rituale.

I cani mangiano perché l’istinto dice loro che bisogna, ma hanno sempre l’orecchio teso e i muscoli pronti a scattare per rivoltarsi, mai un pericolo si palesasse proprio mentre sono inermi, la loro migliore arma d’attacco e di difesa occupata a masticare cibo. Prima finiscono, meglio è. Così i cinesi. Spauriti dalla prospettiva che proprio mentre sono impegnati a fare rifornimento allo stomaco, gli passi davanti un’opportunità di business, e loro la manchino, tracannano tutto con l’urgenza di tornare a fare altro, a lavorare, a produrre. Cani.

Prima pubblicazione : 19 ottobre 2007

sabato 9 ottobre 2010

Dicotomie

Ogni epoca ha avuto le sue. Fomentavano discussioni da bar o dibattiti post-scolastici. Sport e musica i campi applicativi. Binda o Girardengo. Coppi o Bartali. Mazzinghi o Benvenuti. Mazzola o Rivera. Claudio Villa o Gianni Morandi. I ragazzi della mia generazione erano divisi in due schieramenti. O di qua, o di là. Nessun compromesso: o Beatles o Rolling Stones.

I Rolling Stones, nonni rock, inossidabili dinosauri incartapecoriti, a volte inaspettatamente ricompaiono ancora alla ribalta della cronaca. I Beatles, ahimè, dissolto il gruppo già alla fine dei fricchettoni anni sessanta, sono rimasti in due su quattro. George Harrison portato via da un cancro attribuito al troppo fumare. John Lennon rubato da una di quelle morti tragiche e imbecilli, assassinato sotto casa da uno squilibrato una fredda serata di trent’anni fa.

Da ormai antico fan dei Beatles, ho a lungo covato un irrazionale risentimento nei confronti della pietra dello scandalo, quella che è stata da molti additata come la causa dello scioglimento dei fab four: Yoko Ono. Ma il tempo porta consiglio, ed è giunto il momento di riconciliarsi con i fantasmi di un passato irripetibile.

Yoko Ono, settantasettenne signora in nero, si racconta e fornisce di sé un ritratto sorprendente. Proprio vero. Per cercare di capire le persone, bisogna conoscere le società alle quali appartengono. Allora si apprezza che figura inaspettata e particolare sia stata la giovane Yoko quando, contro tutte le convenzioni giapponesi, decise di vivere con un hippie malvestito e capellone. Ebbe pure l’ardire di presentarlo a dei genitori ricchissimi, elitari al punto da sfiorare gli ambienti di corte imperiale, tradizionali come solo l’alta borghesia nipponica sa essere. La famiglia di Yoko vanta antenati di rango, famosi già nel milleottocento, perfino ospitati nei libri dei personaggi notevoli, orgoglio del Giappone moderno.

Un aneddoto: il signor Zenjiro Yasuda, bisnonno di Yoko, fu uomo di grande visione e di fruttifera intraprendenza. Fondò banche che lo resero un riccone. Ma fu altresì uomo estroso e anticonformista. Al punto da osare di rifiutare un’onorificenza imperiale, che lo avrebbe fatto barone.

Anche John, come Yasuda, aveva rinunciato ad un titolo dalla sua Regina, per protestare contro il ruolo inglese nella guerra del Biafra e la posizione del governo nei confronti della guerra americana in Vietnam. E fu naturalmente colpito da tanto ardire e originalità da parte dell’antenato di Yoko. Questo sono io in un’altra vita, le disse osservando una foto dell’avolo Yasuda. Non te lo augurare, replicò Yoko: il bisnonno morì assassinato.

Amara premonizione di un destino comune, che avrebbe portato via John di lì a pochi anni, come già il benefattore Yasuda era stato ucciso da un fanatico ultranazionalista.

La morte insensata e crudele di John fa rifugiare Yoko in ricordi sereni e spensierati dei tempi trascorsi col compagno di vita e di lotte pacifiste, nella sua terra d’origine. Un Giappone intimo e nascosto dagli sguardi indiscreti dei turisti, località montane che hanno conservato come cimeli le foto di questa coppia così inverosimile, lei l’aristocratica fuggita dalla gabbia d’oro per amore di un menestrello e per di più gaijin. Inconcepibile a Tokyo. Ma non in questi luoghi silenziosi ed immutabili, un Giappone bucolico sonnolento e stupefatto.

Oggi qui Yoko riassapora una stagione straordinaria della propria vita. Interrotta brutalmente e irreversibilmente da quei quattro colpi di pistola che hanno portato via, non solo a lei, ma anche a tutti noi, il creatore di Imagine.

A distanza di trent’anni abbiamo capito: John ci manca, ma non quanto a te. Per questo, Yoko, noi vecchi fan dei quattro ragazzi di Liverpool ti ringraziamo. Perché nella irreparabile perdita, sei stata l’unica capace di ricreare l’eterno miracolo della vita, che ci porta indietro nel tempo e ci fa illudere che John sia ancora vivo: Sean Lennon.


Prima pubblicazione : 8 aprile 2010

venerdì 8 ottobre 2010

Ho fatto un sogno

Entravo in uno stadio, in compagnia di una coppia di amici, e nella folla in fila tutti avevano il biglietto. Lo si presentava ordinatamente all’ingresso, nessuno passava attraverso metal detector o griglie, borse e zaini non venivano perquisiti alla ricerca di armi e proietti, si spegnevano le sigarette e si entrava.

Perché in quello stadio, nel sogno, era vietato fumare. Anche se si era all’aperto, anche se c’era del vento, perché era un segno di rispetto, per non nuocere ai polmoni dei vicini.

C’erano bambini. Famiglie. Coppie d’età. Gruppi di amici. Ho sognato che gli adulti, ma non i minorenni, potevano comprare dei bicchieroni di plastica pieni di birra, e tutti divoravano panini enormi e ci bevevano su allegramente ma senza esagerare, e si festeggiava il ritrovarsi tra amici in attesa del match.

Ho sognato fuochi artificiali e girandole che salivano dal centro del campo, e majorettes che piroettavano, mentre sui maxischermi scorrevano delle immagini crude che spiegavano perché lì non si potesse accendere nemmeno una sigaretta, mostrando polmoni e cervelli e gole cancrenose di fumatori incalliti. Ributtante ma efficace.

Ho sognato che a un certo punto entravano i giocatori, e le due squadre facevano insieme un giro di campo, calciando a casaccio una gran quantità di palloni su per le tribune, e nessuno faceva a botte o si scapicollava giù da un parapetto per impossessarsi di tali preziose e gratuite reliquie.

Ho sognato una partita maschia ma non cattiva, dei fans appassionati ma non beceri, una squadra più forte dell’altra che vinceva ma non umiliava, né istigava la propria tifoseria alla violenza con comportamenti riprovevoli.

Ho sognato che vicino a me c’era seduta una nonna, vestita a festa, che improvvisamente al gol saltava di contentezza e si fasciava di una gloriosa sciarpa viola, senza per questo essere derisa o insultata dai tifosi avversari, che erano frammisti a quelli di casa.

Ho sognato che dicevo, ma allora esiste il calcio pulito e sicuro. Esiste la partita che vale la pena andare a vedere, perché ti trasmette dei messaggi positivi. Esiste lo stadio dove vai con gioia, sereno, senza il disagio e l’ansia di essere bersaglio di un mortaretto, una spranga, un coltello, un pisciatoio sradicato dal cesso, un motorino scaraventato giù dalla gradinata superiore.

Ho sognato che dicevo, se questo è un sogno, non svegliatemi.

Ho sognato?

No. Tutto questo è la fedele cronaca della partita tra Perth Glory e Wollongong, semifinale del torneo nazionale di calcio (loro lo chiamano soccer, a distinguerlo dal popolarissimo, velocissimo e bellissimo football australiano, per gli amici e gli estimatori semplicemente il footy), disputata pochi anni fa al Subiaco Oval di Perth. Io ero seduto lì, e quella serata non me la scorderò mai. È stata l’ultima volta che ho messo piede in uno stadio di calcio.

Ai mondiali del 2006 l’Italia ha battuto l’Australia al 90°, grazie ad un rigore rubato. Uno a zero.

Ma l’Australia batte l’Italia nella partita della civiltà. Sei a zero. E non è nemmeno una partita di tennis.

Prima pubblicazione : 1 settembre 2008

mercoledì 6 ottobre 2010

Toccato da un mito

Non sono mai stato un cacciatore di autografi, non ho mai capito o subito il fascino morboso che spinge la gente ad avvicinare, parlare, toccare, farsi fotografare con una cosiddetta "celebrità", in special modo perché spesso la fama del suddetto risulta essere o immeritata o effimera, non ho mai condiviso quel senso di esibizionismo misto a presenzialismo che induce un normale individuo a cercare il contatto con i VIP (che brutta parola!), per poi sfoggiare con amici e parenti il momento magico, quei due minuti di gloria per interposta persona, solitamente con la star che esibisce uno stanco e falso sorriso di circostanza e il popolano che si protende verso il personaggio ma, colto da improvvisa pudicizia, non osa toccarlo, sortendo curiosi effetti equilibristici noti come Torre di Pisa...

Ma quando ho scoperto chi si nascondeva dietro il capannello di persone affollato attorno a una di quelle automobilette che negli aeroporti trasportano le persone non autonome nel movimento, sono rimasto abbacinato, stregato.

Muto, attonito, immobile, non riuscivo a far altro che fissare quegli occhi straordinari che mi scrutavano intensamente e insieme ridevano. Finché mi ha porto la mano. Incredibile. Quei suoi occhi penetranti leggevano dentro di me, vedevano il mio ritegno, ma anche il mio desiderio, così ha fatto lui il primo gesto. Ha allungato il braccio, come a chiamarmi, come a dirmi, sì, credici, sono proprio io, vieni avanti, dammi la mano, non ti faccio del male. Ho stretto quella mano bellissima e terribile insieme per un tempo che mi è sembrato un istante. O un'eternità.

Era lui. Il mito. Il più grande. Muhammad Ali. Il più grande pugile del mondo.

E mentre tenevo tra le mie quella mano resa scarna dall'età, pur sempre grande e spaventosa, ma sorprendentemente calda e dolce, quasi delicata al contatto delle mie, non sono stato capace di mormorare altro che due parole, sei il più grande, le uniche cose che sono riuscito ad articolare nella mia testa mentre ero lì mano nella mano con Cassius Clay.

Non ha parlato, ma i suoi occhi luminosi mi hanno sorriso, pieni di orgoglio e di consapevolezza.

Dopo avere lasciato quella mano prodigiosa, sono rimasto lì, a rimirarlo, ancora non volevo andarmene, incapace come ero di rinunciare a quello sguardo magico e pieno di vivacità, ricco di energia e di una calma contagiosa. Mi faceva male vederlo arrembato da una folla eterogenea di passeggeri, inservienti aeroportuali, equipaggi i più svariati, non c'era rispetto nel comportamento di questa gente, volevano solo posare con lui, rubare un suo ritratto, portarsi a casa una foto guarda un po' con chi, in un ridicolo passamano di telefonini con macchinetta fotografica incorporata. Non era un omaggio a un mito, era solo un'edonistica ostensione di se stessi accanto al VIP di turno. Che tristezza.

Nessuna immagine avrebbe potuto essere più forte di quella stretta di mano, di quegli occhi magnetici e ridenti che si facevano beffe della malattia. Non ho voluto portare con me un ricordo tangibile, una sua fotografia. Men che meno con me accanto a lui. Il calore di quella mano era stato sufficiente a farmi pulsare il cuore di emozione per essere alla presenza di una grande persona, di commozione per l'energia e la vitalità che trasmetteva.

Degli addetti stavano portando vicino al suo mezzo una di quelle strutture tubolari con ruotine a cui si appoggiano i nonni malfermi che non riescono più a camminare autonomamente.

L'ho fissato ancora una volta diritto negli occhi, mi ha sorriso e anche i miei occhi ridevano, allora mi ha salutato con il pugno stretto, serrato, da boxeur, mostrandomelo come a dire sono ancora il più forte.

Sono scappato da quegli occhi fieri e scintillanti e da quelle mani grandi e magiche prima che si alzasse, per ricordarmi di lui la figura agile e possente della meravigliosa farfalla che danzava sul ring ma pungeva come un'ape, nelle immagini in bianco e nero di quando ero bambino e lui era già il più grande.

Non capita tutti i giorni di incontrare un mito. Diecimila volte più raro è che si conceda a te con la semplicità, con la naturalezza, con la grazia che emanava questa persona straordinaria. Che ti offra una stretta di mano per trasfonderti la sua energia, il suo calore. Che ti illumini con quegli occhi dalla luce incantatrice.

Muhammad Ali, hai regalato a uno sconosciuto un momento di grande emozione. Per questo sei - ancora e per sempre - il più grande.

Prima pubblicazione : 28 luglio 2007

sabato 2 ottobre 2010

L’ultima meta

Gli dei sono permalosi. Una splendida citazione che amo e che rubo, chiedendogli scusa, ad Alessandro Baricco, che parecchi anni fa ha raccontato, fortunato lui ad esserci stato, l’impresa in terra di Francia degli All Blacks di quando imperava Jonah Lomu.

Tanto mi lascia indifferente il calcio, con i suoi sordidi stratosferici interessi, con i suoi striminziti punteggi, con le sue pastette e le sue manfrine da tuffatori in area, con i suoi pareggi a reti inviolate, con le simulate violenze in campo e quelle autentiche sugli spalti, quanto, per sommo contrasto, mi accende, mi entusiasma, mi scalda il cuore una partita di rugby. E massimamente se a giocarla sono dei campioni.

Schierato come tutti i tifosi, illogico come tutti gli appassionati, ho sempre nutrito un’ammirata devozione nei confronti di quell’ammasso di travolgente potenza che sono gli All Blacks.

Saranno quei visi da antichi guerrieri Maori, bellissimi ed orgogliosi, il coraggio tatuato sulla faccia. Sarà l’Haka, Ka mate, ka mate, ka ora, ka ora. È la morte, è la vita. Danza di guerra per presentarsi, per incutere soggezione e rispetto negli avversari. Sarà quel minaccioso, lugubre completo corvino con il quale scendono nell’arena dell’ardimento, a macinare sudati metri e lombi degli oppositori e zolle di terra grosse come badili. Sarà quella fama planetaria che li accompagna ovunque, mista ad un non altrettanto stellare palmares nelle competizioni che contano davvero.

Ma quando vedo quei quindici fenomeni arrembare verso i due pali che sono il desiderio di ogni rugbista, vengo rapito e nulla è più importante fino alla fine del match. Non ho mai avuto la fortuna di assistere dal vivo al derby per antonomasia. Ero sempre lì nel weekend sbagliato, oppure nella città sbagliata, quando giocavano Australia e Nuova Zelanda. Ho rischiato l’incidente diplomatico, dichiarando la mia passione per i Kiwi ad amici australiani. Certe relazioni hanno vacillato. Sono stato rimbrottato da un doganiere, all’arrivo a Brisbane da Auckland, che mi ha guardato storto e mi ha detto wrong hat!, ammiccando per nulla divertito al mio cappellino nero con la felce degli All Blacks, inopportuna provocazione ad un poliziotto presunto fan dei Wallabies.

Anche questa volta mi sono accontentato di vederli in televisione, con un commentatore australiano smaccatamente di parte, che non mi ha tolto nulla dal piacere dello spettacolo.

Tre Nazioni. Si gioca ad Auckland, All Blacks contro Wallabies. La furia nera in casa è travolgente. Combattono, mordono ogni pallone. Dopo i primi quaranta minuti di mischie furibonde, di arieti che si incornano per conquistare un metro, di scarti da ballerino eseguiti da montagne di muscoli, di spazi sanguinosamente guadagnati sfondando muraglie umane che ti si avvinghiano addosso come piovre, gli All Blacks hanno saldamente in pugno la partita, 21 a 10.

Ma è nel secondo tempo che si vedono scendere in campo quindici tigri. Due mete di Nonu e Kaino e dei calci piazzati portano il punteggio a 34 contro 10 quando mancano dieci minuti alla fine. Dei Wallabies nemmeno l’ombra, inchiodati su quei dieci vergognosi punti racimolati nella prima parte del match con una misera meta ed una punizione da tre. Una débâcle.

Ed è a questo punto che si scopre l’anima vera del rugby. Nel calcio, sul corrispondente 4 a 0, si farebbe melina da una parte, tanto per fare arrivare il novantesimo senza danni alle pregiate caviglie, e dall’altra si assisterebbe a qualche annoiato tentativo di segnare almeno il gol della bandiera, giusto per dire c’eravamo anche noi. Fischi e cachinni del pubblico pagante.

Nell’autentico, siderale rugby no. Gli australiani estraggono da qualche parte una dose nascosta di orgoglio e lottano finalmente come leoni per condurre quella maledetta saponetta ovale in meta, come se quindici punti invece che dieci facessero la differenza. Niente da fare. La testuggine neozelandese non cede un metro. Gli dei sono permalosi. Avete giocato male? Sarete puniti. Non meritate questa meta.

Mancano sette secondi all’ottantesimo. Un’inezia. Dall’ennesimo gruppo laocoonteo sbuca una palla che piove tra le braccia possenti di Ma’a Nonu. Dopo ottanta minuti mozzafiato parte ancora come un cavallo da corsa, punta diritto all’angolo sinistro del campo, lontano dalle insidie degli avversari. Sembra che nulla al mondo possa fermare quel volo libero e selvaggio di energia, ma una locomotiva australiana è in rotta di collisione con lui, lo intercetta, gli si infrange contro schiantandolo contro il paletto d’angolo del campo, che beneficamente si flette sotto l’urto dei due bisonti avvinghiati.

Nonu è a terra. Travolto. Ha perso il pallone. Sconfitto? Mai. La sua mano si allunga, si percepisce tutta la sua forza che si sta trasferendo in quelle dita protese, in un’esasperante, infinita frazione di secondo, verso quell’ovale bianco così irraggiungibile. I corpi affranti sono lontani, ma le dita di una mano, da sole, fanno il miracolo. Si abbarbicano al pallone fuggitivo, lo addomesticano, lo convincono a farsi dolcemente, delicatamente depositare sull’erba rilucente nella notte invernale neozelandese. Meta? Chissà.

Talmente fulmineo, talmente inumano da richiedere la prova televisiva. L’arbitro si consulta con la regia, ascolta l’auricolare, parlotta, poi riceve e trasmette il verdetto.

Try. L’ultima meta. Pubblico in visibilio. Altri cinque punti, e che importa se il calcio piazzato a seguire, da un angolo impossibile, va fuori, il fischio finale fotografa un 39 a 10 per gli All Blacks che parla non di una sconfitta ma di una disfatta australiana.

L’anima bella, pura, onesta del rugby è tutta nell’immagine finale. Lottare fino all’ultimo secondo, ed oltre ancora, non importa se si sta già stravincendo, o straperdendo. Dare tutto, e anche di più. E poi, alla fine, una inusitata cavalleria densa di rispetto, che suggella una partita stratosferica. Le due squadre si complimentano e si fanno ala a vicenda, ricevendo l’applauso corale degli avversari, all’uscita dal campo. Signori, giù il cappello. Questo sì che è sport.

Prima pubblicazione : 9 agosto 2008