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lunedì 29 settembre 2014

What were they thinking?


Chi seleziona le fotografie non parla con l’articolista. Che di rimando non controlla quali immagini verranno accoppiate all’articolo.

Ditemi che a La Stampa funziona così. Almeno nelle redazioni rivierasche dell’imperiese.

Perché altrimenti non si spiega come un innocuo trafiletto relativo a piccanti retroscena di saloni di massaggio gestiti da cinesi si trasformi in un capolavoro di umorismo involontario.

Questo è il pezzo.


Questa è l’immagine centrale, ingrandita. Fate caso alla didascalia (e per favore trascurate l’ortografia).


Tanto valeva titolare: avvocato sorpreso sotto le capaci mani di una masseuse.






sabato 8 febbraio 2014

Scatti cinesi: people have the power (forse)

Segue da ieri.


I giochi del popolo. Gli adulti amano radunarsi, a tarda sera, davanti a un tavolo da mahjong, bevendo, fumando e scommettendo soldi. I ragazzini giocano in strada, a pallone oppure con i divertimenti d’importazione, anche se sono tutti prodotti proprio qui. Come questo marmocchio che sta calzando un paio di pattini in linea. Tutto il mondo è paese. Impossibile aspettare di trovare una superficie adatta per provare il nuovo gioco. Non farà granchè strada con quell’impiantito sgangherato. Ma vuoi mettere l’invidia degli amici?


I trasporti del popolo. La sensazione, a giudicare da questa pragmatica mamma di Shanghai, è che la Chicco non faccia grossi affari in Cina. Quel che si adopera per la spesa, va bene anche per scarrozzare in giro l’infante. E senza tanti frigni!


La musica del popolo. Ai cinesi per suonare, cantare e ballare non occorre un locale. Basta il sottopasso di una strada sopraelevata. E chi se ne frega se è poco romantico. È al riparo. È gratis. E tanto basta.


L’Opera del popolo. I teatri dalle confortevoli poltroncine imbottite vanno bene per quei fighetti di pechinesi, che oltretutto hanno pure la pretesa di portarci i laowai, quando notoriamente questi né capiscono né apprezzano l’arte dell’opera tradizionale cinese. Mentre invece nel nord ovest della Cina il teatro si mette in scena in piazza, ci si cambia in qualche sgabuzzino dei casermoni fatti di alloggi proletari, si recita tra la gente che si affolla attorno ad un palco improvvisato. Qui sì che c’è ancora l’anima dell’arte più pura.




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venerdì 15 novembre 2013

Genitori numerati

Finalmente il politically correct sbarca in Italia. Se ne sentiva il bisogno. Dopo il caso del Liceo romano in cui gli antiquati termini padre e madre vengono soppiantati dai più moderni e matematici genitore 1 e genitore 2, è il caso di aggiornarsi.

Volete essere al passo coi tempi? Non fate la figura dei retrogradi, usando ancora certe terminologie obsolete e sessiste. Vi aiuto un po’, per iniziare ad impratichirvi.

Questo, per esempio, è...

Il Genitore 1 della Patria


In un consesso di cinefili, ricordatevi che il capolavoro di Almodovar è...

Tutto sul mio genitore 2


Avete in programma un pellegrinaggio al sud? Agli amici sensibili alla neutralità di genere, dite che andate da...

Genitore 1 Pio


Non siamo più ai tempi di tranvai sferraglianti, balille e vestivamo alla marinara. Oggi a Torino questa chiesa si chiama...

Il Gran Genitore 2 di Dio


E via discorrendo...





giovedì 10 ottobre 2013

Caldo e freddo

Caro Chuck Abbott, ho deciso di scriverti. Per parlarti della differenza tra caldo e freddo. Anche se il tuo messaggio si apre e si chiude con la parola warm, che sta per calorosi (il benvenuto e gli ossequi), non sei riuscito a trasmettere il supposto tepore del tuo interessamento. Perché il mezzo è freddo: lo schermo del televisore in camera. E perché il messaggio è freddo: impersonale, probabilmente trasmesso da un computer a tutte le camere con la sola piccola personalizzazione del nome dell’ospite – ma visto che non siamo così in confidenza da usare il nome di battesimo, al cognome sarebbe stato carino far precedere un Mr., che così suona un po’ sgarbato.

E non mi prendere per un incontentabile. Perché nella tua stessa catena alberghiera c’è anche chi del messaggio di accoglienza sa davvero far sentire il calore. Come mi è successo, solo pochi giorni prima, in un hotel di Jakarta.

Un semplice cartoncino sulla scrivania. Ma scritto a mano. Mi piace pensare che il tuo pari ruolo Andreas abbia speso un minuto del suo tempo per darmi il benvenuto, magari usando una poetica stilografica, e che quel biglietto sia reso esclusivo dall’unicità della calligrafia, mai uguale a se stessa. E mi piace il disegno in stile coloniale dai tenui colori pastello, che volendo diventa una cartolina da staccare e spedire a qualche amico speciale degno di ricevere un antiquato souvenir con tanto di francobollo esotico, invece di un banale e frettoloso sms o un’anonima foto buttata lì in qualche social network, più per esibizionismo che per vero piacere di condivisione del momento.

Ecco, tutto questo è veramente caldo. Solo per farti presente la differenza, Chuck.





domenica 25 agosto 2013

Bussole viventi

Mettiamo che il destino vi abbia fatto nascere in una famiglia il cui nome è un punto cardinale. E che voi e vostra moglie siate entrambi personaggi dello show business – roba da rotocalchi e reality televisivi – in America. Mettiamo infine che il vostro matrimonio venga allietato dall’arrivo di una frugoletta.

Quale genitore sarebbe così crudele da imporre alla neonata un altro punto cardinale come nome proprio? Lo so, sembra una barzelletta. Purtroppo non lo è. La pargola del signor Kanye West – e della signora Kim Kardashian – è stata chiamata North. Che legato al cognome, la rende North West. Praticamente Nord Ovest. Questa povera figliola – sempre che raggiunta l’età della ragione non lo cambi, stufa di esser presa in giro dai compagni di classe – si porterà appresso un appellativo che fa pensare più ad un’arteria periferica di grande scorrimento che un nome di fanciulla. Prendi la nord-ovest, che fai prima, in centro ci sono sempre ingorghi. E poi chi ha deciso che il nord è femminile?

Se il matrimonio durerà a sufficienza da mettere in cantiere altra prole, c’è da sperare che non vogliano completare il trittico, aggiungendo anche Sud Ovest e Est Ovest. Ci sono già dei meteorologi e dei nocchieri pronti a dar battaglia, rivendicando ai propri mestieri il corretto uso di tali denominazioni da rosa dei venti.




sabato 6 luglio 2013

T.I.C. 2013 - 1



Chi se ne importa, paiono dire queste due ragazze che si preparano al servizio fotografico nell’ambiente caratteristico di una Cina antica che non c’è quasi più.

Tanto il vestito è bello lungo, e copre tutto. Allora sotto vanno bene anche le ciabatte rosa, o i sandali con la zeppa color verde mare.

I dettagli, si sa, sono per quegli inguaribili perfezionisti degli europei. Qui, nella terra dell'apparenza, quel che non si mostra non esiste. T.I.C.




lunedì 11 febbraio 2013

Sberleffo n. 140

Viareggio festeggia un traguardo ragguardevole: centoquaranta anni di satira in formato gigante. Che come ogni anno prende di mira i malcostumi italiani e non.

Allora cominciamo con uno dei personaggi saliti – purtroppo – di recente alla ribalta della ribalda notorietà.

E io pago!

Poi ci sono gli omini verdi che ci ricordano quanto siamo circondati da...

Mangiapane a UFO

Le tre scimmie borghesi, nel salotto buono, sotto un quadro con Obama che bacia la Merkel, non vedono, non sentono e non parlano, mentre tutto intorno imperversa...

La guerra dei poveri

Figuranti in pepli e prefiche luttuose accompagnano le sorti infauste della Grecia, rappresentate da un colossale e inquietante...

Minotauro

Ma poi un’allegra banda in stile Dixie ci invita, con sana volgarità, a fregarcene di tutta questa opprimente austerità. Ecco la...

Fuck the Austerity Jazz Band

Non potevano mancare le più alte cariche dello Stato. Rappresentate irriverentemente da una coppietta di sposini, Monti e Napolitano festeggiano...

Le nozze coi fichi secchi

È ora di fare un po’ di pulizia. Al Colle, da un finestrone si affaccia una vigorosa mami, che spolvera il palazzo dai parassiti della politica.

Aprite le finestre, è primavera

I poteri forti sanno ben mascherarsi. Possente e sgargiante carro con cinque arpie che rappresentano il...

Potere in Maschera

E infine un tocco di allegria amara e disincantata. Come stornellava Rino Gaetano, irridendo le mille cose della vita...

Ma il cielo è sempre più blu



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domenica 3 febbraio 2013

Business di moda

Due vetture in direzioni opposte intasano le strette corsie di una strada di Shanghai. Un guardiano dalla giacca stazzonata indica gesticolando che tocca tornare indietro, perché di lì non si passa. Chiedo al vecchio amico con cui viaggio: che succede? Si sono toccati? Ma no, commenta mentre si impegna in una retromarcia senza premura. C’è uno sdraiato per terra davanti ad una macchina. Siamo vicini al capodanno cinese, no? Ogni tanto ancora faccio fatica a vedere il nesso. Ma lui spiega: è un nuovo business del momento. La gente ha bisogno di soldi per la cena celebrativa, per fare regali, insomma, non si può perdere la faccia con i parenti nell’unica occasione conviviale davvero importante dell’anno. Allora cosa fanno? Scelta la loro vittima, sbucano all’improvviso davanti ad una macchina che va piano – per evitare di essere arrotati sul serio – e poi si buttano per terra, come se fossero stati investiti. Per rimediare qualche soldo di compensazione al volo. Bisogna fare attenzione, chiosa. Perché ci sono quelli che si spingono a rompersi preventivamente – e apposta – un braccio. Poi, rotolandosi dal dolore, insistono per andare in ospedale a fare una lastra. C’è chi in un giorno sfrutta al meglio la autoinflitta menomazione, ripetendo l’escamotage più volte, e gli automobilisti, per non avere noie peggiori, sborsano di corsa.

Ne avevo sentite tante, ma uno che si spacca un braccio per spremere qualche soldo ai guidatori ingenui e pagarsi un banchetto mi mancava ancora. T.I.C.



domenica 20 gennaio 2013

Best. Notice. Ever.

Ci sono mille maniere di ricordare alla gente le regole della buona educazione. Formali. Burbere. Ammonitrici. Minacciose. Sporadicamente spiritose, perché se anche l’intenzione sarebbe di fare i simpatici ed esser divertenti, nella speranza infine di venire ascoltati, i risultati sono spesso deludenti. Mica tutti sono dei comici nati.

Raramente mi è capitato di imbattermi in un cartello arguto come questo. Visto all’uscita del palazzetto dello sport di Saluggia, piccolo paese al confine delle risaie vercellesi. Un bravo all’anonimo, originale spirito che lo ha coniato.





giovedì 3 gennaio 2013

Preghierina per un anno migliore

Caro 2013, vorrei che facessi, come per incanto, scomparire:

I piatti da pizza della Juventus. Per favore. Non se ne può più di queste serie monotematiche da lobotomizzati del calcio. Borse, borselli e borsoni. Portafogli, cintole, sciarpe, magliette e mutande. Ora perfino i piatti da pizza. Almeno quando mangio l’allegra vivanda partenopea vorrei non esser costretto a pensare alle domenicali tenzoni che tengono col fiato sospeso l’italiano medio. Ma poi davvero volete dirmi che c’è chi si mette in casa – e magari mostra orgoglioso agli amici – la serie completa dei piatti da pizza della Juventus? O tempora o mores.


Le usuali giaculatorie dei giornalisti circa le multe aumentate. Con la divertente chiosa: capodanno amaro per gli automobilisti. Spiegatemi perché amaro. Per me è molto più amaro leggere che ci sono ancora morti e feriti da botti. Che si stanno studiando nuove tasse che colpiranno come sempre i soliti noti. Che si continuano a scoprire nuove ruberie dei politici e nessuno paga come dovrebbe. Questo è amaro.

Le multe non sono una gabella obbligatoria. Vi spiego una cosa meravigliosa che deve essere sfuggita ai più: per evitarle basta seguire i dettami del codice della strada. Le cinture ci sono per essere indossate. I limiti di velocità non per impedire la libera espressione dei cavalli contenuti nel proprio vano motore, ma per ridurre morti e feriti che alla fine pesano – anche economicamente – sulla comunità. Io, e voi onesti lettori, paghiamo le tasse anche per soccorrere e curare gli imbecilli che bevono come spugne e poi si spetasciano contro gli alberi, poveri vegetali innocenti. O contro altri innocenti bipedi che hanno la sola colpa di trovarsi sullo scriteriato percorso di un ubriacone al volante.

I semafori rossi, i limiti – sempre troppo lassisti – di tasso alcolometrico nel sangue, i segnali di stop sono tutti lì non per succhiare soldi ai guidatori. Son lì per esser rispettati. Altrimenti pagate. Fosse per me, cari furboni che sorpassate senza visibilità, che parlate e gesticolate al telefono mentre guidate, che avete preso l’autostrada per la pista di Monza, che dite cosa vuoi che sia un goccetto in più, dovreste sborsare dieci volte quello che vi costa oggi trasgredire. Forse alla fine imparereste a rispettare il codice della strada. E con esso, gli altri utenti della strada. Ma chiedere agli italiani di rispettare il prossimo è impresa disperata. Per non dire inutile.


Le ipocrisie delle pubblicità televisive di roulette, slot-machine e altre diavolerie mangiasoldi, che ti raccomandano di giocare responsabilmente. Come se esistesse qualcuno capace, una volta preso dal demone del gioco, di farlo con un minimo di responsabilità. Si parla ogni giorno, e con crescente allarme, di giocatori compulsivi che si rovinano, finendo stipendi, vendendosi macchine e appartamenti, indebitandosi con gli strozzini e mettendo sul lastrico famiglie magari ignare del tarlo che le rode dal di dentro.

L’ideale sarebbe dire basta a tutta quest’orgia di tentazioni. Distributori automatici di gratta e vinci perfino nei supermercati. Monitor dal tabaccaio sotto casa che fanno un’estrazione ogni cinque minuti – di orologio, non è un modo di dire. Aprite una pagina qualsiasi di internet e ci sono ottime chances di trovare qualche banner che ti invita a tentar la fortuna, promettendo facili e stratosferiche vincite e gettoni gratuiti per iniziare. Come i pusher della droga. Le prime dosi sono omaggio. Per creare il fabbisogno. Poi pagherete caro, pagherete tutto, come si diceva tanti anni fa, ma riferito ad altre colpe, questa volta di classe.

In mancanza di un bel colpo di spugna che cancelli tutte queste istigazioni legalizzate di uno stato biscazziere, almeno risparmiateci l’ipocrisia. Preferirei una réclame che dicesse: vi venderete anche vostra nonna per continuare a giocare, ma a noi che ci frega? L’importante è che continuiate a cacciar tanti bei soldoni fruscianti, cari i nostri coglioni. Ecco, così forse potrei ascoltarla senza rischiare il travaso di bile.


Le mamme che difendono l’indifendibile. Ogni scarrafone è bello a mamma sua, questo si sa. Ma possibile che dei giornalisti trovino etico e magari di buon gusto intervistare telefonicamente la madre di Fiorito, detto batman, o del prete talebano di Lerici? Le quali ovviamente sono pronte a dichiarare – talvolta urlando – che i propri figli sono dei bravi ragazzi (al cuor di mamma il figlio rimane un ragazzo anche se sta arrivando ai cinquanta o ai sessanta). In un caso ci siamo sentiti dire che non ha rubbato assolutamente nulla (secondo il noto postulato italiano che la res publica non è di nessuno, quindi appropriarsene o farne malo uso non equivale a rubare) e che tenerlo in galera era un’ingiustizia bella e buona, un vero insulto nei confronti di un uomo la cui morigeratezza di costumi è evidente fin dalla silhouette, che ne fa un Gandhi de noantri.

Nel più recente episodio del prete che ha puntato il dito accusatore contro le donne abusate e uccise (e non ha fatto altro che dar voce al pensiero di ancora troppi maschi/listi: se ne stessero a casa, invece di andare in giro a provocare quei poveri uomini che poi non hanno altra scelta che violentarle o ammazzarle, o magari entrambe) la madre del novello Voltaire ligure ha sostenuto che certamente il volantino da lui affisso in bacheca della parrocchia non poteva essere stato scritto da un figlio così bravo e diligente. Sarà stata una distrazione? Una svista alla Scaiola, che non si era accorto di abitare in una casa di sua proprietà? L’ultima linea di difesa sarà sostenere che il prelato è innocente perché totalmente analfabeta, e quindi non in grado di giudicare i contenuti di quanto da lui stesso esposto in bacheca?

Ehi, giornalisti a caccia di scoop da Novella duemila: anche la madre di Hitler, se interpellata ai suoi tempi, avrebbe dichiarato che quel ragazzaccio in fondo in fondo era un cuore tenero, che la colpa era tutta di quei cattivoni in camicia bruna che lo circondavano, e che una volta aveva perfino curato la zampa del proprio pastore tedesco che si era fatto male correndo dietro a degli zingari...

Non diamo voce alle mamme degli indifendibili. Se ne stiano zitte a casa loro a riflettere sugli errori commessi nell’educazione dei propri pargoli, e non invadano l’etere con lai e querimonie non richieste. E già che ci siamo: a casa anche chi le intervista.


Caro 2013, lo so che è meno grave. Ma non potresti anche fare qualcosina per quei pubblicitari che ci ammanniscono senza tregua pance sorridenti perché stracolme di bifidi attivi come formiche in vista dell’inverno, facce da idioti imbambolati che posano per collezioni a dispense di berretti delle truppe della Seconda Guerra, cinghiali acquattati sullo stomaco di poveri dormienti, e vascelli, contrammiraglie e automobili da costruire pezzo per pezzo in anni di lavoro a puntate settimanali – ad un costo probabilmente equipollente agli originali dell’epoca? Se c’è davvero tanta crisi, come si spiega l’esistenza di tali incongruenze?

Conto su di te, caro 2013, perché sull’intelligenza dell’Homo Italicus proprio non si può fare assegnamento.



giovedì 16 agosto 2012

Hooker’s corner

Boccaccio non avrebbe saputo fare di meglio. C’è più scorrettezza politica in questa notizia di quanto un giornale americano riesca a mettere insieme in un anno di pubblicazioni.

La storia arriva dagli antipodi. Auckland, Nuova Zelanda: l’amministrazione comunale è sul piede di guerra con le prostitute che danneggiano il patrimonio comune. Come? Esibendosi in volteggi adescatori sui pali dei segnali stradali. E siccome evidentemente non tutte sono delle libellule, ne hanno piegati o troncati già un buon numero, nei mesi recenti. Allora, ragazze: o la smettete di abbuffarvi come delle maiale e vi rimettete un po’ in linea, oppure la piantate di usare gli stop come pali da lap-dance.

Mi viene in mente il grande De Andrè e la sua Bocca di rosa. Le contromisure fino a quel punto, si limitavano all’invettiva. Le abitanti del quartiere sono imbufalite, come sempre accade quando la tentazione viene portata proprio a domicilio, mettendo a repentaglio la fedeltà dei maritini. Una dichiara: il mio indirizzo è Hunters Corner, ma siamo talmente pieni di prostitute che su un pacco per me hanno scritto Hooker’s Corner, e mi è stato recapitato lo stesso.

Tutto da ridere: l’angolo delle mignotte, già accreditato perfino dai postini. Ora non ci resta altro che aspettarsi un esposto dell’associazione delle peripatetiche neozelandesi nei confronti dell’amministrazione pubblica, per aver usato materiali scadenti nei pali dei cartelli. Gli infortuni sul lavoro sono una cosa seria, e poi queste sono imprenditrici in proprio, non si possono permettere di stare a casa con la schiena a pezzi o una gamba rotta. La concorrenza impietosa incalza, e un palo che cede sotto lo slancio ginnico di una lucciola giunonica può causare imponenti perdite di reddito. Per non parlare del danno d’immagine. Da sexy a ridicola nel breve istante in cui il palo cede e si affloscia come burro fuso. Robe da far causa.

Fossi nei panni dell’assessore all’urbanistica di Auckland, consulterei un avvocato di grido. Non sia mai che la mia fantasia divenga realtà, e per maggior scorno qualche giudice in vena di estrosità leguleie non dia alla fine ragione alle professioniste dell’amore – ma dilettanti della palestra. Costringendo la città a cambiare tutto l’arredo urbano. E magari imponendo pure una lautamente pagata consulenza della Technogym, giusto per esser sicuri che i volteggi delle squillo siano tutelati da solide basi tecniche e strumenti adeguati.

Non vedo l’ora di andare in Australia, per sentire quante nuove barzellette hanno coniato gli aussies sul tema. Gli amati-odiati cugini kiwi sono il loro bersaglio preferito, vuoi non approfittare di una storia così gustosa? Basterà buttare lì le paroline magiche hooker’s corner, tra una birra e l’altra, e aver pronto il taccuino. E un fazzoletto, per asciugarsi le lacrime dal ridere.



giovedì 28 giugno 2012

Car in a bar

C’è una macchina lì dietro, mi dice il collega con cui sto viaggiando in Vietnam. La scena si svolge in un modesto baretto di Hanoi, dove servono quel caffè particolare con un sistema a filtro individuale che mi fa riaffiorare alla mente ricordi di fanciullezza: la vecchia napoletana – ormai in disuso – con la quale si preparava una tazzina davvero speciale, apprezzata dall’antichissimo ingegnere partenopeo che di tanto in tanto passava a far visita.

Insomma, dopo questa coppetta di vetro riempita goccia a goccia con un liquido dolciastro e denso, oleoso quasi, il collega azzarda una visita ai servizi. Che, come di consueto, sono in fondo a sinistra. Torna con lo sguardo sbigottito e mormora poche perplesse parole. Devo capire cosa intenda. Mi vien da pensare: è normale che le macchine stiano dietro ai negozi, vista l’impossibilità di parcheggiare nel dedalo di stradine strette e appena adatte alla miriade di ronzanti motocicli. Vado a vedere, simulando una necessità corporale.

La macchina c’è davvero. Coperta da un telo polveroso, una volta argentato, di quelli che usavano negli anni sessanta. Ma è dentro al negozio. Bottega e garage, pezzo unico. Straordinario. La padrona stava ricamando un delicato motivo floreale su un cencio qualsiasi. Per fortuna ha supposto che volessi riprendere lei, e mi ha sorriso a piena dentatura. Ma quello che mi interessava era dietro la sorridente anfitriona. A car in a bar.


mercoledì 6 giugno 2012

De mercatoribus

Nel cuore del salotto buono di Milano sta, corta e densa di storia, via dei Mercanti. Che un sabato pomeriggio qualsiasi – o quasi, visto che c’era il papa in città – nel pur breve tratto tra piazza Cordusio e piazza del Duomo costringe ad una vera e propria gimcana, per evitare di calpestare le carabattole più svariate sciorinate sul- l’acciottolato da una folta rappresentanza di nuovi mercanti. Ironia della collocazione. Chissà se questa armata brancaleone di indiani, neri, nordafricani, cinesi, sa che sta esercitando proprio nella strada intitolata alla professione del commercio?


C’è una impari lotta tra qualche guardia che diligentemente insiste a fare il proprio dovere e un nugolo di abusivi, pronti a far su lestamente lenzuoli e mercanzie e a fingere di allontanarsi, giusto il tempo del passaggio del gendarme. Per poi rapidi tornare ad occupare la postazione, col loro corredo di borse, occhiali, magliette, cinture, tutto palesemente falso. Fino alla prossima ronda.

Fuori i mercanti dal tempio. Non aveva detto così, una ventina di secoli fa, un tizio capellone e con idee un po’ troppo progressiste per i tempi, che gli erano valse una condanna al pubblico supplizio, poi diventato simbolo del culto a lui ispirato?

Eppure oggi sembra che i mercanti siano ben installati proprio dentro al tempio. È in onore della visita papale che è stata installata nel Duomo di Milano questa avveneristica astronave di vetro, all’interno della quale si fa mercimonio di materiali assortiti, intramontabili souvenir come guide del Duomo in quattordici lingue, quadretti, francobolli e altri ciarpami da turisti affamati di inguardabili ricordini da ostentare (o peggio, da regalare) una volta tornati alla base, a comprova della visita? Oppure tale installazione, che sta al Duomo come la piramide di I.M. Pei sta al Louvre, è destinata a consolidare la sua inquetante presenza all’inizio della navata di destra?

Supponiamo pure che l’astronave sia di passaggio, e che presto decolli verso altre mete iperurane. I mercanti sarebbero dunque fuori dal tempio? Ma dai. Ci sono già. Basta osservare il fianco sinistro dello stesso monumento. Come spesso accade, durante i restauri sui teli si riproduce la facciata sottostante, in un bel trompe-l'œil che rende più accettabile la copertura. Peccato che la metà superiore sia architettura. E quella inferiore un farisaico saluto ai turisti. Sponsor un noto cacio.

Così abbiamo fatto l’en-plein. Mercanti fuori, sul e dentro il tempio. Viva l’Italia. Il Bel Paese dove l’Euro suona. Ma i registratori di cassa un po’ meno.



sabato 19 maggio 2012

Il primo bacio

Non si scorda mai? No: è quello del padre della sposa all’appena acquisito genero. Gesto di benvenuto in famiglia suffragato da una suocera finalmente rilassata e una dolce metà che più raggiante non si può.

Auguri a questa coppia di sconosciuti sposini, sorpresi oggi pomeriggio in un momento di estatica felicità, appena fuori dalla Cattedrale di Santa Maria di Sydney.





giovedì 19 aprile 2012

Glassless glasses

Ossimoro? Forse in italiano apparirebbe così, ma in inglese no. La lingua di Albione, grande semplificatrice, usa glass indifferentemente per vetro, bicchiere, ma anche occhiale.

La giovane generazione shanghainese legge troppo? Le diottrie in calo, segno dell’approssimarsi dell’età matura, affliggono già i cinesi da teenagers o poco più?

Neanche per sogno. È solo l’ultima moda che impazza questa primavera. Glassless glasses, montature senza lenti. Tanto più grandi e appariscenti su quei nasini corti e paciocconi di fanciulle dagli occhi a mandorla. Ma non solo. La tendenza del momento è unisex. Ogni tanto si vede anche qualche modaiolo che porta con supponenza questo vacuo accessorio.

Voglia di apparire grandi? È quello che per la nostra generazione rappresentava l’accendersi una sigaretta (e spesso, agli esordi, fare figure barbine tossendo disperatamente fuori quel fumaccio urticante)? O forse è il pedissequo spirito di imitazione del branco, del cui senso di appartenenza i giovani hanno un disperato bisogno?

Queste trovate bizzarre mi incuriosiscono sempre. Ci sarà pure uno, un giorno, che si è svegliato e ha detto: vediamo un po’ se riesco a raccattare un po’ di soldi vendendo qualcosa che non serve a nulla? E altrettanto, ci sarà ben stato un qualche divetto da reality del Regno di Mezzo che per primo ha indossato queste inutili montature, lanciandone la moda? Poi la necessità di omologazione ha fatto il resto. La nuova generazione cinese non è meno pecora di quella italiana. Forse di più. Così strade, metropolitane e ritrovi giovanili di Shanghai sono pieni di finti miopi.

Mala tempora currunt, anche per i nipotini di Mao Tse Tung.



martedì 17 aprile 2012

Fiumi di parole

Sono quelli riversati a velocità impressionante dai cinesi nei loro telefoni cellulari. Fanno concorrenza ai migliori rappers. Osservo una signora appoggiata alla porta di un vagone in metropolitana. Sembra che tiri un respiro profondo, alla Maiorca. Poi si getta, in apnea, in una ininterrotta sequenza di monosillabi che devono saper succingere i concetti come nessun’altra lingua sa fare. Una breve attesa, indice di un’attività di risposta altrettanto celere dal capo opposto della conversazione. Seguono un paio di grugniti conclusivi, nessuna forma di saluto come invece siamo abituati noi imperdonabili spreconi di tariffe telefoniche. Ecco fatto.

Quello che all’italiano medio avrebbe richiesto tre o quattro minuti di chiacchiere (di cui almeno un terzo di inutili e leziosi convenevoli di commiato), un cinese riesce a concentrarlo in venti o trenta secondi di mitragliate vocali. E subito preme il pulsante rosso con un misto di urgenza e di soddisfazione. Maledetta TIM, non avrai i miei soldi – sembra dire con quel gesto perentorio. Dovremmo imparare da loro, che son più bravi non solo a farli, ma anche a risparmiarli, i quattrini. 


martedì 10 aprile 2012

Overkill

Viaggiare in Italia con un australiano è fonte inesauribile di divertimento. Non perché siano tutti dei comici naturali, ma per la schiettezza e la stuporosa ingenuità con cui ti fanno notare cose che a noi ormai scivolano addosso come acqua tra le dita.

Ecco uno spettacolare esempio accaduto giusto stamattina. Carabinieri su una rotonda, paletta fuori. Rapido esame di coscienza. Cinture a posto, fari accesi, velocità ben dentro i limiti cittadini. Può solo essere un banale controllo di routine. Esco dalla vettura e, su richiesta, porgo la patente e il libretto. Uno si rigira tra le mani la mia ormai quasi improponibile patente, pietosamente tenuta insieme da una foderina plasticata che si apre a fisarmonica. L’altro fa qualche acrobazia per dipanare il libretto e verificarne l’aggiornamento. Tutto a posto, grazie, vada pure. Buona giornata. Se non cordiali, perlomeno molto cortesi. Raro, ma può capitare.

Risalgo in macchina ed il mio ospite mi guarda sconcertato e mi domanda: cosa volevano? Solo controllare patente e libretto, niente di più. Scoppia in una risata fragorosa ed esclama: fucking ridiculous! Cosa è fottutamente ridicolo?, gli chiedo. Che cosa?!? Ma è normale qui da voi che uno che vuole semplicemente controllarti la patente ed il libretto della macchina lo faccia con addosso il giubbotto antiproiettile, imbracciando qualcosa che assomiglia ad un mitragliatore Uzi, e per di più tenendo per tutto il tempo il dito sul grilletto? Non so se lo hai notato, ma muovendosi in qua e in là ti ha puntato un paio di volte la bocca da fuoco verso la pancia da un metro di distanza.

È vero. Non è proprio per niente normale. Ma noi ci siamo purtroppo assuefatti alla normalità dell’anormalità. Non ci facciamo nemmeno più caso. Basterebbe uno starnuto, parte una raffica e tanti saluti.

Mi chiede ancora, ma di che cosa hanno paura? Terroristi? Delinquenti? Forse. O forse, mi dice, è solo l’abitudine a mostrare i muscoli, ad esibire l’armamentario. Gli australiani non hanno un grosso amore per l’autorità. Deve essere un retaggio ancestrale, visto che due secoli fa la loro terra era la colonia penale del Regno Unito, e i trisnonni facevano i galeotti. Gli deve essere rimasta nel DNA qualche istintiva goccia di avversione nei confronti della forza pubblica. A guardie e ladri fanno sempre fatica a trovare chi vuole fare la guardia. Uno dei più celebrati eroi nazionali è un fuorilegge ottocentesco, Ned Kelly, giustiziato per impiccagione a venticinque anni. Una specie di Robin Hood moderno, difensore dei coloni australiani contro la cialtroneria dei giannizzeri inglesi e irlandesi.

Anche in Australia ti fermano per strada. Eccome. Anzi, con molta più frequenza e rigore che da noi. Ti fermano per controllare se hai bevuto. E se lo hai fatto, te ne fanno pentire. Amaramente. Ti fermano, e ti tartassano, per quattro chilometri in più oltre il limite di velocità. Quelli della Roads and Traffic Authority ti possono anche fermare per appurare se la tua macchina è a posto con le emissioni di gas. Se guidi un vecchio scatanfrone che fuma come una ciminiera, ti multano, sequestrano il libretto e te lo rendono solo dopo che dimostri di averla portata in officina, e che ora emette scarichi lindi e tersi come aria di montagna.

I poliziotti che eseguono controlli, sia nei posti di blocco, sia di pattuglia in macchina, è logico che non siano disarmati. Ma non sono bardati da guerra come i nostri carabinieri. Al massimo una pistola, che se ne sta placidamente riposta nella fondina. E se ci fosse il caso di tirarla fuori, mai con l’indice sul grilletto.

Con un’ultima sonora risata dedicata al buffo paese che temporaneamente lo ospita, descrive tutta questa sproporzionata esibizione di potenza di fuoco con una parola: overkill. Che si può liberamente tradurre con: che esagerazione. Come dargli torto?

Prima pubblicazione : 17 aprile 2008

sabato 10 marzo 2012

Dieci piccoli lemmi - 2a parte

Continua da ieri.


I giochi (d’azzardo), online e non. Ormai è diventata un’ossessione. Ovunque ti giri trovi qualcuno pronto ad appiopparti la tua dose oraria di potenziale buona sorte. Sono andato in posta e mi son sentito chiedere dall’impiegata, lo comprerebbe un gratta e vinci? No, le ho risposto secco. Mai comprato nemmeno uno per scherzo. Perché si comincia sempre con la dose gratuita che lo spacciatore ti rifila per accalappiarti. Ho giocato, lo confesso. Da giovane, ai cavalli, roba da pochi spiccioli. Più per rendere avvincenti le corse all’ippodromo che per la voglia – o la necessità – di vincere dei soldi. Rare, rarissime volte alla roulette. E con un principio basilare: è un divertimento come un altro. Finiti i soldi stanziati per la serata, finito il gioco. Una volta – l’unica – in vita mia, ho sognato una zia che mi dava dei numeri. Credeteci o meno, ho provato a giocarli. Mi sentivo veramente ridicolo. Non sapevo nemmeno dove diavolo fosse un banco del lotto, né come si facesse a giocare. La gente lì dentro, professionisti della giocata con la smorfia tutta a memoria, mi guardava come un marziano. Non uscì nemmeno un numero. Capii il messaggio: perfino le zie defunte non volevano che io giocassi. Toglietemi di torno tutte queste icone con fanciulle ammiccanti che promettono vincite e premi. Voto: uno. Diseducativo. I soldi si fanno lavorando, non giocando. Con un’eccezione. I biscazzieri, reali o virtuali che siano, alle spalle dei sempliciotti che credono alle lusinghe della dea bendata.

Il canale tivu del poker. Che razza di società è quella che sente il bisogno di avere una emittente televisiva simile? Tutto il santo giorno mostra primi piani di sfaccendati, spesso vestiti come degli imbecilli, seduti attorno ad un tavolo verde a piluccare angoli di carte da gioco cercando di vincere montepremi oltraggiosi con i quali arricchire collezioni di catenazze d’oro e di pacchiani orologi da polso tempestati di pietre alla maniera degli emiri. Qualcuno mi dirà: c’è il telecomando, cambia canale. Cancellalo dalla lista di sintonizzazioni. Maledette tivu moderne. Ogni tre giorni ti aggiornano automaticamente l’elenco dei canali trovati. Fatti i fatti tuoi, dannato aggeggio piatto. Non voglio – neppure per sbaglio – cadere nella visione di un branco di scioperati scommettitori. Voto: lo stesso della voce sopra. Uno. Doppiamente diseducativo. Perché illude, e fa vedere anche i risultati. Come ci si riduce a giocare tutto il giorno a poker. Catene al collo che manco un rapper di Harlem.

VIP. Un evergreen. Detestabile da sempre. Con tendenza in aumento, come dicono i meteorologi parlando delle perturbazioni. Tutto ciò che è etichettato come VIP dovrebbe essere, d’istinto, evitato come la peste. Perché è da gonzi pensare che una tessera, un biglietto d’invito, una qualsiasi profferta commerciale possano automaticamente trasformare un tapino in una personalità. Si vende un’inesistente esclusività con tale liso, consunto, abominevole acronimo. Voto: Inqualificabile.

Assolutamente sì. Quanto mi urta sentire qualcuno che risponde così a una mia domanda. Pleonasmo? Ridondanza? Vanesia necessità di riempirsi la bocca di suoni superflui? Esiste forse un sì relativo, sì ma non del tutto sì, tanto da sentir il bisogno di rafforzare lo splendido, lapidario monosillabo con un tanto inutile quanto vacuo avverbio? Vuoi tu prendere in sposo il qui presente? Assolutamente sì. E tu, vuoi prendere la qui presente come tua sposa? Sì. Manco usciti dalla chiesa, e già la prima litigata da coniugati: solo sì? Io ho detto assolutamente sì. Allora non mi ami abbastanza. Aveva ragione mia madre. Ma no, cara, è la formula di rito: si dice sì. Sei sempre il solito arido insensibile. Io ti amo di più, per questo ho detto assolutamente sì. E via discorrendo. Voto: tre. Ho le orecchie doloranti a furia di sentir ripetere da troppa gente questo ipocrita sbrodolamento attorno ad un semplice, puro, inequivocabile "sì".

Choc. Dovremmo essere tutti costantemente choccati (orrendo neologismo), stante la frequenza con cui si infila questo prezzemolo lessicale nei titoli di articoli. Bossi-choc. Cina-choc. Juve-choc. E così via. Una parolina buttata lì in mezzo al discorso come un assordante petardino che scoppia all’improvviso, facendo trasalire dallo spavento. Mentre basterebbe usare le proprie conoscenze per non turbarsi né sorprendersi. Conoscete Bossi e le sue sparate. In Cina si sa come funziona. La Juve? Di cosa volete ancora stupirvi nel calcio? Vi prego. Lasciate lo choc alle rare punture di api andate a finire molto male. Voto: Quattro di incoraggiamento, perché lo choc anafilattico esiste e la parola rende l’idea. Mentre invece, a furia di sentirsi invitati a scioccarci per questo e quello, come il re Mitridate, diventiamo assuefatti ed insensibili, perfino a ciò che davvero dovrebbe sconvolgerci e indignarci. E questo non va bene.


venerdì 9 marzo 2012

Dieci piccoli lemmi

Ma fastidiosi. Le dieci parole (alcune sono concetti compositi) il cui uso – ed abuso – meriterebbe loro l’immediata elisione dal dizionario. Basta. Non se può più di ritrovarcele tra i piedi – o meglio, tra gli occhi e le orecchie – ogni tre per due. Per favore.

Fashionista. Uuh, che brutta parola. Già di per sé suona male, come tutte le storpiature dell’inglese adattate alla lingua di Dante. Per non parlare del significato. Personifica la vacua attenzione al superfluo, quando siamo in momenti di mancanza – per molti – del necessario, del basilare per sopravvivere dignitosamente. Rappresenta l’ostentazione di una spesso mal meritata e superficiale opulenza. Promuove l’assenza di pensiero, strangolato dalla assoluta mancanza di tempo per esercitarlo, tutta presa come è la fashionista nell’apprendere e memorizzare il calendario degli eventi mondani a cui non si può assolutamente mancare. Per sfoggiare l’ultima mise e il totale vuoto di argomentazioni. Voto: Due. A casa, il lemma e la schiera di nullafacenti fashioniste.

Sondaggi. La maledizione quotidiana ci investe in ogni campo dello scibile umano sondabile. A casa anche i manipolatori del nostro pensiero, che ci sussurrano subdolamente quali obbligatorie opinioni avere. Come è messo il tale partito? Sondaggio. Come va a finire la guerra in Vattelappesca? Sondaggio. Come reagiscono gli italiani all’ostensione di farfalle inguinali? Il sondaggio ve lo dice (un bel chi se ne frega non ci sta proprio bene ora??). Roba di oggi: meglio Messi o Maradona? Vi sentite tagliati fuori? Nessuno ha mai chiesto il vostro parere? Niente paura. Ci pensano gli instant poll: le maggiori - e perfino le minori - testate, con una strizzata d’occhio esterofila, vi invitano a dire la vostra, spesso in questioni talmente ininfluenti e scontate da rasentare la banalità. E potete vedere subito se siete nella maggioranza o fate parte dell’opposizione: eeeh, son soddisfazioni. Utilità: tendente allo zero. Perdita di tempo: cento per cento. Proposta: radiazione dal vocabolario e dall’uso quotidiano.

Spread. Insieme con downgrade, junk-bonds e austerity fanno parte della litania diuturna che ha sostituito, come potere iettatorio, il funebre frac nero con cilindro e occhiali in tinta coordinata. Ogni volta che si sentono nominare questi quattro cavalieri dell’apocalisse finanziaria la gente esegue complicati riti di scongiuro con toccamenti nemmeno reconditi di parti auspicali. Lasciateci in pace. Abbiamo capito che siamo nella melma. Non c’è bisogno di ripetercelo ad ogni piè sospinto. Soprattutto per quel vago ma aleggiante sentore di manipolazione. Perché i soloni della finanza creativa cadono quasi sempre in piedi? Per un Madoff in galera, quanti artisti della manovra ai limiti dell’illecito internazionale sono a piede libero e pontificano dagli scranni di consigli d’amministrazione di banche e istituzioni finanziarie che vendono due gatti da un milione di euro per comprare un cane da due milioni di euro? Voto: zero. Perché non se ne può più di questo subdolo terrorismo dell’informazione, che va ripetendoci, con voce chioccia e melensa: stai fallendo, stai fallendo, guarda che stai fallendo...

Mito. Non passa giorno che i nostri giornali e notiziari non riportino almeno una notizia chiosata dal fastoso termine. Ora, va bene parlare di miti classici. Una mostra dedicata a Leonardo può a buon diritto intitolarsi il genio, il mito. Archimede: mito e realtà? Ottimo. Ma che a calciatori in disarmo, boy-band di trent’anni fa, serie cinematografiche con agenti segreti più lesti nello smutandare giovani spione di coscia lunga che nel combattere il cattivo di turno, perfino chitarre rock vengano attribuiti meriti tali da giustificare l’uso della parola mito, questo proprio mi indispone. Perché, per la legge dell’assuefazione, se si tende a mitizzare ogni cosa, alla fine si banalizzano anche gente come Omero, Archimede e Leonardo. Equiparandoli a tizi in brachette che prendono a calci un pallone, a degli sfiatati strimpellatori e ai loro strumenti elettrici. Sette in condotta: manteniamo le distanze.

La profezia Maya. Ragazzi, abbiamo nove mesi davanti. Manco un figlio riusciamo più a fare. Penitenziagite. La fine del mondo è dietro l’angolo. Ma guarda un po’ tu che razza di sfiga. È cinque miliardi di anni che questo cavolo di pianeta gira, e proprio quando ci sono io deve decidere di autodistruggersi, come l’astronave di un pessimo film di fantascienza? Ci sono già schiere di buontemponi che vanno in giro con cartelli appesi al collo, invitando alla redenzione dei propri peccati, prima che l’apocalisse ci spazzi via tutti. Un momento: ma il mondo non doveva finire già lo scorso ventuno ottobre? Ah, no, il pastore rincitrullito si era sbagliato. Aveva fatto male i calcoli, ha dichiarato. E non doveva succedere qualcosa di terribile allo scattare dell’anno duemila? Mille e non più mille, tuonavano degli arcigni catastrofisti. Si son sentiti dei buddisti, che sono avanti di più di cinquecento anni rispetto al nostro calendario, farsi delle grasse risate. Ahahah, il duemila. Mi ricordo. Quand’ero piccolo il bisnonno mi raccontava che a quell’epoca i suoi avi… Voto: Uno. Lasciateci campare in pace. Avete delle certezze? No. E allora tenetevi le vostre profezie e le vostre superstizioni. E non ci fracassate i gioielli con iettatorie previsioni calamitose.


Continua domani, con la parte alta della classifica...

mercoledì 7 marzo 2012

Margaritas ante porcos

Uno screanzato gruppo di coreani in transito all’aeroporto di Singapore si affaccenda intorno al banco della degustazione del cognac di uno dei numerosi Duty Free Shops. La ragazza addetta alla mescita serve solerte dei bicchierini in plastica riempiti per un terzo del prezioso nettare che fa bella mostra di sé sul banco, con tanto di prezzo dotato di svariati zeri.

I coreani fanno sparire di malagrazia il frutto di decenni di invecchiamento nelle voraci budella, subito sollecitando con gesti imperiosi l’erogazione di ulteriori assaggi e contornando il tutto con l’emissione di volgari suoni di apprezzamento.

La ragazza comprende la situazione e ricerca con lo sguardo l’intervento di un collega che dirima la questione. Sa che da sola non ha alcuna possibilità di fare valere le proprie ragioni con un gruppo di uomini, in special modo coreani. Al sopraggiungere del cortese ma fermo direttore della boutique del bere, gli scrocconi sciamano via come piccioni al rintocco di mezzogiorno, palesando la già manifesta intenzione non di acquistare, bensì di ingollare a ufo quanto più possibile liquore. Quando si dice: tutto il mondo è paese.



Prima pubblicazione : 14 gennaio 2008