martedì 18 dicembre 2012

Say no to drugs

A volte è più difficile scegliere un titolo che scrivere il testo. Mai Più Senza? Braccia rubate all’agricoltura? Basta con le nostalgie di Cuore, che pur ci sono, inutile nasconderlo. Say no to drugs, dite no alla droga? O ancora, un evergreen dei miei viaggi: T.I.C.? Alla fine ho scelto il più provocatorio.

Perché certi appelli te li strappa da dentro la Cina di oggi. Dove si può trovare, fieramente esibito in uno spiazzo di cemento tra grattacieli di vetro, acciaio e altro cemento, proprio nel centro di Shanghai, questo pregevole manufatto.

Allora un bonario monito all’artista è d’obbligo. Suvvia, basta abusare di sostanze allucinogene, che fanno travisare la realtà e creare bestie fantastiche. È vero, anche gli antichi farneticavano di creature inesistenti, talora frutto di impossibili incroci tra umani e animali. Sfingi, arpie, manticore, chimere, minotauri e sirene hanno popolato la fantasia di cento generazioni – a dir poco.

Ma abbiate pazienza: vogliamo mettere l’enfatica potenza della Sfinge di Giza, o la leggiadria della Sirenetta, sensualmente accoccolata sullo scoglio di Copenhagen, con questo sconclusionato rinoceronte, affardellato da un’incongrua pinna di squalo sul dorso e da una proboscide – che pare un innaffiatoio da balcone – innestata su un buffo muso dagli occhi di sorcio?

È arte? Mah. Per me no. Questa, se permettete, è Arte. Immortale. E con la A maiuscola.



sabato 15 dicembre 2012

Grazie, Maya

Edizione speciale, in occasione dell’apocalisse prossima ventura, di Mai Più Senza. Perchè se c’è chi legalmente non solo inventa, ma addirittura trae profitto (e che profitto: guardate il prezzo!) da merci di siffatta utilità e levatura, allora hanno ragione i Maya a predirci sventure massime e fini del mondo imminenti.

Ci sono momenti in cui conoscere l’inglese risulta un handicap. Perchè avrei vissuto volentieri questo precario scorcio di esistenza facendo a meno di sapere che qualcuno – si presume dall’altra parte dell’Oceano Altantico – offre in libera vendita una pillola per… no, proprio non ce la faccio. Vi prego: leggete direttamente voi. Ma vi avverto: chi non comprende la lingua d’Albione davvero è fortunato. Agli altri consiglio un collirio. Perchè quando avranno finito di strofinarsi gli occhi dall’incredulità, ne avranno bisogno.


Coraggio. Mancano solo sette giorni al fatidico 21. Cercate di vedere il lato buono della faccenda. Dopo tale data, forse, niente più pillole dorate. E se siamo particolarmente favoriti dalla sorte, nessuna traccia neppure del loro inventore. Ah, benedetti Maya...



lunedì 19 novembre 2012

I colori dell’autunno

Le Langhe sono un posto magico. Sarà quell’atmosfera speciale, il susseguirsi di piani di colline e saliscendi a perdita d’occhio. Sarà il fascino di quel terreno giallo e friabile che genera anno dopo anno vini straordinari. Sarà l’irripetibilità di un microcosmo sempre uguale a se stesso, che in tempi di mordi e fuggi da globalizzazione esibisce con fierezza contadina aziende pluricentenarie ancora saldamente in salute.

Le Langhe sono uno di quei rari posti che sanno esser belli tutto l’anno. D’inverno, immersi nelle brume, con i filari spogli, mille e mille dita che indicano un cielo incupito e gravido di neve. In primavera, col risveglio dal letargo invernale, le prime foglioline che fanno capolino nei vigneti e i noccioli intirizziti che si scuotono di dosso la rugiada. D’estate, quando il calore del sole esalta le vigne e ogni filare mostra orgoglioso i suoi grappoli preziosi. E infine d’autunno.

L’arcobaleno della natura è un tramonto novembrino con il sole sospeso in quella lingua di cielo tra le nuvole e i crinali puntuti di campanili e torri. E illumina con i suoi ultimi raggi una gamma tonale degna di un Pissarro. Signori: ecco a voi le Langhe. D’autunno.







giovedì 8 novembre 2012

A un’amica scrittrice

Conosco Silvia da un annetto a malapena. Eppure ci sono dei momenti, nel suo libro, in cui mi sono detto, ma qui sta parlando di me, qualcosa come quindici anni fa. Le stesse parole. Gli stessi pensieri.

Molte donne si identificheranno in Viola. Io mi ritrovo ritratto in Mauro, l’altro protagonista. L’antagonista. Lei passata attraverso un’esistenza in secondo piano, docile compagna di vita offuscata dalla pubblica fama di un geniale direttore d’orchestra, costretta in un ruolo che alla fine si rivela opprimente e frustrante. Lui sempre in fuga da qualcosa, i fantasmi di un’infanzia infelice, pronto a negarsi per paura di soffrire.

Sono un pessimo lettore. Se un libro non mi prende, arranco faticosamente fra le pagine come un ciclista scoppiato sulle rampe del Ghisallo, finché mi arrendo, lo poso e so già che non riuscirò a riaprirlo. Poi ci sono libri che scorrono, facili, belli da leggere, un capitolo via l’altro, piluccati di gusto, come ciliegie succose. E – rari davvero – quelli che, appena terminati, avrei voglia di ricominciare a leggere, solo per apprezzare appieno ogni sfumatura, per sottolineare – a matita, per carità – le frasi più belle, le immagini più vivide, le parole che mi emozionano e mi fanno pensare, come mi piacerebbe saper scrivere così. Il Tempo Tagliato appartiene a questa rara stirpe.

Una prosa curata, raffinata. La capacità di rappresentare i sentimenti narrati, la penna trasformata in pennello che affresca dolori, timori, sussulti di cuore e passioni incipienti. E poi quel viaggiare tra Cuneo e la costa Nizzarda, che mi è cosa cara, vicina, familiare. La delicatezza di un finale annunciato ma non detto. Mai una sbavatura. Mai una caduta di stile. Una signora scrittrice, una scrittrice signora.

La storia non ve la racconto. Ci sono mille maniere per sapere di cosa parla il primo libro di Silvia Longo. Vi dico solo questo. Una che scrive, la morte è viva: la mia mente si ostina su questo ossimoro, va assolutamente letta. Parola di Homing Pigeon.






venerdì 5 ottobre 2012

Feticismi – Due



Aeroporto di Taipei. Sui maxischermi dei banchi check-in dell’aviolinea locale campeggia l’inequivocabile sagoma del felino più adorato in oriente – e non solo: Hello Kitty. Cosa c’entra l’onnipresente vezzosa gatta con un affare serio come volare? C’entra, c’entra. In un crescendo rossiniano, scopro una fila di macchine per stamparsi da sé la carta d’imbarco (anche a quelle latitudini si cerca di risparmiare sui costi del personale d’aeroporto) che sembra un luna park: tutto rosa, neon scintillanti, fiocchetti e vibrisse ovunque. Un gatto ti osserva mentre inserisci la tessera. Inquietante. Ma capace di suscitare gridolini di sorpresa ed euforia nelle fanciulle locali, che subito si cimentano nel self-check-in e poi esigono una foto dal filarino accompagnatore.

Per non parlare del telefono a moneta, baroccamente colorato di rosa antico, incorniciato da eleganti stucchi classici, ma sinistramente sormontato dalla silhouette felinomorfa che tutto firma. Quando si telefona da lì, probabilmente è buona creanza non limitarsi al classico incipit inglese, ma completare la locuzione: hello? Kitty!

Ho saputo che gli audaci autori di cotanta sinergia tra aviazione e pupazzi si sono spinti ben oltre. Un aereo è interamente arredato nel melenso stile del nostro gatto. Coperte e cuscini rosa. Hostess con grembiulini in tinta. Addirittura i cibi serviti in volo riproducono le fattezze di HK.










Feticismi. Perché tutto questo dispendio di energie monotematiche non può avere come obiettivo solo la classe consumatrice dei bambini. Conosco personalmente persone ben dentro l’età adulta che si circondano di ninnoli e balocchi dell’attonito felino, pur avendo lasciato alle spalle – e da un pezzo – gli anni della fanciullezza.

Feticismi. Per fortuna, salvo un po’ per il portafoglio, innocui.



giovedì 4 ottobre 2012

Feticismi – Uno

Quanti di voi conoscono almeno un feticista dell’auto? Uno di quelli che passano le domeniche a lavarla, lucidarla e coccolarla. Che per un graffietto sulla carrozzeria fanno delle tragedie che manco il Re Lear. Che concederebbero il suo volante ad un conoscente più malvolentieri delle grazie della moglie.

Secondo me tra questi invasati del dio motore c’è più d’uno che ha fantasticato di portarsi l’amato bene in salotto. Singapore, terra del lusso e dell’esibizionismo edonista, questo sogno lo ha trasformato in realtà – probabilmente in cambio di un sontuoso gruzzolo di dollari.

Passo accanto all’ennesima torre multipiano, appena sorta – come araba fenice – dalle ceneri di un vecchio e onesto albergo che non rendeva a sufficienza per non soccombere al fato distruttore in guisa di crudeli macchinari dentuti e martellanti. Davanti all’ingresso sbrilluccica una corrusca scultura ipermoderna, una specie di trombone partorito dalla fantasia allucinata di un artigiano in acido. Ma è il montacarichi, innaturalmente a vista, e per di più con opulenti giochi di luci cangianti – dal rosso al giallo al blu – all’interno del vano, a destare i miei sospetti. Dai. Troppo grosso perfino per una lavatrice industriale o un sofà monopezzo ingestibile in una tromba delle scale. E poi, una volta finito il trasloco, a cosa serve una serranda larga come quella di un negozio, anzi di più?

Repentina l’illuminazione. Ora ricordo: ho letto da qualche parte di questa ultima bizzarria. Il garage sotterraneo? Ma che banalità! L’ascensore consente ad ogni proprietario di alloggio di portarsi la vettura (e non ci saranno molte Panda nel casamento) fino al piano. E parcheggiarla nell’apposito locale, adiacente alla zona giorno. Mettici due poltrone e un tavolino lì attorno, ed ecco trasformata la quattroruote in un esclusivissimo – sebbene ingombrante – oggetto di arredamento.

Già mi immagino i nuovi rimbrotti, coniati lì per lì da mogli esasperate dal dernier cri del feticismo maschile. Ti sei pulito le ruote prima di entrare in casa? Guarda lì, io mi spezzo la schiena a lucidare e guarda che cerchi motosi che hai! Insomma, la vogliamo finire con queste macchie d’olio in salotto? Portala una buona volta dal meccanico a cambiare quella guarnizione! Ti ho detto mille volte che non si fuma in macchina, cioè, in casa, vaffanculo, è la stessa cosa ora!!

Signori maschietti, vedete il lato buono della faccenda: se un giorno, stufi delle sgridate delle consorti, finirete per litigare, almeno avrete l’alternativa. O dormite sul divano, oppure approfittate dei confortevoli sedili ribaltabili del vostro personale feticcio al ventiseiesimo piano. Vuoi mettere l’esclusività?



mercoledì 3 ottobre 2012

Nuove strisce

Strisce blu. Le più odiate, perché si paga. Strisce bianche. Le più amate e ambite, per il motivo opposto. Strisce gialle. Le più antipatiche, perché sono sempre riservate a qualche privilegiato: polizia, finanza, posta e altri altezzosi occupatori di scarseggiante suolo pubblico. Qualche sporadico giallo si incontra qua e là, mischiato tra righe di diverso colore. Parcheggio disabili: tutto bene, ben vengano, anzi mi ci arrabbio – e non poco – se vedo qualche furbastro che cerca di infilarsi lì, senza averne titolo.

Ma le strisce rosa proprio mi mancavano. Una bella, lodevole iniziativa di un piccolo comune in provincia di Cuneo – e facciamo un gioco, vediamo se qualcuno indovina quale è. Lo scopo? Eccolo spiegato nel cartello. Non è una prescrizione, è solo, come recita il segnale, un gesto di cortesia.

Cortesi? Basterebbe che gli italiani imparassero un po’ ad esserlo, col proprio prossimo. Rispetto e cortesia sono segni inequivocabili di civiltà. Un bene che non si compra, ma ha un valore inestimabile. Benvenute, comunque, strisce rosa. E bravi quegli amministratori che hanno avuto l'idea.



venerdì 28 settembre 2012

Primavera australe - 2a parte

Segue da ieri.


Altri fiori, noti e meno noti, per voi. Bellissimi e gioiosi segni del risveglio della natura.

Dimorphotheca pluvialis

Magnolia liliiflora

Viola hortensis

Echium candicans


giovedì 27 settembre 2012

Primavera australe

Le giornate si accorciano? Cominciano a farsi sentire i primi freschi autunnali? È ora di verificare se le caldaie funzionano bene e i caloriferi non perdono?

Homing Pigeon vi regala un po’ di primavera fuori stagione. I colori dei giardini in fiore di Hobart, nella verde e bellissima Tasmania. Ma non chiedetemi diavoli, per favore.

Acacia pycnantha

Anigozanthos

Prunus persica

Banksia marginata


Continua domani, con altri fiori...



lunedì 17 settembre 2012

Bello come un dio greco – Due (2a parte)

Segue da ieri.


Due giorni dopo l’operazione chiede che al letto vengano fissati degli elastici, per ricominciare a esercitare la gamba ed il braccio superstiti. E vuole un computer. Gli uomini non son bravi ad esternare i propri sentimenti, a parlare, a trovare conforto nella presenza di parenti e compagni d’arme. Più che conversare, Paul vuole leggere e documentarsi. Vuole capire come hanno fatto gli altri a vivere con le stesse mutilazioni.

C’è luce in fondo al tunnel. La prima gioia dopo tanto dolore. Allora ho un futuro! Potrò rifare le stesse cose. Magari un po’ più lentamente. Magari con un bel po’ di ferraglia addosso. Una frase australiana, la cui potenza espressiva è intraducibile, riassume il suo pensiero: it’s gonna be alright.

Sì. Attraverso il percorso di riabilitazione e idroterapia Paul fa progressi quotidiani. Tre mesi dopo l’incidente, stufo di piscine e gente che lo guarda come un miracolato, chiede e ottiene di tornare nel suo elemento. Spiaggia di Sydney, una nuotata nell’oceano. Non fa paura. Non più, e mai più, dopo quello che ha passato.

Uno alla volta, supera i piccoli e medi obiettivi che si pone. Sono le piccole cose, quelle a cui non pensiamo mai perché sono processi e maccanismi automatici, le più frustranti da affrontare. Come allacciarsi una scarpa. Scrivere con la sinistra. Guidare la macchina.

La negatività non fa parte del suo carattere. Paul si motiva con un pensiero costante e bellissimo: non lasciare che le cose che non puoi fare ti impediscano di fare quelle che puoi.

Per tornare ad essere se stesso ha bisogno di sentirsi libero. Libero da quel coacervo di medicinali che lo hanno aiutato, ma che ora offuscano la mente e disturbano il corpo: antidepressivi; antidolorifici; cicatrizzanti; ricostituenti. Basta con questi farmaci!

Ripulito dentro, è l’ora di tornare al lavoro. La Marina lo attende a braccia aperte. Sentire di avere un ruolo, il senso di appartenenza, motivare gli altri e dare un esempio riempiono la vita. Ma per una persona che si descrive, con straordinario senso dello humour, metà uomo e metà mountain-bike, non è facile accettare i limiti imposti dalla nuova condizione. Perfino i compagni d’arme, seppur per spirito di protezione, lo fanno sentire disabile, attento a questo, bada lì, quello è meglio di no. Insomma, più riunioni e chiacchierate in poltrona che operatività. Non è quello che voleva.

Positività e motivazioni vanno conquistati, non sono merce di facile disponibilità. Come molte altre vittime di attacchi di squali, Paul non porta dentro di sé rancore per l’animale che lo ha menomato. Anzi. Considera una grande fortuna aver potuto parlare a New York, alle Nazioni Unite, sostenendo una campagna per proteggere questo grande, primordiale predatore, alla vetta della catena alimentare. Cento milioni di squali vengono uccisi ogni anno per le loro pinne. Senza questa specie, gli equilibri del mare saranno compromessi per sempre. Ammirevole, per uno che a causa di un esemplare che ora sta difendendo ha dovuto affrontare un’odissea di sofferenza e patimenti.

Paul, dopo aver parlato per un’ora ad un auditorio ammutolito e affascinato, si accommiata con un breve video che racconta il suo percorso. Incluse le scene, confuse ma inequivocabili e drammatiche, dell’attacco, filmate dai suoi commilitoni sulla barca d’appoggio. E mentre scorrono queste immagini tremende, Paul chiude gli occhi, e chissà quali mille pensieri gli affollano la mente. Tutti riassunti in un motto: never give up. Mai rinunciare – a lottare, a fare cose, al proprio diritto ad avere una vita.


La musica sfuma. Applausi. Scende dal palco con un sorriso sincero, con quell’allegria contagiosa che solo un sopravvissuto sa trasmettere.

Lo incontro, gli parlo, ed è una bella persona, non solo sul palcoscenico ma anche nel colloquio diretto. Mi dice che è stato di recente in Italia, da vero aussie mi chiama mate, ma soprattutto mi offre la destra, quella artificiale, per una stretta di mano indimenticabile. I muscoli del braccio trasmettono impulsi all’arto bionico, che contrae le dita, oppone il pollice, impugna oggetti con una delicatezza e precisione insospettabili. C’è più calore umano in quella mano sintetica di tante in carne e ossa che ho stretto in vita mia.

Ho conosciuto una specie di robocop. Ma immediatamente simpatico e affabile come solo certi australiani sanno essere. E bello come un dio greco.




domenica 16 settembre 2012

Bello come un dio greco – Due

Sì, due. Perché Alex Zanardi era il protagonista del primo racconto così chiamato. Ma Paul de Gelder merita appieno lo stesso titolo. Incontrare Paul ti cambia la vita. Come la sua, che è cambiata mille volte.

Ex giovane scapestrato. Amicizie sbagliate, bevute scriteriate, droga. Spogliarellista da nightclub. Poi una nuova vita nata quasi per scommessa. La Marina Militare, il training duro, le forma fisica perfetta, un lavoro pericoloso ma stimolante come sommozzatore militare. Una missione a Timor Est, il contatto con villaggi che vivono ancora in maniera atavica: un’esperienza che insegna umiltà e apprezzamento per quanto si ha e spesso si dà per scontato. Al ritorno, un addestramento di mesi in vista dell’Iraq. Per sentirsi dire, all’ultimo, che non sarebbe partito. Come prepararsi per la finale e scoprire mentre si entra in campo che si resterà in panchina. Ma la svolta che cambierà ancora – e radicalmente – la sua vita arriva l’undici febbraio del 2009.

Baia di Sydney, un’immersione di routine, come tante. Finchè un grande occhio nero lo fissa da vicino. Troppo vicino. Uno squalo. Un urto violento. Non c’è dolore. L’addestramento militare subentra istintivo. Colpirlo a pugni sul muso. Ma la muta finisce all’altezza dell’avambraccio destro. Mentre la bestia strattona e trascina sotto, nel suo elemento, in un impari gioco di vita e di morte. Una rapida riemersione, una furente boccata d’ossigeno, e poi di nuovo in balia del pescecane. Un pensiero: è finita. Game over. Ma non è così. Liberato dalla morsa dei denti laceranti, ora occorre portarsi in salvo. Adrenalina a mille. La più lunga nuotata della vita, con la sola parte sinistra del corpo, verso il canotto dove i commilitoni lo soccorreranno. Issato a bordo. Una preoccupante sfilza di improperi del collega gli fanno capire che la situazione è grave, molto grave. Finalmente, sdraiato sull’assito della barca, sviene. Mentre l’amico – che dirà, poi, non lo rifarò mai più in vita mia – gli infila la mano nelle carni aperte della coscia, afferrando e stringendo le arterie recise per fermare l’imponente emorragia. Senza quello, Paul, davvero game over.

Quattro dosi di morfina, sull’ambulanza che corre verso l’ospedale, annullano ogni sensazione. Ma gli danno una terribile crisi respiratoria – manca perfino la forza per riempire i polmoni d’aria. Per la seconda volta il pensiero game over affiora alla mente sconvolta. Ma l’istinto di sopravvivenza vince ancora. Niente panico. Conserva l’energia, o è finita.

Due giorni di coma indotto, il risveglio. La prima visione è confortante. La gamba destra. Gonfia, martoriata, fasciata. Ma il piede è ancora lì. Sembra morto, non lo sente, ma vede che c’è. Bene. Pazienza per la mano, ma almeno tornerò a camminare.

Una settimana dall’assalto dello squalo. Il dottore affronta – serenamente ma obiettivamente – un soldato addestrato a confrontarsi con rischi e pericoli. Anche mortali. Paul, sarò chiaro: il morso ti ha portato via buona parte del polpaccio, e venti centimetri di nervo sciatico. Ora hai due scelte. Tentare di ricostruire il possibile, per alimentare un brandello di gamba privo di vita ed evitare la cancrena. O tagliare. Sotto il femore, via tutto. In dodici mesi, con una protesi, camminerai di nuovo.

La vita è fatta di scelte. Talvolta difficili. Paul vuole vivere, non sopravvivere. E sceglie la seconda.

Il risveglio è il momento più terribile. Altro che la lotta con la bestia. Altro che la nuotata monca verso la salvezza. Altro che la crisi respiratoria in ambulanza. Venti ore di dolore continuo, lancinante, disumano. Insopportabile. L’unico punto, del suo tragitto di sofferenza, in cui Paul avrebbe preferito che lo squalo lo avesse ucciso. In quelle ore disperate arriva a dire alla madre che lo assiste: vammi a comprare una pistola che mi sparo.

Ma anche il più intollerabile dei dolori alla fine recede. Lucido e determinato come sempre, Paul sa di essere davanti ad un’altra delle scelte che questo evento estremo comporta: come affrontare la menomazione. Eccolo qui, in un letto d’ospedale: un uomo senza avambraccio e gamba destri. Essere triste, commiserarsi per la sfortuna, rimpiangere ciò che ha perso per sempre? O reagire, affrontare la vita col coltello fra i denti, accettare e vincere le nuove sfide? Paul è un soldato coraggioso: facile intuire cosa farà.


Continua domani, con la seconda parte.

martedì 11 settembre 2012

Comunicazione di servizio

Per quei pochi che si danno la pena di passare di qui: non state in pensiero. Homing Pigeon sta solo passando uno dei suoi periodi di mancanza di tempo - e di ispirazione. Abbiate fede. Ritornerò appena possibile - ossia quando troverò qualcosa da pubblicare che non mi faccia vergognare di me stesso.

A presto!




giovedì 16 agosto 2012

Hooker’s corner

Boccaccio non avrebbe saputo fare di meglio. C’è più scorrettezza politica in questa notizia di quanto un giornale americano riesca a mettere insieme in un anno di pubblicazioni.

La storia arriva dagli antipodi. Auckland, Nuova Zelanda: l’amministrazione comunale è sul piede di guerra con le prostitute che danneggiano il patrimonio comune. Come? Esibendosi in volteggi adescatori sui pali dei segnali stradali. E siccome evidentemente non tutte sono delle libellule, ne hanno piegati o troncati già un buon numero, nei mesi recenti. Allora, ragazze: o la smettete di abbuffarvi come delle maiale e vi rimettete un po’ in linea, oppure la piantate di usare gli stop come pali da lap-dance.

Mi viene in mente il grande De Andrè e la sua Bocca di rosa. Le contromisure fino a quel punto, si limitavano all’invettiva. Le abitanti del quartiere sono imbufalite, come sempre accade quando la tentazione viene portata proprio a domicilio, mettendo a repentaglio la fedeltà dei maritini. Una dichiara: il mio indirizzo è Hunters Corner, ma siamo talmente pieni di prostitute che su un pacco per me hanno scritto Hooker’s Corner, e mi è stato recapitato lo stesso.

Tutto da ridere: l’angolo delle mignotte, già accreditato perfino dai postini. Ora non ci resta altro che aspettarsi un esposto dell’associazione delle peripatetiche neozelandesi nei confronti dell’amministrazione pubblica, per aver usato materiali scadenti nei pali dei cartelli. Gli infortuni sul lavoro sono una cosa seria, e poi queste sono imprenditrici in proprio, non si possono permettere di stare a casa con la schiena a pezzi o una gamba rotta. La concorrenza impietosa incalza, e un palo che cede sotto lo slancio ginnico di una lucciola giunonica può causare imponenti perdite di reddito. Per non parlare del danno d’immagine. Da sexy a ridicola nel breve istante in cui il palo cede e si affloscia come burro fuso. Robe da far causa.

Fossi nei panni dell’assessore all’urbanistica di Auckland, consulterei un avvocato di grido. Non sia mai che la mia fantasia divenga realtà, e per maggior scorno qualche giudice in vena di estrosità leguleie non dia alla fine ragione alle professioniste dell’amore – ma dilettanti della palestra. Costringendo la città a cambiare tutto l’arredo urbano. E magari imponendo pure una lautamente pagata consulenza della Technogym, giusto per esser sicuri che i volteggi delle squillo siano tutelati da solide basi tecniche e strumenti adeguati.

Non vedo l’ora di andare in Australia, per sentire quante nuove barzellette hanno coniato gli aussies sul tema. Gli amati-odiati cugini kiwi sono il loro bersaglio preferito, vuoi non approfittare di una storia così gustosa? Basterà buttare lì le paroline magiche hooker’s corner, tra una birra e l’altra, e aver pronto il taccuino. E un fazzoletto, per asciugarsi le lacrime dal ridere.



domenica 12 agosto 2012

Un bel gioco dura poco

Nomen omen

La felicità. Scritta non solo sul viso ma perfino sul petto. Duecento metri d’oro per l’americana.

Maestri cantori

La scherma non delude mai. Occhi chiusi e inno in gola per i nostri fiorettisti d’oro.

Il cuore oltre l’ostacolo

Tutto il resto del corpo invece è rimasto lì, prima della prima barriera. Liu Xiang, l’eterno favorito sempre rotto al momento sbagliato.

Jump

Quando salti ti cade la maschera, diceva Halsman. Ci doveva essere un suo allievo in campo, per fissare così le campionesse statunitensi di calcio.

Ingiustizie

Le olimpiadi non sono peggio della vita – né meglio. Dovunque ci sia uno che ti giudica, l’errore ci può stare. O anche peggio. Come ha imparato sulla sua pelle la schermitrice coreana Shin. Inconsolabile e irriducibile insieme, ha tenuto la pista occupata per un’ora, nella speranza – vana – che le fosse resa giustizia.

Mascheroni

Va bene che sia uno sport televisivo per eccellenza. Ma c’è proprio bisogno di trasformare le nuotatrici sincronizzate in personaggi dei fumetti giapponesi?

E a me?

Lui si becca la medaglia d’oro. Io invece della coccarda preferirei un po’ d’erba bella fresca, al posto dei soliti fioccati dietetici di cereali. Per favore. Ihihihhhhh.

L’uomo lampo

Con un nome così, non poteva che finire a frantumare record e avversari. Usain Bolt.



venerdì 10 agosto 2012

Götterdämmerung

Il crepuscolo degli dei. Lacrime quattro anni fa. Lacrime oggi. Ma di tutt’altro sapore. Una rara ammissione di colpa, totale, senza la minima ricerca di scuse o attenuanti. Addirittura sospetta, in un mondo niente affatto abituato a gente che si assume le responsabilità dei propri errori.

L’Italia perde un atleta: quel paesino sperduto nel Trentino ritrova un uomo. L’uomo qualsiasi che Alex voleva ritornare, forse oppresso da una responsabilità più grande di lui. Non riesco a non provare simpatia per questo ragazzo costretto a vincere contro la fatica immane ed oscura, costretto ad essere un personaggio pubblico contro la sua timidezza, costretto ad una solitudine quotidiana ripagata ogni quattro anni da titoloni e osanna – ma solo se vincente. Hai fatto la cosa sbagliata, come atleta. Ma come uomo ne hai fatte varie giuste ed onorevoli, compreso il riprenderti la tua vita privata.

L’Italia – forse – sopravviverà anche senza la tua medaglia. Se destinata ad un fato avverso, di certo non sarebbe stato quel pezzo di metallo a salvarla. Tu d’ora in avanti viviti la vita normale che agognavi, Alex. Oggi, come ultimo saluto, ti voglio dedicare il mio ricordo di quando ci hai fatto emozionare quattro anni fa a Pechino. Ed un modesto, ma sentito, grazie.


Benvenuto nel club


Per le mie limitate capacità di resistenza televisiva, è umanamente impossibile trascorrere di giorno quasi quattro ore incollato davanti al teleschermo per vedere in diretta l’odissea di un gruppo di scodinzolanti atleti che percorrono cinquanta chilometri di marcia. Figuriamoci di notte, dall’una e mezza fin quasi alle sei.

Eppure ci tenevo a vederlo. Ma Morfeo era suadente e tentatore stanotte. Tra la partenza e l’arrivo ho dei vaghi ricordi di un dormiveglia pieno di visioni assortite di polpacci gonfi, di sederi dimenanti, di braccia arrancanti, di bottigliette d’acqua raccattata al volo per ingollarla o per aspergersi il corpo accalorato, di sudori veri o indotti da docce nebulizzate che tentavano di portare refrigerio a questo manipolo di folli camminatori estremi.

La marcia è questo. Esasperare il gesto quotidiano di una qualsiasi passeggiata, portandolo alla massima velocità possibile, senza mai raggiungere quella fatale fase aerea in cui entrambi i piedi, sia pur per una frazione di secondo, sono entrambi sollevati da terra. Come i trottatori che rompono il loro ordinato passo, scoppiando in un fragoroso galoppo, così il marciatore che tecnicamente corre anziché camminare viene prima richiamato e poi squalificato.

Un esercizio paradossale, se non altro per il fatto che va perpetuato, passo dopo passo, per la bellezza di cinquanta chilometri. Fate i vostri conti. Immaginate una località così distante dalla vostra, e vedetevi mentalmente raggiungerla, a piedi, ancheggiando impettiti, in meno di quattro ore. Follie.

La marcia ha sempre avuto una buona scuola in Italia. Oggi abbiamo l’ennesima conferma. Alex Schwazer parte in testa dal primo metro, si lascia dietro qualcosa come cinquantamila passi ed arriva primo. Ohh. Finalmente un oro nell’atletica leggera. Ho visto la partenza, di quelle che ti viene da pensare, ma dove vai (nemmeno dove corri, che non si può!), guarda che il traguardo è lontano, rispàrmiati, gli altri ti vengono a prendere. E invece aveva ragione lui. Tre ore e trentasette minuti dopo, eccolo di nuovo, solitario, nello stadio da cui era partito. Un ingresso da trionfatore, più di due minuti sul secondo classificato.

Ma non è la medaglia d’oro la cosa più importante oggi. Oggi vincono i sentimenti, i buoni sentimenti. Questo ragazzo di ventitré anni, che un mese fa ha perso il nonno, e che concorreva con una fascia nera sulla bretellina della canotta, è entrato in quello stadio di gloria e per prima cosa, piangendo, ha baciato la fascia sul suo petto. Poi, superato il traguardo che lo incoronava campione olimpico, si è chinato, si è messo le mani tra i capelli ed ha continuato, sommessamente, a piangere. Si avvertiva, si vedeva che quelle erano lacrime sgorganti da sentimenti misti. Gioia, incredulità, tensione finalmente scaricata, riscatto, rimpianto. Tutto insieme, in quel singhiozzare composto.

Nell’intervista a caldo, ancora grondante gocce di ginnico sudore, ha mostrato il volto umano di un giovane campione, esibendo poche ma sane, fondamentali certezze.

Ha tenuto a sottolineare che lui è pulito. E non è dichiarazione da poco – anche se, in un mondo di sport ideale, e non quello furbesco e truffaldino di oggi, dovrebbe essere la norma, non un fatto da mettere in risalto a distinguersi da altri che invece si dopano. Un giorno potrà arrivare decimo o ventesimo anziché primo, ma ci arriverà sempre solo con le sue forze. Perbacco. Ha difeso ostinatamente la propria privacy, non intendendo rivelare – nonostante l’insistenza dell’intervistatrice in cerca di un futile scoop pettegolo – la provenienza del braccialetto portafortuna ostentato alle telecamere poco prima dell’arrivo. È un messaggio pubblico ma strettamente privato, diretto solo a chi sa lui, e tale deve restare. Ha ricordato il nonno, scomparso di recente, che chissà come sarebbe stato orgoglioso del suo Alex campione, e ancora gli sono affiorate delle lacrime che scorrevano calde sul primo piano del suo viso sudato. Rallegrati, Alex. Il nonno ti vede e oggi festeggia con te. Ha voluto ricordare tutto il gran lavoro di preparazione fatto a Saluzzo con Sandro, e l’intimità del rapporto con il preparatore gli ha fatto dimenticare che non tutti gli italiani sanno che Sandro è Damilano, uno della famiglia dei fratelli marciatori protagonisti di imprese e successi di circa tre decenni fa. Ha detto, suscitando un’arguta simpatia, che il duro non sono stati i quindici giorni di preparazione a Pechino, saranno i prossimi quindici giorni di festeggiamenti a casa. E casa è un paesino minimo di trentuno abitanti, che fanno di Alex il campione olimpico proveniente dal borgo più lillipuziano del mondo.

Bellissima infine una sua dichiarazione, fonte di insegnamento per tanti supposti fuoriclasse. Stimolato dalla giornalista a confrontare la vittoria di oggi e la mala sconfitta di un anno fa ai mondiali di Osaka, ha risposto, con la pulizia e la schiettezza di un ragazzo semplice, da allora sono cresciuto molto. Del resto, non è che dalle vittorie si impari molto. Che cosa sensazionale. In un mondo di campioni boriosi, saccenti, spocchiosi, che hanno visto tutto e vinto tutto e sanno tutto, ecco un ragazzo che istintivamente, in presa diretta, ci dice che è dalle sconfitte che si impara a diventare più forti, più umili, più uomini. Bravo Alex. Benvenuto nell’esclusivo, privilegiato, semivuoto club dei campioni veri. Nonché degli uomini veri.


Prima pubblicazione : 22 agosto 2008

domenica 5 agosto 2012

Artisti di strada (3a parte)

Segue da ieri...


Il virtuoso

Qualcuno deve spiegarmi come ha fatto a partire, una volta caricato il motorino in questa maniera oscena.

Il vizioso

L’ho seguito per un po’. A sufficienza per vederlo estrarre una sigaretta dal pacchetto, mettersela in bocca, accenderla e fumarsela. Il tutto senza fermarsi. E sì, quello che vedete sporgere dalla mano sinistra è il mozzicone quasi finito. Da circo. Chapeau.

L’allegra famigliola


Sicura. Ognuno col proprio casco in testa. Il fatto che poi siano in quattro sulla motoretta è irrilevante. E non scandalizza nessuno.

Senza titolo

E per concludere, esageriamo: in una sola immagine c’è troppo di sbagliato. Dalla postura – detta che-palle-perché-non-sono-figlio-unico – del ragazzetto in pole position sul motore familiare, alla presa tipo wrestling con cui la madre mantiene a bordo la sorella del sullodato. Per non parlare del cap da equitazione calzato sul cappellino a larga tesa della passeggera in giallo. E infine i collant indossati con le infradito, causando il curioso effetto dita-di-cammello. Ma per favore non traducetelo in inglese. Questo non è un sito porno.

Ma il vero capolavoro non sono riuscito a fotografarlo. Una ragazza che, seduta dietro al proprio filarino, faceva da filtro umano. Nel senso che teneva le mani congiunte davanti alla di lui bocca, in un tenerissimo quanto vano tentativo di evitare allo stesso di respirare lo smog emesso dai milioni di altri motorini che affollano Hanoi. Cosa non fa fare l’amore.



sabato 4 agosto 2012

Artisti di strada (2a parte)

Segue da ieri...

L’assicurato

Deve esserlo per forza. Altrimenti non si spiega uno che si azzarda a viaggiare con un pastrano impermeabile monoblocco che si estende da sotto il casco fino alle manopole del mezzo. E nel contempo si aggiusta gli occhiali con una mano, o forse si ripara dallo smog. O entrambi.

Il credente

Non solo perché rappresentante del clero locale. Soprattutto per la fiducia che il proprio curioso cappellino fatto ai ferri sia taumaturgicamente protettore in caso di urti.

L’ottimizzatore

Mi raccomando, non ingrassare, deve aver detto alla passeggera. Se no ci rimettiamo in carico utile. Da notare il sacchetto azzurro: doveva contenere beni importanti per non trasportarlo più comodamente nel portapacchi anteriore. Fidarsi è bene...


Continua domani, con la terza e ultima puntata!

venerdì 3 agosto 2012

Artisti di strada (1a parte)

Ognuno con la sua specialità. Si tratta di funamboli talvolta, ma non intrattengono alcun pubblico. Cercano solo di arrivare a destinazione interi, senza passare prima dall’ospedale. E non si capisce come quasi sempre ci riescano. Eppure.

Lo squatter 


Quando il carico di derrate è più importante del passeggero. E lo stesso deve acquattarsi – senza lamentele – nel vano tra manubrio e conducente. Fortemente consigliato avere un parente dentista – in caso di frenate brusche gli incisivi sono decisamente a rischio.

L’Help Desk 

Con quello che caricano sui motorini, chi mai si stupirà per una CPU di computer? L’importante è avere un buon bilanciamento. Né la merce né la passeggera sono vincolati al pilota. Anche perché ci vorrebbero braccia da orango per agganciare il guidatore, con in mezzo quello scatolone spigoloso. Meglio usarlo come bracciolo.

La fashionista 

Tacchi a spillo? Non sia mai detto che siano un impedimento a guidare le due ruote.


Continua domani, con la seconda parte.