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martedì 8 ottobre 2013

Fire escape device


Corda, due paia di guanti, maschere antifumo, martello appuntito per rompere il vetro della finestra. Era davvero tanto tempo che non trovavo in una camera d’albergo un set completo per mettersi in salvo in caso d’incendio. L’ultima volta mi era successo a Taiwan, nel 1998. Mi aveva incuriosito al punto da scrivere un raccontino.

Paese che vai...

... attrezzature che trovi. Mi era capitato di scoprire, nelle camere di albergo, le cose più sorprendenti, almeno per gli standard degli hotel nostrani. Un kit di emergenza antincendio costituito da una maschera antigas (Corea), istruzioni dettagliate su cosa fare e come non farsi prendere dal panico in caso di terremoti (Giappone e Taiwan), le paperelle di gomma sul bordo della vasca da bagno (Inghilterra), perfino i preservativi in confezione da tre (con tanto di prezzo nella lista del minibar) gaiamente proposti fra noccioline, mignon di liquore e patatine per lo spuntino notturno (Brasile, e dove altro sennò?).

Ma la scatola metallica bianca che trovo in un angolo della stanza, a Kaohsiung, supera la mia capacità di non sorprendermi più. Ascend escape device, le uniche parole leggibili in una selva di caratteri cinesi, risaltano in rosso vivo sul coperchio. Un cartello di plastica per l’uso del contenuto, privo di traduzione, ma per fortuna con disegnini esplicativi, fa bella mostra di sé sulla parete.

Possibile?, mi chiedo guardando le istruzioni. Possibile. Sollevo il coperchio, e trovo, ordinatamente disposti, un verricello, una grossa matassa di fune da alpinista, un moschettone ed un’imbragatura.

Però! E se mi venisse la voglia di usarlo per calarmi dal nono piano, in caso di emergenza? Osservo le istruzioni, considerando quanta gente troverebbe il sangue freddo necessario - magari col fuoco che incombe - per passare cento metri di fune attraverso il verricello, agganciarla correttamente al moschettone, e quest’ultimo all’imbragatura, dopodiché vestirla, e poi…. Già, e poi? Per calarsi da trenta metri occorre assicurare il verricello ad un gancio infisso nel muro, peccato che esista solo sul cartello appeso alla parete. E la finestra? Sigillata. Neppure un martelletto di quelli che vedi sulle porte sugli autobus, rompere il vetro in caso di necessità. Un appiglio dove tentare di agganciare il verricello? Nemmeno a parlarne, facciata verticale e liscia come un patinoire!

Risultato? Un’attrezzatura pensata in grande. Peccato che si sia pensato in grande, ma solo a metà!


Ma stavolta in Corea ho trovato l’anello mancante. Letteralmente. Sotto la scrivania, vicino alla finestra, ben imbullonato a terra c’era un robusto tassello a testa tonda, a cui agganciare la corda. Meno male. Hanno pensato anche a quello, oltre al martello assente a Taiwan.

Ah, a proposito di emergenze. Da qualche parte ho letto una di quelle notiziole che potrebbero un giorno tornare utili (anche se si spera di no…). Quando arrivate in un albergo, scegliete sempre – se possibile – una camera fino al settimo piano. Strane superstizioni? No: pare che le autoscale dei pompieri si estendano solo fino a quell’altezza. Quindi, in caso d’incendio, se siete più su dovete farvela a piedi per le scale. Oppure, ammesso che abbiate la corda d’emergenza in camera e il sangue freddo per agganciarla e calarla, dovete pregare che le vostre braccia vi reggano per l’intera discesa, magari mentre tutto intorno l’edificio sta bruciando… Fate voi. Se avete un fisico bestiale, liberi di scegliere il piano che più vi aggrada. Se no, ricordatevi il numero magico: sette.




venerdì 5 ottobre 2012

Feticismi – Due



Aeroporto di Taipei. Sui maxischermi dei banchi check-in dell’aviolinea locale campeggia l’inequivocabile sagoma del felino più adorato in oriente – e non solo: Hello Kitty. Cosa c’entra l’onnipresente vezzosa gatta con un affare serio come volare? C’entra, c’entra. In un crescendo rossiniano, scopro una fila di macchine per stamparsi da sé la carta d’imbarco (anche a quelle latitudini si cerca di risparmiare sui costi del personale d’aeroporto) che sembra un luna park: tutto rosa, neon scintillanti, fiocchetti e vibrisse ovunque. Un gatto ti osserva mentre inserisci la tessera. Inquietante. Ma capace di suscitare gridolini di sorpresa ed euforia nelle fanciulle locali, che subito si cimentano nel self-check-in e poi esigono una foto dal filarino accompagnatore.

Per non parlare del telefono a moneta, baroccamente colorato di rosa antico, incorniciato da eleganti stucchi classici, ma sinistramente sormontato dalla silhouette felinomorfa che tutto firma. Quando si telefona da lì, probabilmente è buona creanza non limitarsi al classico incipit inglese, ma completare la locuzione: hello? Kitty!

Ho saputo che gli audaci autori di cotanta sinergia tra aviazione e pupazzi si sono spinti ben oltre. Un aereo è interamente arredato nel melenso stile del nostro gatto. Coperte e cuscini rosa. Hostess con grembiulini in tinta. Addirittura i cibi serviti in volo riproducono le fattezze di HK.










Feticismi. Perché tutto questo dispendio di energie monotematiche non può avere come obiettivo solo la classe consumatrice dei bambini. Conosco personalmente persone ben dentro l’età adulta che si circondano di ninnoli e balocchi dell’attonito felino, pur avendo lasciato alle spalle – e da un pezzo – gli anni della fanciullezza.

Feticismi. Per fortuna, salvo un po’ per il portafoglio, innocui.



domenica 11 marzo 2012

Drogati da lavoro

L’autista che di prima mattina ci porta dalla parte opposta dell’isola di Xiamen guida peggio della media dei taxisti cinesi. Scatti repentini. Spostamenti di corsia all’ultimo minuto. Appeso al volante in una postura del tutto innaturale. Ci sono momenti che sembra quasi cadere sul parabrezza.

Visto dal sedile posteriore non è un bello spettacolo. Mi viene in mente una battuta, per cercare di sdrammatizzare l’impalpabile tensione tra i tre passeggeri – tutti italiani – del mezzo disordinato. Ma questo ha imparato a guidare sugli autoscontri? No, mi dice il collega esperto di Cina seduto accanto al guidatore. È drogato. Ah, bene, fa piacere essere in balia di un taxista drogato. Non posso dire il nome cinese, continua, se no capisce che parliamo di lui, ma si è fatto di betel. Guidano tutta la notte, e la mattina, per riuscire a continuare il turno, masticano la noce del betel. Così rimangono svegli, ma in una specie di trance drogata, che causa improvvisi risvegli di coscienza e relative reazioni al volante. Il turno medio è dodici ore, a Shanghai c’è gente che per arrivare a fine mese lavora senza mollare il volante per sedici ore. Due terzi di giornata nel caos del traffico shanghainese. Drogati da lavoro.

Tutto provato sulla nostra pelle in quei pochi chilometri che però sembrano molti di più. E poi qualcuno mi chiede ogni tanto, con tutti gli aerei che prendi, ma non hai paura di volare?

Noce di betel. Mi ricorda un vecchissimo racconto mai pubblicato, Binlang xishi, scritto a fine secolo scorso durante una visita a Taiwan.

Gli automobilisti si fermano per strada, per comprare dalle Xishi, avvenenti signorine succintamente vestite, il Binglan, l’eccitante betel. Come per i sudamericani la foglia di coca. Binglan, il chewing gum dei taiwanesi.


Binlang Xishi (檳榔西施)

Se qualche ignaro forestiero si trovasse per la prima volta nel traffico di Taipei, potrebbe sorprendersi o preoccuparsi (o magari stare male, se particolarmente sensibile), nel vedere un guidatore di camion che ha un improvviso sbocco di sangue mentre è alla guida. Niente paura. Si tratta solo del chewing-gum taiwanese. Molto diverso dal nostro concetto. È un piccolo involucro fatto con una foglia ripiegata, nel cui interno c’è una sostanza rossa, a base di calcio, che si mastica e poi si sputa (per la strada, dal finestrino), lasciando tracce indelebili ed oscene, che imbrattano il suolo – e decorano a strisce purpuree le fiancate dei camion. Al punto che un recente regolamento prevede che le venditrici del suddetto, insieme con la dose giornaliera, forniscano anche dei bicchierini di plastica per gli espettorati dei fruitori. E dose non è un termine ambiguo. Anzi. C’è gente qui che arriva a spendere anche duecentomila lire al giorno, per mantenersi il vizio del chewing-gum. Dipendenti. Peggio del fumo, peggio di una droga.

Si trova dappertutto, e chi lo vende sono fanciulle in vetrina, parcheggiate in gabbiotti ai bordi delle strade, presenti ovunque in quantità imponente. Filari di lucine colorate, quelle degli alberi di Natale, lampeggianti rossi rotanti, presi a prestito da qualche trasporto eccezionale, ed altri ingenui richiami visivi servono ad attirare i clienti. Ma il richiamo maggiore sono le gambe delle fanciulle, ostentate attraverso la vetrata che si affaccia sulla strada. Gonne microscopiche, gambe accavallate. Facile fermarsi. E non c’è neppure bisogno di scendere dalla macchina. Sollecite, le ragazze escono dal gabbiotto, esibiscono le loro scoperte grazie e forniscono il necessario. Chewing-gum, sigarette o altri generi di conforto, che talora sconfinano nella profferta di una veloce prestazione amorosa, da concordarsi sul momento, da consumarsi nel retro – attrezzato all’uopo – del box. Non c’è, probabilmente, un solo posto al mondo privo di prostitute. Mai viste, però, camuffate da venditrici di chewing-gum.


Prima redazione di Binlang Xishi : febbraio 1999