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mercoledì 24 dicembre 2014

M** Bun


C'era una volta un piccolo locale di nome mac bun, che in piemontese vuol dire semplicemente “soltanto buono”. Dove soltanto, nel sobrio stile savoiardo, sta per proprio: proprio buono. E siccome vendeva svizzerine di carne messe dentro a dei panini, un brutto giorno una nota multinazionale del cibo (si fa per dire) rapido da di là dell'oceano, non conoscendo il dialetto piemontese, si sentì offesa da questo apparente scimmiottamento e decise che l'onta andava lavata, non col sangue, ma con la rimozione della similitudine.

E poiché le multinazionali hanno potenza di fuoco a sufficienza da vincere contro i piccoli Davide armati solo di vivande proprio buone e niente più, finì che qualche tribunale sentenziò che davvero di scimmiottamento si trattava e che quindi quell’insegna andava cambiata.

E fu così che da allora l’onesta bottega subalpina si chiama M** Bun. Giusto qualcuno non si accorgesse della differenza, nonostante la bontà della carne.

Tutto questo per dire cosa? Per porci una semplice domanda: ma non sarà che per caso noi italiani siamo un po’ succubi delle multinazionali? Perché se no non si spiega come a Tokyo sia possibile vedere, serenamente esposta nel dedalo di negozi proprio sotto la stazione ferroviaria centrale, questa insegna di un venditore di hamburger.


Dai, andate voi a far causa a dei giapponesi a casa loro. E vediamo chi vince stavolta, se Mc Donald o Mc Daniel. Mi sa che sarebbero gli americani a far la fine di Golia, anche se il fromboliere si chiama Daniele e non Davide.




domenica 30 novembre 2014

A volte ritornano (2)

Dopo una lunga assenza, di quasi due mesi, Homing Pigeon ritorna. Con alcune immagini, visive o solo descrittive, di quel calderone di umanità varia che è Manila.

Raccolta differenziata. Ecco come si applica il concetto, su un camion della spazzatura a zonzo per Manila. Un uomo sta confortevolmente seduto sul tetto e spulcia con cura i materiali, separando la carta dal resto e mettendo ogni foglio che trova in un grosso sacco bianco. Quale ammenda dovrebbero dare al guidatore del mezzo, considerando che...

Ogni uomo ha il suo prezzo, diceva una volta un taxista bahiano. Sono seduto accanto al guidatore di un furgoncino che arranca nel quasi immobile traffico di Manila, e compio un'inusuale imprudenza. Non mi allaccio la cintura di sicurezza. Grave, direbbero i filippini nella loro lingua infarcita di spagnolismi. Un giovane pingue poliziotto si pianta davanti al furgone e mi fissa con interessata attenzione. Cala il finestrino del povero autista, che consegna con fare rassegnato la patente. Il poliziotto recita a mio beneficio ma in uno stentato inglese una litania di articoli di codice, che prevedono la responsabilità del guidatore se i passeggeri non vestono le cinture. Poi non succede altro, sembra una partita di scacchi. Siamo allo stallo. Finalmente, dopo varie chiacchiere in tagalog, il guidatore scende con in mano un paio di fogli da cento. Risale, visibilmente sollevato, patente alla mano. Aveva ragione il mio amico bahiano. E qui il prezzo per poter ripartire senza ulteriori noie è davvero modesto. Meno di quattro euro. Di noi con quei soldi non corrompi nemmeno un cameriere per farti portare una porzione più generosa di antipasto.

A proposito di poliziotti. Parliamo di quello malmenato dal guidatore di una Maserati Ghibli blu senza targa, fotografato dalla guardia alle sei di mattina mentre faceva una svolta a sinistra non permessa. Il tipo se n'è accorto, ha fatto inversione, ha chiamato l’agente e quando gli è stato a tiro da dentro l'auto ha cominciato a tempestarlo di pugni ed è pure ripartito, trascinando il malcapitato per una decina di metri. Permaloso e nemmeno tanto furbo. Quante Ghibli blu ci sono nelle Filippine? Due. L'altro proprietario è già stato sentito dalla polizia, risultando estraneo (magari grazie anche al decisivo indizio di avere perfino una targa sull'auto). La polizia, dichiarano i giornali, è sulle tracce del colpevole. Dei veri Sherlock Holmes!

Clichès, ovvero nomi assurdi dei ristoranti etnici. Qualcuno mi spiega perchè i ristoranti italiani (si suppone siano tali, visto che vendono pasta e pizza) invece di chiamarsi da Gennaro o Peppino di Mergellina debbano esibire degli improbabili Marciano’s o Balboa (solo degli americani possono credere che Rocky, con un cognome così, sia di origini italiane)? E per quelli giapponesi si tirino in ballo i panzoni del sumo, i mostri robotizzati dei manga e perfino la buonanima di John Lennon e della vedova Yoko?

UCPB. Le noci di cocco devono essere un affare serio nelle Filippine, se hanno intitolato una banca ai piantatori delle relative palme. La United Coconut Planters Bank è addirittura uno degli istituti di credito più importanti e vanta alcuni primati, tra cui l’essere stata la prima banca ad avere introdotto i bancomat nell’arcipelago. Mai trascurare la forza dei prodotti più semplici, anche quelli della terra.

In pieno giorno un bambino, con addosso solo dei pantaloncini verdi, dorme sdraiato per terra, su un ruvido impiantito di cemento, vicino alla bocca di sfiato dell'aria condizionata di una stazione. I capelli si agitano per quell'innaturale, forse malsano vento che fuoriesce dalle griglie. Le piante dei piedi sono nere al di là di ogni speranza di ritornare pulite. Il fisico è esile ma non denutrito. Ho riscoperto il piacere della fotografia, ma ci sono immagini che tuttora non riesco a scattare. Questa, paradigma di degrado e povertà, proprio non ce l'ho fatta. Non ho un’istantanea, ma il ricordo è indelebile comunque perché non riuscivo a distogliere gli occhi dall’ennesima scena di un’infanzia rubata.




venerdì 21 marzo 2014

Rogo di ricordi


Ci sono giorni che sanciscono davvero la fine di qualcosa. Da vari anni il Pajo Vejo era chiuso, ma stamani all’alba l’edificio che lo ospitava, ormai mezzo espugnato da rovi e sterpaglie, è bruciato. Era diventato un rifugio di senzatetto e a marzo la notte fa ancora freddo. Si fa presto, cercando di scaldarsi alla meglio, a dar fuoco a pagliericci e a povere masserizie facilmente combustibili.


Ci volevano le fiamme per cancellare il vuoto simulacro – ma pieno di ricordi – di un ristorante tra i miei prediletti a Cuneo negli ultimi trent’anni.

Era uno di quei locali dove il menu non cambiava granchè. Ma ti offriva con prodigalità quelle rassicuranti certezze, quei sapori casalinghi – era gestito dai Balestra, e l’intero nucleo familiare lavorava lì – che magari si ripetevano ma non deludevano mai.

Con gli anni ero divenuto un cliente affezionato. Ricordo la figlia, Monica, che agli inizi degli anni ottanta arrivava da scuola sul suo vespino all’una in punto, giusto il tempo di parcheggiare e passava subito all’azione, cassa o sala, a seconda di dove servisse il suo impegno. Il figlio Davide col tempo affiancò il papà e la mamma in cucina, per reiterare quei piatti della tradizione che attiravano clienti fin dalla riviera francese, specie il martedì, giorno di mercato. Non ho mai saputo i nomi dei genitori, ma li salutavo sempre ed ero ricambiato con inalterabile cordialità.

Ricordo, pinzata alla meglio su un muro, una foto mezza stinta di Alberto di Monaco, allora giovane principe ereditario, che evidentemente si era fatto sedurre da quei vassoi di funghi porcini che in stagione formavano il cuore della cucina, crudi affettati o trifolati, con i tajarin rigorosamente in bianco o meravigliosamente fritti di fresco, in un tripudio di profumi e di sapori.

Ricordo Ermanno, lo storico cameriere del locale, che sempre recitava come una dolce filastrocca la serie dei nomi degli antipasti, a mano a mano che arrivava al tavolo con la guantiera colma di bontà genuine. La carne cruda, che nel cuneese non può mancare, il manzo coi finocchi affettati, il vitello tonnato, il vol-au-vent con la fonduta fragrante di tartufo, le salsicce calde coi funghi, il flan di porri, e chi si ricorda più tutti gli altri, freddi o caldi che fossero. So solo che non ne mancavo mai uno.

Ricordo la delusione ed il rammarico del giorno in cui scoprii che il ristorante non era chiuso per ferie, ma per sempre. I muri non erano della famiglia, i costi dell’affitto erano lievitati e – forse a malincuore, certo lasciando un vuoto sia nel cuore che nello stomaco di molti clienti – i Balestra chiusero per l’ultima volta la catena del cancello.

Ora il fuoco ha completato l’opera. Per questo mi è affiorata di getto la voglia di raccontare di questo luogo di ghiottonerie ormai defunto. Perché se tra qualche tempo non resteranno nemmeno quelle quattro mura bruciacchiate a ricordarci di quando la famiglia Balestra sfamava e deliziava torme di viandanti golosi, almeno rimarrà questo mio pensiero. E la gratitudine per averci così a lungo appagato le papille gustative, con la semplicità e l’amore per il mestiere dell’onesto vivandiere.

Meglio tardi che mai: grazie, famiglia Balestra.



domenica 9 marzo 2014

Il senso degli affari


Supermercato cuneese. Offerta speciale! Due pacchi di crackers - tenuti insieme da un vivace e ammiccante adesivo rosso - con uno sconto di ben ottantanove centesimi. Tre euro al chilo. Più in là, nella stessa fila, la confezione singola. Cinquecento grammi, un euro e venticinque. Aspetta un attimo. Al chilo fanno 2 euro e 50, se so ancora far di conto.

Allora come si spiega che della "promozione" da tre euro rimane un solo pacco sullo scaffale deserto, mentre i vantaggiosi pacchetti singoli giacciono invenduti?

Gente: smettiamola di farci attrarre dal clamore e dalle apparenze degli strilli pubblicitari e prestiamo più attenzione ai caratteri piccoli che - come nei contratti delle assicurazioni - sono quelli che contano davvero.




mercoledì 5 febbraio 2014

Scatti cinesi: mangiare e bere

Segue da ieri.


Foglie di Long Jing, uno dei migliori tè verdi cinesi. Talmente buono e fresco, a chilometri zero, che i piccoli produttori sulle colline attorno ad Hangzhou ti invitano a casa loro e te lo servono in un bicchiere di vetro, senza tante artificiose cerimonie. Pura sostanza, profumo e gusto incorrotti. L'essenza più squisita del tè. E il piacere della condivisione, con un grande sorriso, anche quello sincero, non bieco e mercantile.


Mangereste in un locale di cui questa sia la cucina? Io l’ho fatto: dopo averla vista e fotografata. Vi garantisco che carne, verdure e zuppa erano oneste e saporite. E siccome son qui a raccontarlo, vuol dire che non erano nemmeno tossiche.


I contadini del Sichuan portano ancora le verdure nei cesti, sperando di venderne ai turisti. E non parlo di stranieri: grazie ad una certa liberalizzazione dei viaggi interni i cinesi stessi sono i visitatori più numerosi di varie provincie. Un po’ come da noi, quando le macchinate di cittadini si fermano a comprare dai banchetti fuori dalle cascine in aperta campagna. Sacchetti a portata di mano e stadera. Ecco tutto quello che occorre per una minima bottega volante.


Facciamo la classifica dei cibi da sudori freddi. O almeno di quelli che ho assaggiato. Ultimo posto: scarafaggi. Insapori. Inodori. Anche brutti, esteticamente. Da evitare. Terzo posto: crisalidi di bachi da seta (prima foto, nella cassetta blu). Grosse e carnose. A momenti un amico canadese mi vomita addosso, dopo aver tentato di masticarne una. Decenti ma un po’ impressionanti da mordere. Non per tutti. Secondo posto: scorpioni (seconda foto, vassoio centrale e due di quelli in basso). Fragili e friabili, da mangiare evitando il pungiglione di coda (in cauda venenum). Vedere degli intrepidi stranieri mangiarne uno produce nei cinesi un’irrefrenabile ilarità mista a un’inusuale simpatia e confidenza. Podio e medaglia d’oro: Bruchi fritti (terza foto, nel cestino di pasta). Deliziosi. Dolci, saporiti, croccanti. A chi fosse disgustato dall’aspetto consiglio di chiuder gli occhi e provare lo stesso. Almeno uno. Io li adoro.



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venerdì 31 gennaio 2014

Buono, ma basta (regressione infantile)


Un’esperienza diversa. Ancora una volta. Ero pronto a tutto – credevo – in fatto di cibo. Un motto. Posso mangiare tutto quello che si muove. Ammesso che sappia di cosa si tratta, prima. Per un attimo ha vacillato dalle fondamenta, questo mio principio, questo dogma, questo postulato.

Cina. Jiangmen, provincia del Guangdong. Cena con clienti. Che chiedono premurosi, frutti di mare? Dopo un orrido hamburger a mezzogiorno, trangugiato in macchina, senza manco fermarsi, che se no si perde tempo, non posso che dire di sì.

Ristorante. Sala riservata, con maledetta aria condizionata anche se fuori, di sera, ci sono dodici gradi, e magari il riscaldamento non ci starebbe neanche male. Televisione. Maledetta anche quella, quando non trasmette le lagne del karaoke fa danni anche peggiori. Tutti seduti, sei persone, cerimonia del tè. Al crisantemo. Meraviglioso. Si comincia bene. E poi. Andiamo a scegliere il pesce, propone l’anfitrione. Andiamo. Ci alziamo, visita alla zona vasche con animali vivi. Gamberetti? Bene. Il granchio? Ottimo. Un paio di pesci? Magnifico. Saltiamo le stie con i serpenti, e dopo me ne rammaricherò. Arriviamo al dunque: vuoi provarli? Per la prima volta, in vita mia, ho avuto un’esitazione. Non di ordine morale. Di ordine, come dire?, viscerale.

Scarafaggi. Che sguazzano, vivacissimi, in una bacinella. Nemmeno il tempo di dire che forse, che in fondo, che insomma.., ed eccone un bel retino da farfalle pieno, pronto alla pesa. Ma come si cuociono, provo a traccheggiare. Fritti! E beh, è naturale, come chiedere da noi, ma questa braciolina come la prepari?

Ho il tempo di tornare a tavola, e cercare di prepararmi mentalmente all’operazione. Rifiutare? Non sia mai detto. Ne va della mia stessa parola. Sostenuta a testa alta in mille conversazioni con asiatici increduli. Che dopo, regolarmente, si ricredevano. Accampare banali scuse, tipo un’improvvisa allergia nei confronti degli coleotteri? No, ormai sono in ballo. E devo ballare. Intanto provo ad impormi un training autogeno, in fondo cosa li differenzia da tanti altri animali che letteralmente squarti, apri e divori, vedi gamberi, granchi, lumache, rane… Tento anche con l’autoconvincimento salutista, toh, mi ricordo ora di avere letto da qualche parte di uno che ne andava matto, e che, in sovrappiù, sosteneva che fanno benissimo, che sono pieni di vitamine, insomma un toccasana per la salute...

Arrivano. E sono dannatamente loro. Riconoscibilissimi. Interi. Sembrano quelli della pubblicità del Baygon. Li ammazza stecchiti. Neri, grossi, lucidi come nelle collezioni dei musei. Ammucchiati in un piatto decorato da ruote di cetrioli. Deposti su una carta graziosamente orlata che assorbe l’olio della frittura. Con le zampine rattrappite, come gli insetti che trovi morti nelle docce degli alberghi infimi, che ti riprometti, mai più qui.

E allora? Aspettiamo. Qualcuno darà il via alle danze. Infatti. Ora ti spiego, mima uno. Lo afferra per le zampe, gli stacca con cura le due elitre, poi le ali. Via la testa. In un morso tutto il corpo, corazza addominale compresa, sparisce in un rapido scrocchiare di denti. Come addentare un grissino. Forse. Ma solo per il rumore.

Proviamo. Coraggio. Non è mai morto nessuno – almeno spero – per avere mangiato un insetto. Milioni di uccelli se ne cibano. E crudi. Vivi. Vedi che culo che ho, a mangiarli morti e perfino fritti! Lo agguanto per le zampine, e subito mi se ne tronca una in mano, lasciando cadere il corpo mutilato nel piatto. Sono pure fragili, questi lazzaroni! Stacco un’elitra, poi l’altra. Poi le ali. Come le mosche nei giochi crudeli dei bambini.

Sollevo gli occhi, i miei, dalla preda. Cinque paia di occhi mi osservano con aria interrogativa. Ce la farà? Mi cade lo sguardo sul televisore, una orrendissima storia di spadaccini cinesi scorre sullo schermo. Assurda al punto da apparire ridicola, penosa. Ma come fanno a produrre – e soprattutto a guardare, senza avere conati di vomito – queste porcherie? Roba che il cavaliere intrepido, per salvare la donzella dai cattivi, ne fa fuori venti alla volta, brandomuniti, con una scimitarra più efficace di un Kalashnikov. Highlander gli fa un baffo, a quello.

Meglio, molto meglio tornare al nostro insetto. Lo addento. Anzi, ormai che ci sono, lo mordo, provando a metterlo in bocca come fanno gli altri. Sì. Sembra proprio un grissino. Caldo, croccante, perfino un po’ dolce. Ma per una volta, e mi torna difficile ammetterlo, non dovrei pensare a quello che sto macinando tra i denti.

Lo confesso. Sono stato incerto tutta la sera se mangiarne un secondo. Vile. Non ce l’ho fatta. I maledetti, come una condanna infernale, mi ricapitavano sempre davanti agli occhi, complice il perfido marchingegno rotante dei deschi rotondi cinesi.

Ho riflettuto, mentre i commensali animavano la serata, grazie alle abbondanti dosi di vino cinese. Ho pensato a lungo. Ed ho maturato una serena consapevolezza. Che, come tutto il resto del mondo, anch’io ho diritto ai miei gusti. Saranno anche dolci, faranno anche benissimo, ma a me gli scarafaggi non piacciono.

Buono, ma basta. Mi sono riaffiorate alla mente le eufemistiche parole che, bambino, pronunciavo quando qualcosa veramente non mi piaceva, ma non era bello ammettere apertamente che mi faceva proprio schifo.

Dopo i sorrisi di apprezzamento per il gesto coraggioso, non ho ceduto alle lusinghe ed agli inviti a servirmi di nuovo della prelibatezza locale. No, grazie. Preferisco i gamberetti. Mai quel colore rosa carico mi era stato così simpatico, confrontato col lugubre nero da becchino delle livree da blatta. Mai quell’intenso profumo di pesce mi era stato tanto gradito, se paragonato all’insopportabile mancanza di odore di questi insetti.

Più che tutto, anonimi. A distanza di poche ore, non ne ricordo bene neppure il sapore. E non è rimozione freudiana. È proprio assenza di emozione da gusto, quella che mi è rimasta dentro.

Peccato. Perché gli unici felici sono stati i miei ospiti, che se ne sono andati contenti e soddisfatti, con dentro già l’idea di raccontare agli amici di quella volta che quell’italiano mangiò perfino uno scarafaggio. Beati loro.



Prima redazione : dicembre 2000

domenica 29 dicembre 2013

Essere o non essere…

... italiano? Il dilemma in questo caso non si pone. La risposta è certamente no.

Perché se lo sgrammaticato procuito poteva lasciare qualche spazio al dubbio, alla frettolosa distrazione, alla innocente svista, già quando arriviamo alla qualifica geografica, e si scivola sullo strafalcione Prama, allora c’è la certezza di una mano apocrifa dietro alla compilazione di un tale menu degli orrori. Subito dopo, burata non aiuta a migliorare l’infelice posizione lessicale del redattore.


Bisogno di ulteriori conferme? Ci pensa la definitiva e straziante deformazione della nostra umile e sana focaccia a convalidare la tesi testé acclarata: una forgasia non fa primavera. E soprattutto non fa un ristorante autenticamente italiano. O sole mio, Singapore. Astenersi, per favore. Almeno fino a quando questi analfabeti non arriveranno a capire che perfino un dozzinale Google translator può servire a qualcosa.




venerdì 11 ottobre 2013

Dedicato a un’ex ministra…

... che ci vuol far diventare tutti vegetariani.

I giapponesi riescono sempre ad essere originali. In tutto il resto dell’estremo oriente non c’è modo di mangiare una braciola che non sia stracotta, e le bistecche sono spesso delle tristi suole di scarpa incartapecorite. Agli orientali basta veder comparire una goccia di sangue mentre tagliano il filettino per rimandarlo indietro schifati per un’ulteriore radicale cottura.

Io adoro la carne appena scottata in superficie, quasi fredda dentro, e per quanti sforzi faccia nell’ordinare, non riesco mai ad averla come piace a me. Evidentemente i cuochi cinesi non concepiscono che uno appetisca un pezzo di carne non completamente asciugato di qualsiasi umore. Diatriba simile per le uova fritte: io amo il tuorlo crudo per meglio assaporarlo, e loro insistono a martoriare quelle povere uova. Finchè il tuorlo non è assodato e l’albume quasi bruciacchiato, dopo un paio di capriole in padella, non te le servono. De gustibus.

Invece in Giappone c’è la cultura delle cruditè. Sashimi e sushi sono sinonimi della loro cucina. Ma non c’è solo il pesce, di crudo. Nell’isola meridionale di Kyushu, a Kumamoto, un piatto tradizionale è la carne di cavallo. I veri buongustai la mangiano rigorosamente cruda.

I giapponesi hanno il senso della gratitudine. Una sera, forse per ricambiare certe libagioni subalpine a base di carne all’albese o di fresche battute al coltello da saporiti manzi piemontesi, mi è stata imbandita una tavola essenziale ma prelibata. Pochi, sceltissimi tagli. Bocconcini da centellinare uno per uno, intinti, proprio volendo dar loro una parvenza di cottura, in salsa di soia in cui stemperare erba cipollina e zenzero tritati. Che io ho trascurato, per apprezzare l’autentico sapore della carne.

In Italia c’è il mito della carne di cavallo che fa bene perché ricca di ferro e soprattutto magrissima. Invece questa aveva delle deliziose marezzature, degne di un Angus beef. Per non parlare di un taglio bello come un prosciutto, con magro e grasso separati con precisione nipponica. Ma l’apoteosi è stato il tategami, candido lardo equino di una delicatezza incomparabile. Roba da vergognarsi di aver qualche volta decantato con loro il lardo di Colonnata o quello di Arnad.

Mi attirerò le ire degli animalisti? Pazienza. Non si può sempre piacere a tutti. E a chi mi dirà che non amo i cavalli, rispondo che mi invece mi piacciono. Da vivi. E non solo.




domenica 11 agosto 2013

Ispirazioni oniriche

Talvolta certi racconti prendono forma nei sogni. La mattina, quelli che mi ricordo ancora, ho l’urgenza di buttarli giù, prima che li perda nei meandri della memoria. Il mio amore per i formaggi stanotte ha preso delle forme inaspettate. Vedevo dei personaggi. Erano dei camerieri. Ognuno aveva un latticino a cui si abbinava.

Lo squacquerone – inconsistente ed amorfo come il detto cacio. Vagola per la sala senza un apparente perché. Quando gli altri si caricano di pile di piatti sporchi da ritirare, lui spilluzzica due o tre stoviglie qua e là, da clienti scelti a caso, e poi impegna percorsi tortuosi e illogici per tornare in cucina. O è timido o ha la testa altrove, perché non c’è verso di incrociare il suo sguardo, per pura necessità alimentare e non per desiderio di socializzazione. Per la legge di Murphy, il suo vassoio si svuota sempre all’ultimo commensale del tavolo prima di voi. Al che scompare in cucina e probabilmente riceve una telefonata da un aborigeno australiano, perché se ne perdono le tracce per un buon quarto d’ora. Lasciandovi ai morsi della fame, acuiti dai gridolini di apprezzamento dei vicini che stanno gustando deliziose specialità. Loro. Maledetti. Si ritiene debba essere un parente intoccabile o un raccomandato – o entrambi. È l’unica spiegazione che giustifichi la sua inane presenza in mezzo a colleghe che trotterellano servendo a ritmo di valzer, mentre lui sembra fermo ai lenti da discoteca anni settanta.

Il gorgonzola – la similitudine con il vivace formaggio padano è puramente olfattiva. Non si capisce se sia colpa della divisa, in grave ritardo sulla tabella di marcia verso la tintoria, o se dipenda direttamente da lui. Fatto sta che il suo avvicinarsi al tavolo è palese perfino ai ciechi. Altrimenti innocuo, e talora addirittura solerte, questo handicap lo rende inviso alla maggioranza dei commensali, costretti ad apnee tipo Maiorca in attesa che sia terminata la somministrazione degli antipasti misti dalla guantiera – con conseguente e fatale ampia sbracciata verso i piatti e ostensione ravvicinata dell’ascella mefitica. Tale situazione può assumere conseguenze letali in estate, in locali privi di aria condizionata.

Il parmigiano – il re dei formaggi per il re dei camerieri. La sua lunga militanza nel solito ristorante ne certifica l’indiscussa autorevolezza. Fatevi consigliare, sempre. Lui ha l’occhio lungo in cucina, e sa cose. Se vi raccomanda il pescato di paranza, lasciate perdere l’orata. Se vi propone i funghi trifolati, non insistete con una banale milanese. Un suggerimento non accolto può causare reazioni a catena. Perché il re è spesso permaloso e si offende se i suoi pregevoli pareri non sono accolti con approvazione e gioia dai commensali, o peggio ancora vengono snobbati a favore di banalità culinarie che lui rifugge come un panino di McDonald e la cui associazione con la sua ieratica figura lui trova disonorevole, al punto da mandare in sua vece il garzon giovine, per recare agli indegni deschi tali vergognose refezioni. Alla fine del servizio non dimenticate una generosa mancia, se avete intenzione di tornare di nuovo in quel ristorante. Non perché il re ne abbia necessità – è solo un concreto segno di apprezzamento. Inchini e riverenze, pur essendo anch’essi correnti gesti di omaggio all’autorità regale, non sortiscono purtroppo gli stessi benefici effetti presso re parmigiano. Quindi mano al portafoglio, tirchiacci.

E infine...

La mozzarella – fresca, giovane, allegra e gradevole. Come una vera mozzarella appena plasmata dalle mani sapienti del mastro casaro. Serve col sorriso sulle labbra. Ringrazia lei se riceve un piccolo gesto di cortesia dai clienti. È rapida ma aggraziata. Ogni portata è accompagnata da una parola gentile. Indossa un paio di occhiali troppo grandi su quel musetto simpatico. Se lavorasse negli Stati Uniti e non in questo paese di avaracci farebbe una fortuna in mance. Come gli altri ritratti, non è un personaggio immaginario. Ed è l’unica di cui dirò di più: si chiama Camilla, l’ho conosciuta ieri sera in occasione di una pizzata e lavora in un locale sul lungomare versiliese. Avremmo bisogno di tante Camille in Italia: sarebbe un paese migliore.




mercoledì 10 luglio 2013

T.I.C. 2013 – 3



Prendete dei giapponesi. Portateli in Cina, ad aprire un negozio di crostate e pasticcini. Si accontenteranno di una vetrina, di un’insegna, di un nome magari spiritoso e ammiccante, che richiami folle di golosi attirati dalla conclamata qualità nipponica, applicata perfino al ramo dolci e affini?

Nemmeno per idea. I giapponesi devono riempire un muro con inquietanti farneticazioni in un improbabile inglese senza capo né coda. Calembour mal giocati e una fastidiosa alternanza di caratteri grandi e piccoli. Ahimè, con una triste caduta di stile alla conclusione: dall’aulicità di laghi, angeli e lune scintillanti, al prosaico invito a entrare e scoprire gli zuccherosi segreti della loro pasticceria. Cosa tocca fare per vendere quattro torte in più...





martedì 9 aprile 2013

Mal pro vi faccia

Cresciuto in una famiglia in cui il rispetto delle regole della buona educazione era esercizio diligente e quotidiano, una deprimente immagine scoperta per caso in rete mi fa riaffiorare alla memoria il diuturno set di regole che disciplinavano il desco.

Non si soffia sulla minestra, anche se brucia! E nemmeno sul cucchiaio. I gomiti, mai appoggiati sulla tavola. Forchetta con la sinistra, coltello nella destra. Mai alzarsi da tavola prima che abbiano finito i grandi. E soprattutto la cosa meno tollerata in quel coacervo di buone maniere bastanti ad educare un piccolo principe, mentre là fuori già si sentivano i clamori delle prime contestazioni giovanili e il sessantotto era dietro le porte: mai e poi mai leggere a tavola. Guai anche solo il pensiero di portarsi un giornalino, fresco di stampa e ancora profumato d’inchiostro, nelle vicinanze della refezione. Guai. Roba da andare a letto senza cena.

Così tanto incistati nelle profondità del subconscio sono questi antichi insegnamenti che tuttora provo un velato senso di fastidio quando mi capita, al ristorante, di vedere il classico rappresentante da solo che fra un piatto e l’altro distende il giornale sulla tovaglia e si legge l’attualità. Peggio se la scena vede protagonista una coppia. Non c’è miglior icona della mancanza di comunicativa di un marito – o una moglie – che si fa i fatti suoi, nascosto alla vista del consorte da un foglio rosa o da una rivista patinata.

Ebbene, qualche orientale indifferente al contravvenire le regole del galateo della tavola, ma sadico a sufficienza da sfruttare le debolezze dei dannati del pranzo-velocissimo-pur-rimanendo-collegati, ha pensato bene di creare un vile manufatto degno delle officine di Torquemada. Manco una zuppa in pace ci si può godere, ora. Sararimen, non avete più scuse. Ora il telefonino dalle mille miracolose applicazioni ve lo regge direttamente la zuppiera. Così vi potranno propinare qualsiasi obbrobriosa sbobba, tanto voi sarete con la testa nelle nuvole, tutti presi a consultare il listino della borsa, o a leggere l’ultimo pettegolezzo ginecologico di qualche attricetta da strapazzo, oppure - o tempora o mores – a giocare a qualche vacuo videogioco parolaio competendo con un altro travet che sta sorbendosi anche lui una brodaglia a tre – o trecento – chilometri di distanza.


E mi interrogo, senza forse voler trovare risposta: cosa direbbe di questi tempi, dai costumi così infinitamente lontani dai suoi, quel gentiluomo vecchio stampo di mio Padre?



domenica 8 luglio 2012

Konopizza

Viaggiatori, turisti, occasionali visitatori d’oltre confine. Quali sono i cibi che maggiormente identificano l’Italia nell’immaginario collettivo? Magari qualcuno non concorderà: ma per me sono la pizza ed il gelato. Va beh, gli americani ci provano sempre ad attribuirsi la paternità dell’allegra vivanda partenopea, grazie a catene di pizzerie che spesso propinano atrocità inimmaginabili a chi non abbia mai varcato i confini della Campania. Il gelato, quando non è spalettato da abili giocolieri turchi che sollazzano le clienti con divertenti siparietti, manovrando con consumata sapienza coni multigusto, viene per solito associato alla città di Napoli. Neapolitan icecream, recano scritto i mille chioschetti che vendono pallidi gusti di frutta o creme dai colori sospetti.

Ebbene, qualche animo perfido ha pensato bene di fare accoppiare queste due semplici delizie tutte italiane, dalla cui innaturale unione è nata una creatura aliena e inquietante: Konopizza. Il chiosco era chiuso, per cui non ho potuto documentare l’abominio in corso d’opera. Ma queste immagini bastano a far venire la pelle d’oca a chiunque abbia una goccia di sangue italiano, ed un briciolo di senso della tradizione. Un convogliatore trasporta all’interno del macchinario la pasta da cuocere, passando attraverso delle umilianti forche caudine in guisa di cono rovesciato. Nemmeno voglio immaginare come siano distribuiti gli ingredienti tipici della pizza all’interno del geometrico contenitore. Non so cosa esca dall’infernale apparecchio, e credo sia stata una fortuna non scoprirlo. Ci sono cose nella vita che non si vogliono sapere. Ed infine: raramente trovo cose o situazioni che mi offendono, ma stavolta ho fatto un’eccezione. Quell’”italia” (per inciso: minuscolo?! Please, un po’ di rispetto per la nostra nazione) piazzato lì, accanto al bizzarro nome commerciale, a cercar mendacemente di rinforzare il concetto di italianità, proprio non mi è andato giù. Sebbene sia di sicuro meno indigesto del konopizza.


No comment.



martedì 22 maggio 2012

L’uomo non è di legno

Se proprio la necessità lo impone, ogni tanto, seppur a malincuore, ricorro anche a dei ristoranti italiani all’estero. Per esempio quando non ho voglia di mangiare finto cinese, o finto tailandese, o finto vietnamita, come spesso capita in Australia. Purtroppo, con le ondate migratorie recenti, la terra di Down Under è piena di trattorie che sono diventati indecorosi miscugli, dove alla zia Pina, vecchia padrona sempre vestita di nero di una generazione fa, sono subentrati dei cinesi, oppure dei libanesi, che si mimetizzano meglio, da mediterranei dell’altra sponda, agli occhi non esperti di turisti e autoctoni, pur mantenendo le pretese di originale italianità del locale.

Insomma, non sempre qualità del cibo e redazione del menu vanno indenni dal passaggio di mano. Generando talvolta delle inesattezze, tanto involontarie quanto clamorosamente spassose. Come questa.


E ora chi glielo va a spiegare alla mia contabilità che in realtà la prima voce dello scontrino era un’innocentissima pasta alla puttanesca? Per fortuna c’è la tariffa, pardon, il prezzo, che taglia la testa al toro. Con l’inflazione galoppante di oggi, con quindici miseri dollari australiani una professionista dell’amore prezzolato credo non risponda nemmeno al campanello. Figuriamoci se ti fa pure la ricevuta.



mercoledì 28 marzo 2012

Tokyo, Itary

Niente da dire. Il tricolore vende sempre bene. Basta una bandiera fuori da un bar per richiamare, fin da lontano, l’attenzione di avventori nostalgici di quel piatto di pasta provato nel Lazio saporito o quelle lasagne gustate nella generosa Romagna.


Talvolta i tabelloni fuori dai locali esibiscono pochi, essenziali lemmi italiani: i soli capiversi, le grandi categorie. Sai che ci sono paste, pesci, pizze, dolci. Ma i piatti sono descritti esclusivamente in giapponese. Senza delle salvifiche foto sul menu ordinare diventa un dramma. Provate a imbroccare delle penne all’arrabbiata o un tiramisù, in quella selva di caratteri. E poi. Sempre originali, i nipponici. Nel resto del mondo si tira tardi sul weekend. Questo ristorante, per festività e fine settimana, chiude alle ventitrè. Nei giorni feriali alle quattro di mattina. Valli a capire.


Ci sono cose che un partenopeo verace non perdonerebbe mai, sebbene davvero esilaranti. Passi che una pizza margherita te la facciano pagare sedici euro (attenzione: non si tratta della magnanima ruota da trenta centimetri sbordante dal piatto come s’usa alle pendici del Vesuvio, ma di uno striminzito e malcotto modellino in scala che uno scugnizzo di otto anni accoglierebbe a pernacchie). Ma che perfino la città patria della pizza cada vittima del più famoso errore ortografico giapponese, questa è una faccenda da risolvere con le buone o con le cattive. Caro chef Matsumoto: Napori? Ma vulimme pazzià?!?

sabato 3 marzo 2012

La piccola bottega degli orrori - 2

Ogni tanto mi capita, più per compiacenza nei confronti di altri commensali che per genuino piacere, di accettare inviti in ristoranti italiani o presunti tali. E in questi simposi, di menu raffazzonati o impregnati di castronerie ne ho letti più di qualcuno in vita mia. Ma pochi possono contendere il primato ad un locale di una nota catena di pizzerie che finge di essere italiana, in un brulicante centro commerciale di Singapore.

Mi è venuto il sospetto che il supporto linguistico tricolore sia opera di consulenti foraggiati dalla concorrenza intenzionata a danneggiare la suddetta impresa. Perché altrimenti non si spiegherebbe un tale accanimento nei confronti del nostro vocabolario.

È già poco accettabile che, sia pur con la scusa dell’incombente stagione natalizia, si propini ad un’innocente avventore una pizza decorata nel centro da una ciliegia completa di picciolo, di quelle dall’inquietante colore rosso ferrari, che ti chiedi sempre che diavolo di tinture chimiche usino per conciarle così. Ma tant’è. Puoi sempre togliercela, se proprio ti fa ribrezzo l’idea. E in fondo, se ci sono dei vicini di tavolo che si strafogano con una pizza all’ananas, che meraviglia può destare una ciliegia fosforescente?

Ancor meno tollerabile è che pretendano di pubblicare sul menu amenità e fatti curiosi sul Natale, ed informino, udite udite, che non dappertutto il vecchio barbuto che porta doni su una slitta tirata da renne volanti è conosciuto come Santa Claus, ma che per esempio in italiano si chiama (sic) Le Befana. Voltiamo pagina.

Grazie alla mania americana di abbreviare le parole per rendere tutto più veloce e più pratico, che non abbiamo mica tempo da perdere qui, ecco infine la perla che vado ad illustrare. Una pasta seminata di tocchi di pollo ed altri ingredienti che ora mi sfuggono, nella foga del succingere, trasforma il troppo lungo chicken in chic’. Si suppone che il redattore della carta fosse in vena di estrosità geografiche, vista la conclusione del suo capolavoro. Chic’… Chic’…? Come le battezzo queste linguine al pollo? Ecco l’idea! Trovato. Chiamiamole come la città americana. Chic’ cago. Proprio così, verbatim. Potessi morire. Gli ho fatto una foto perché non ci credevo. Defeco elegantemente. In pizzeria.

Il candido, ingenuo peto di pollo letto una volta in Australia è surclassato. Maledetti creativi, quando imparerete a consultare i dizionari delle lingue che violentate con i vostri cervelli bacati, per il vile profitto di qualche pizza o di qualche piatto di pasta venduti in più?


Prima pubblicazione : 2 dicembre 2007

martedì 28 febbraio 2012

La piccola cuccia

I giapponesi sembra soffrano di una recente esterofilia. Una borsa, un vestito, un profumo devono essere francesi. Un hamburger (sì, mi perseguitano anche qui), americano, ça va sans dire. Un piatto di pasta o una pizza? Senza un tocco – purtroppo spesso maldestro – della lingua di Dante non attirano avventori.

Sono arrivato a chiedermi se lo facciano apposta. Perché una tale concentrazione di errori si può spiegare solo con due scuole di pensiero: superficialità nelle traduzioni, ma non fa parte dello stile giapponese. Una ponderata e ben studiata inserzione di strafalcioni, più che altro ortografici, per attirare l’attenzione – e magari ambire alla presenza – proprio di quei pochi gaijin pignoli che si mettono a verificare se nella terra del Sol Levante viene fatto buon uso del loro idioma.

Una parete così costellata di errori ed incongruenze non l’avevo ancora vista. Da una parte c’è la velleità di far bene, di usare perfino termini difficili. Dall’altra ci sono alcuni peccati veniali : un più che diventa pin, forse colpa di una calligrafia non proprio chiara, si sa quanto son simili la u e la enne nel corsivo frettoloso, piacevola (eh, questi complicati aggettivi invarianti!), tanta persone, una O dimenticata in presto, una I e un paio di accenti rimasti nella penna, anzi, di questi uno è saltato su una E centrale che ne avrebbe fatto volentieri a meno.

Ma la cuccina no, non si perdona. Troppo comune questa parola, è sulla bocca di tutti. In libreria uno chef su due la usa nel titolo della propria opera. Dai. La piccola cuccia. Ripetuta due volte. Per favore. Se non rispettate il sommo poeta, almeno rispettate Gianfranco Vissani.



mercoledì 15 febbraio 2012

La piccola bottega degli orrori

Lessicali.

Avevano finito le A. Non me la spiego altrimenti un’ostinazione così caparbia nello sbagliare due parole su due, tutto sommato facili, e alla fine ben ricorrenti nella gastronomia nipponica. Bagel e gelato. Non ci voleva molto. Bastavano due minuti di ricerca su internet, o aprire al volo un dizionario. E dai, amici ristoratori. Potete fare di meglio che Begle e Geleto.

Formalmente corretto (perdoniamo la svista su ancora, certo colpa di un tipografo poco pratico di alfabeto romano). Ma povero maestro di Giotto. Ridotto ad accileccare in un italiano improbabile delle giapponesi abbienti, affinchè entrino proprio in quella bottega di scarselle di pregio. Mi veniva voglia di chiedere a qualche signora se davvero aveva trovato qualcosa piacevole. Ma avevo paura di venir frainteso, ed esser preso a borsettate.

Ci prendono in giro che mettiamo sempre le erre al posto delle elle? Ecco fatto. Questo frutto non ci frega. Sentiamo dire mirtillo, ma sarà sicuramente scritto così: affogato al miltillo.

Ed infine un classico. Giapponesizzazione di un piatto che più meneghino non si può. La onesta, impanata braciola alla milanese diventa (è femminile, finirà per a, no!?) milanesa. Suona male? Facciamo miranesa. Ora sì che si vende! Una bella miranesa al quattro, presto! (comunque sempre meglio di chi la chiama veal scallopini, e pretende perfino che questo sia italiano!)


martedì 31 gennaio 2012

Minibar

Non quello che si trova in una buona parte degli alberghi di una certa fascia di stelle. Fuori da questo firmamento, al di sotto si compra la bottiglia d’acqua minerale dal supermercato di fronte oppure dal portiere che, nei casi più commoventi, ti dota addirittura di uno di quegli ormai rarissimi tappini di plastica con l’anello per avvolgerlo intorno al collo della bevanda, ve li ricordate? Mentre al di sopra il frigobar non c’è perché ogni ospite ha il personal butler, a cui telefonare per qualsiasi necessità ad ogni ora, e sarà lui così premuroso da portarvi in camera già stappata ed alla corretta temperatura la dissetante dose di bollicine, per dispensarvi anche della poco onerosa ma pur sempre perigliosa incombenza di far saltare il tappo a corona, mai vi si dovesse rompere un’unghia nell’operazione.

Dicevo: non mi riferisco a tale fastidioso elettrodomestico (a proposito, solo gli alberghi più intelligenti hanno un interruttore sulla parte frontale dello stesso, perché pare che i sadici costruttori di tali frigidaires mignon si divertano a nasconderci dentro un sensore orario, che più si va verso le ore piccole e più rende rumoroso e insopportabile il ronzio del marchingegno).

Minibar è l’apoteosi della capacità giapponese di sfruttare lo spazio, di cui sono in eterna carenza. Il bar più minuscolo – e semovente! – del mondo. Con tanto di ombrellone prospiciente il dehors, bancone ornato di allegre lucine decorative anche se è pieno giorno, insegna “aperto” (come se qualcuno, senza quel cartello, guardando la bottega avesse ancora dei dubbi, mah, chissà se sarà aperto o chiuso?) e addirittura ben due poltroncine d’alluminio, per i clienti più esigenti che l’espresso pretendono di sorbirlo comodamente seduti e non alla volè, in piedi.

Completa la pregevole organizzazione un sacrosanto cestino del pattume, mai qualche screanzato (certo uno straniero) trovasse la scusa che non sa dove buttare il tovagliolo di carta e sporcasse per terra.

La qualità, altro caposaldo della trinità virtuosa giapponese (puntualità, ordine e pulizia, qualità) è evidente nella scelta della marca di caffè da servire. Roba fine, importata dall’Italia, mica anonimi chicchi senza pedigree.

Il mezzo è certamente datato, ma non per questo mal mantenuto. Le cromature sono sempre splendenti, la tinta bicolore è piacevolmente adatta a quanto offerto dall’attività commerciale. Non l’ho fatto, ma c’è da scommettere che se avessi domandato alla gestrice ogni quanto lavava il veicolo, mi avrebbe risposto, con la stessa espressione sorpresa di un taxista a cui lo avevo invece chiesto, sottintendendo “ovviamente” ma facendolo ben sentire dall’intonazione della voce: ogni giorno, perché?

Devono essere stati fatti anche degli studi di ergonomia, che hanno portato alla seguente conclusione: la selezione per il ruolo di barista doveva tassativamente escludere le persone di altezza superiore ai 155 cm. Se no come ci stava, la tapina, nel posto di lavoro?

venerdì 27 gennaio 2012

Tre stelle (Itadakimasu)

Mai stati in un ristorante a tre stelle? Nemmeno io. Perché uno si fa sempre l’idea che debbano essere di quei locali dove uno esce e avrebbe voglia di farsi una pizza. Per carità, ricercatezza d’ambiente e qualità suprema degli ingredienti. Pietanze dai nomi talmente arzigogolati o descrittivi, che si consuman più calorie a enunciarli di quelle che tornano nel mangiarli. Porzioncine risicate perse in piatti sterminati, opere d’arte surrealiste più che cibo per umani golosi. Incutono timore piuttosto che stimolar succhi gastrici, anche per l’incombente - seppur venale - pensiero del costo unitario di ogni minimalistica forchettata di tali artistiche invenzioni di un caposcuola dei fornelli. Conti sussurrati come onorari di primari cardiologi, e non è l’unica analogia.

Invece stasera ho avuto la conferma che esistono posti dove le stelle si guadagnano sul campo, senza chiasso, senza visite di famosi gourmet televisivi, senza pubblicazioni su almanacchi di fama a cadenza annuale. Le stelle le assegna il pubblico pagante, e non si trovano sull’insegna del locale ma nel cuore di chi pazientemente fa la coda, seduto fuori, su dei sobri panchetti, malamente difesi dal freddo di Tokyo da degli scaldini infuocati in terracotta, nell’attesa che si liberi una sedia di proscenio in quel minimo, impossibile ristorante che non ha nemmeno posto per aspettare in piedi il proprio turno.

Il luogo non offre inutili e dispendiosi comfort come lo spazio. Mangi letteralmente gomito a gomito con lo sconosciuto e casuale vicino, tutti seduti attorno al bancone con in vetrina la selezione dei tranci di pesce da cui una mano intenditrice, armata di uno snello e affilatissimo coltello da sushi, spicca piccole dosi di piacere culinario. Una decina di posti a malapena, raddoppiati da una saletta gemella sotterranea, alla quale si accede da una ripida scala che invita alla morigeratezza nel bere alcolici.

Ma ti ripaga servendo cibo di qualità e freschezza eccelse. Senza alcuna spocchia, minimalisti come solo i giapponesi sono capaci di essere. Un sushi master che sa spiccicare alcune essenziali parole di inglese, segno che ogni tanto qualche turista viene a far capolino fin qui. Mai visto uno, peraltro, se non vogliamo considerare tali dei nipponici emigrati per lavoro negli Stati Uniti, ma pur sempre ben fieri di onorare le tradizioni locali: bere sakè caldo come delle spugne, per esempio, fino ad arrabattarsi il giusto per risalire le scale verso l’uscita.

È uno di quei minuscoli ristoranti nelle immediate vicinanze dal mercato del pesce di Tsukiji, il più grande al mondo. Ogni singolo assaggio di sushi, armoniosamente affettato da mani rosate e stabilmente aggrinzite dall’acqua, è pura meraviglia. I gesti si ripetono sempre uguali a se stessi. La soave e prelibata fettina di pesce danza, quasi piroetta fra le dita della mano destra, mentre l’altra coglie un sospiro di wasabi, il verde e lacrimogeno rafano giapponese, e sensuale ne accarezza il filetto. Poi un perfetto boccone di riso abbraccia, come un candido letto accoglie una appassionata amante, quel sopraffino assaggio di anguilla morbida che pare una mousse, un tonno delicatissimo, arrendevole al palato come un burro tiepido, un riccio di mare paradisiaco incoronato da un fragrante foglio di nori, l’alga essiccata necessaria per certe preparazioni di sushi, mai frusciante e seducente la papilla come in questo luogo di delizie.

Sai di avere toccato il cuore a quel maestro di infinita sapienza ittica quando alla fine, rarissimo onore per un gaijin, ti accommiata invitando ad una corale urlata di saluto. Gli altri lavoranti rispondono compatti. Fuori ti accoglie lo schiaffo del vento sibilante e siamo sotto zero, ma che importa. Itadakimasu.

venerdì 25 novembre 2011

TJI (7)

Privilegi. Abbiamo... il menu in inglese. Così poco comune da pubblicizzarlo perfino sulla vetrina di questo ristorantino con la pretesa di servire cibo italiano (sì, va davvero di moda la nostra cucina). Per fortuna molti posti rimediano alla carenza di una lista leggibile esibendo fotografie (da indicare con il dito, come degli analfabeti) oppure con i finti piatti in vetrina (già più complicato, o si memorizzano le didascalie e poi si tenta la sorte cercando di riconoscerle sulla carta scritta in giapponese, oppure occorre portarsi fuori il cameriere ed ammiccare qua e là sperando che capisca e non sia strabico. Perché chi serve in un ristorante di solito non sa neppure qualche parola di inglese basilare.

Quindi, o imparate voi a ordinare in giapponese, oppure dieta!