lunedì 23 luglio 2012

Un sarto nel buio

Il compianto Gianni se n’è andato quindici anni fa. Restano Santo e Donatella. Son due, no? Ecco spiegato il plurale.


Il fratello dimenticato dei più famosi Giorgio ed Emporio. Forse perché appartenente al ramo cadetto della famiglia, viene ingiustamente tenuto lontano da sfilate e passerelle.


Derby in terra straniera? Strizzata d’occhio a entrambe le fedi calcistiche meneghine, mai si dovesse perdere un cliente danaroso? Comunque non ci entrerei. A parte la vetrina col vestitino rosso da sciantosa, sono – tiepidamente – della Juve. Datemi piuttosto un Johnny Lambs Fashion (visto davvero in Corea parecchi anni fa. Giuro).


Eccola, la vera sarta. Come mille sue colleghe, silenziose e senza diritti, apre bottega ogni giorno lungo strade e vicoli di Bangkok. Per tetto un ombrellone. La fedele compagna di lavoro è una vecchia Singer a pedale, che non richiede corrente ma solo faticoso sfarfallar di piedi. Una cassetta piena di rocchetti variopinti. Su un pallet consunto le buste con gli ordini. Orlare. Imbastire. Cucire. Riparare. Accorciare.

Qualcuno intanto sorride mellifluo e invita i clienti nei freschi negozi condizionati, chiedendo dollaroni fruscianti per vestiti sartoriali pronti in ventiquattr’ore e consegnati perfino in albergo. Mentre là fuori le lavoranti sfruttate, metro di stoffa al collo, cuciono e cuciono. E cuciono.



mercoledì 18 luglio 2012

Clic generation

Ci sono capolavori assoluti, emozionanti a prescindere. Non importa quante volte uno abbia la fortuna di rivederli. Ogni volta è come se fosse la prima. Uno di questi è la Pietà: Michelangelo, il suo genio, la sua straordinaria manualità al loro massimo.

La plasticità immota del Cristo morto. La delicatezza ieratica di una madre colta nel momento orribile in cui regge fra le braccia il cadavere del figlio. La preziosità leggiadra dei tessuti drappeggiati nel marmo da mano maestra.

Dei particolari sembrano sul punto di animarsi, lì per lì. La mano della Madonna che si insunua tra il braccio e il costato di Gesù, dalla testa esanime e abbandonata all’indietro. Il volto di Maria, innaturalmente giovane e morbido, sereno quasi, lontano dalla pena infinita della deposizione del figlio crocifisso. Il corpo seminudo del Cristo, affranto ma nel contempo aitante e bellissimo.

Tutto questo Michelangelo è stato capace di trovare – magia sublime – in un inanimato blocco di candido marmo di Carrara. E di regalare – nei secoli a venire – emozione imperitura alle generazioni fortunate a sufficienza da entrare un giorno in contatto col suo sommo capo d’opera. Sembra quasi di vedere la mano dello scultore che a poco a poco toglie il materiale superfluo, rivelando il capolavoro che è sempre stato nascosto lì dentro.

Oggi purtroppo, nell’epoca della comunicazione digitale, nessuno si è davvero soffermato ad ammirare nei dettagli l’incanto di questa meraviglia. Centinaia di persone, dai cinque continenti, e sempre la stessa routine. Si aspetta in coda. Si conquista il posto davanti alla marmorea balaustra che la recinge. Si inquadra. Si scatta. Si controlla. Se non è venuta bene, si armeggia un po’ con le regolazioni e se ne prova un’altra. Ecco fatto. Passiamo al prossimo oggetto da documentare. Poi la Pietà ce la guarderemo con comodo a casa, magari sul maxischermo della nuova tivu talmente smart (intelligente) da potersi permettere proprietari dumb (cretini).

Video, ergo sum. Questo è l’errore – o l’orrore, fate voi – dell’era odierna. Se non l’ho fotografato, non esiste. Si fissa l’immagine, ma non ci si ferma ad ascoltare cosa trasmette quell’opera d'arte. E subito si corre oltre, pressati dall’urgenza di vedere tutto, senza in realtà aver visto nulla. Quantità, non qualità.

Così questo racconto è privo di foto. Perché per quasi un’ora sono stato immobile e ammutolito di fronte alla Pietà, completamente rapito da questa prova palpabile del genio umano. E perché le parole talvolta sanno descrivere le emozioni che nessuno scatto è in grado di fermare e riprodurre. Quelle emozioni che Michelangelo, secoli dopo la sua morte, continua a suscitare, in chi ha occhi e cuore per provarle. Grazie, Maestro, di essere esistito.




martedì 10 luglio 2012

MCMXI

Millenovecentoundici. Un secolo e un anno fa vedeva la luce questo palazzo.

Cannes? Montecarlo? Sanremo forse?

No: Hanoi, Vietnam. Ecco perché mi piace ancora questo luogo che sta cercando di crescere, con l’ambizione di diventare una nuova, piccola Cina. Ma senza rinnegare il proprio passato. E soprattutto senza radere al suolo le architetture non conformi ai nuovi canoni: se non son almeno quaranta piani, non vale nemmeno la pena comiciare a piazzare le gru. Se non assomiglia ad un cubo di Rubik di vetro e cemento, c’è qualcosa di sbagliato nel progetto.

Mentre invece a volte bastano piccoli particolari, come una lounge dal nome in numeri romani, oppure un teatro dalla facciata d’epoca ben conservata, per farti sentire più vicino a casa, meno straniero. Meno fuori luogo.





domenica 8 luglio 2012

Konopizza

Viaggiatori, turisti, occasionali visitatori d’oltre confine. Quali sono i cibi che maggiormente identificano l’Italia nell’immaginario collettivo? Magari qualcuno non concorderà: ma per me sono la pizza ed il gelato. Va beh, gli americani ci provano sempre ad attribuirsi la paternità dell’allegra vivanda partenopea, grazie a catene di pizzerie che spesso propinano atrocità inimmaginabili a chi non abbia mai varcato i confini della Campania. Il gelato, quando non è spalettato da abili giocolieri turchi che sollazzano le clienti con divertenti siparietti, manovrando con consumata sapienza coni multigusto, viene per solito associato alla città di Napoli. Neapolitan icecream, recano scritto i mille chioschetti che vendono pallidi gusti di frutta o creme dai colori sospetti.

Ebbene, qualche animo perfido ha pensato bene di fare accoppiare queste due semplici delizie tutte italiane, dalla cui innaturale unione è nata una creatura aliena e inquietante: Konopizza. Il chiosco era chiuso, per cui non ho potuto documentare l’abominio in corso d’opera. Ma queste immagini bastano a far venire la pelle d’oca a chiunque abbia una goccia di sangue italiano, ed un briciolo di senso della tradizione. Un convogliatore trasporta all’interno del macchinario la pasta da cuocere, passando attraverso delle umilianti forche caudine in guisa di cono rovesciato. Nemmeno voglio immaginare come siano distribuiti gli ingredienti tipici della pizza all’interno del geometrico contenitore. Non so cosa esca dall’infernale apparecchio, e credo sia stata una fortuna non scoprirlo. Ci sono cose nella vita che non si vogliono sapere. Ed infine: raramente trovo cose o situazioni che mi offendono, ma stavolta ho fatto un’eccezione. Quell’”italia” (per inciso: minuscolo?! Please, un po’ di rispetto per la nostra nazione) piazzato lì, accanto al bizzarro nome commerciale, a cercar mendacemente di rinforzare il concetto di italianità, proprio non mi è andato giù. Sebbene sia di sicuro meno indigesto del konopizza.


No comment.



martedì 3 luglio 2012