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domenica 30 novembre 2014

A volte ritornano (2)

Dopo una lunga assenza, di quasi due mesi, Homing Pigeon ritorna. Con alcune immagini, visive o solo descrittive, di quel calderone di umanità varia che è Manila.

Raccolta differenziata. Ecco come si applica il concetto, su un camion della spazzatura a zonzo per Manila. Un uomo sta confortevolmente seduto sul tetto e spulcia con cura i materiali, separando la carta dal resto e mettendo ogni foglio che trova in un grosso sacco bianco. Quale ammenda dovrebbero dare al guidatore del mezzo, considerando che...

Ogni uomo ha il suo prezzo, diceva una volta un taxista bahiano. Sono seduto accanto al guidatore di un furgoncino che arranca nel quasi immobile traffico di Manila, e compio un'inusuale imprudenza. Non mi allaccio la cintura di sicurezza. Grave, direbbero i filippini nella loro lingua infarcita di spagnolismi. Un giovane pingue poliziotto si pianta davanti al furgone e mi fissa con interessata attenzione. Cala il finestrino del povero autista, che consegna con fare rassegnato la patente. Il poliziotto recita a mio beneficio ma in uno stentato inglese una litania di articoli di codice, che prevedono la responsabilità del guidatore se i passeggeri non vestono le cinture. Poi non succede altro, sembra una partita di scacchi. Siamo allo stallo. Finalmente, dopo varie chiacchiere in tagalog, il guidatore scende con in mano un paio di fogli da cento. Risale, visibilmente sollevato, patente alla mano. Aveva ragione il mio amico bahiano. E qui il prezzo per poter ripartire senza ulteriori noie è davvero modesto. Meno di quattro euro. Di noi con quei soldi non corrompi nemmeno un cameriere per farti portare una porzione più generosa di antipasto.

A proposito di poliziotti. Parliamo di quello malmenato dal guidatore di una Maserati Ghibli blu senza targa, fotografato dalla guardia alle sei di mattina mentre faceva una svolta a sinistra non permessa. Il tipo se n'è accorto, ha fatto inversione, ha chiamato l’agente e quando gli è stato a tiro da dentro l'auto ha cominciato a tempestarlo di pugni ed è pure ripartito, trascinando il malcapitato per una decina di metri. Permaloso e nemmeno tanto furbo. Quante Ghibli blu ci sono nelle Filippine? Due. L'altro proprietario è già stato sentito dalla polizia, risultando estraneo (magari grazie anche al decisivo indizio di avere perfino una targa sull'auto). La polizia, dichiarano i giornali, è sulle tracce del colpevole. Dei veri Sherlock Holmes!

Clichès, ovvero nomi assurdi dei ristoranti etnici. Qualcuno mi spiega perchè i ristoranti italiani (si suppone siano tali, visto che vendono pasta e pizza) invece di chiamarsi da Gennaro o Peppino di Mergellina debbano esibire degli improbabili Marciano’s o Balboa (solo degli americani possono credere che Rocky, con un cognome così, sia di origini italiane)? E per quelli giapponesi si tirino in ballo i panzoni del sumo, i mostri robotizzati dei manga e perfino la buonanima di John Lennon e della vedova Yoko?

UCPB. Le noci di cocco devono essere un affare serio nelle Filippine, se hanno intitolato una banca ai piantatori delle relative palme. La United Coconut Planters Bank è addirittura uno degli istituti di credito più importanti e vanta alcuni primati, tra cui l’essere stata la prima banca ad avere introdotto i bancomat nell’arcipelago. Mai trascurare la forza dei prodotti più semplici, anche quelli della terra.

In pieno giorno un bambino, con addosso solo dei pantaloncini verdi, dorme sdraiato per terra, su un ruvido impiantito di cemento, vicino alla bocca di sfiato dell'aria condizionata di una stazione. I capelli si agitano per quell'innaturale, forse malsano vento che fuoriesce dalle griglie. Le piante dei piedi sono nere al di là di ogni speranza di ritornare pulite. Il fisico è esile ma non denutrito. Ho riscoperto il piacere della fotografia, ma ci sono immagini che tuttora non riesco a scattare. Questa, paradigma di degrado e povertà, proprio non ce l'ho fatta. Non ho un’istantanea, ma il ricordo è indelebile comunque perché non riuscivo a distogliere gli occhi dall’ennesima scena di un’infanzia rubata.




martedì 1 luglio 2014

Creativi all’opera


Un brillante gioco di parole è una delle migliori prove dell'intelligenza umana. Non so resistere al fascino di un calembour ben congegnato.

Purtroppo ogni lingua ha i propri modi di dire, spesso intraducibili. Perciò questa piccola perla scovata in un centro commerciale di Manila la potranno apprezzare solo i conoscitori dell'inglese e delle sue sfumature.

Come meglio avrebbero potuto chiamare una libreria, per rendere l'idea di completezza di scelta e al contempo di ampia frequentazione di bibliofili, il tutto sintetizzato in due semplici vocaboli?


Geniale.




giovedì 17 aprile 2014

Il tasto giusto

Una volta apparteneva al fantasioso mondo di James Bond. Oggi è realtà. Che cosa? La macchina telecomandata. No, non sto parlando dei modellini per i ragazzi, con cui alla fine giocano regolarmente gli adulti. È un'automobile vera. Con un minuscolo aggeggio grosso come un telefonino potete sterzare, far avanzare o indietreggiare la vettura. Da fuori.


Confesso che la visione di un piccolo video amatoriale realizzato da un amico filippino entusiasta dell'invenzione mi ha messo addosso un senso di inquietudine. Va beh, è risaputo che sono un dinosauro. Peggio: un dinosauro scettico. Oggigiorno sempre più congegni possono essere controllati a distanza. Il senza fili - wireless per i patiti della tecnologia - impazza. Ma una macchina? Faccio l’errore di domandare, a cosa serve un gadget del genere? Subito vengo investito da un esuberante elenco di utilissime applicazioni. Metti che piove, puoi far avvicinare la macchina fino al tuo riparo. Se non vedi quanto spazio hai per parcheggiare, scendi e posteggi finalmente davvero a vista. Sei semplicemente pigro? Invece di camminare tu fino alla macchina lasci che sia lei a venire a te. Eccetera, lasciando sbizzarrire la fantasia umana alla scoperta di altri irrinunciabili vantaggi dell'auto telecomandata.

Lo ammetto: una macchina che sterza da sola, con il volante innaturalmente in moto anche se priva di guidatore, è una cosa che colpisce. Vederla poi andare avanti e indietro da sè fa il paio con l'effetto quasi nauseabondo di quando provai per la prima volta in Giappone un'ibrida: sentirla muoversi in perfetto silenzio a motore spento inganna corpo e testa, e crea disagi viscerali.

E veniamo alla confutazione degli argomenti dell’amico fan. In caso di pioggia, portatevi un ombrello. Non so quanto tiri il telecomando, ma sarebbe carino esser sicuri che uno non possa guidare in remoto da distanze a rischio incidente da mancanza di chiara visuale. Specie se sta venendo giù un acquazzone. Parcheggi? Oggi sempre più vetture hanno cicalini che indicano l'avvicinarsi di un ostacolo - nella fattispecie, la macchina dietro di voi - e sostituiscono egregiamente la vista, agevolando chi non è dotato nell'arte del parcheggio in retromarcia. Scendere per posteggiare accrescerebbe solo il rischio di grasse risate da parte degli astanti e di erogazione gratuita di consigli non richiesti sulle modalità della manovra. Pigri? Fate due passi, che vi fa bene, invece di star sempre col sedere sulla macchina!

E poi a me fa una paura dell'accidente pensare che qualcuno si affidi ad un tastino di telecomando - e non ad una sana, fisica, energica affondata sui freni - per decidere di fermare una vettura vuota che sta per investire un bambino sbucato dal nulla. Quante volte abbiamo cambiato canale cercando di alzare il volume della tivu? Quante volte abbiamo sbagliato numero telefonando a un amico? Quante volte è finita la batteria del dannato marchingegno proprio quando ci serviva di più? Vogliamo affidare la pelle di un passante alla nostra capacità di scegliere il tasto giusto al momento giusto? Ai posteri l'ardua sentenza.




martedì 17 dicembre 2013

Whistleblowers

C'era una volta un piccione viaggiatore. Che si portava appresso un curioso taccuino, e raccontava a tutti che quella era la sua macchina fotografica.

Poi un giorno il piccione cadde in tentazione. Fedele fino ad allora al mantra della pellicola, capitolò di fronte alle lusinghe della visione immediata del risultato, della leggerezza e compattezza del nuovo oggetto di culto, della praticità di avere con sé scorte quasi illimitate di fotogrammi. Insomma, in due parole abbandonò il rullino per il digitale.

E grazie, o forse dovrei dire per colpa di macchine sempre più piccole e potenti, pronte allo sfodero e allo scatto senza pensieri e senza titubanze, che tanto se vien male si cancella (poi) e se ne fa un’altra (ora), il taccuino lentamente fu messo da parte. Note, appunti e racconti in fieri divennero via via più rarefatti, la matitina le cui mine prima duravano il breve arco di una stagione riposò inutilizzata tra le pagine bianche che lentamente ingiallivano nella vana attesa di essere tappezzate di parole.

Era facile – e perfino divertente – scegliere qualche scatto e recensirlo brevemente. Un’istantanea parla da sé, talora non ha bisogno di nient’altro se non un titolo.

A volte ritornano. E questo capita quando il mondo ti passa davanti, ma le immagini scorrono troppo rapide per riuscire anche solo ad inquadrarle. Allora ti ricordi che ci vogliono la memoria, gli occhi e la penna, per riprodurle. E soprattutto il cuore.

Come mi è capitato, di recente, a Manila. Viaggiando in mezzo al traffico si vedono un sacco di affreschi di umanità varia. Scene di un attimo. Episodi minimi di vita quotidiana.

Cani protagonisti, nel bene e nel male. Vedo un cagnetto che fa da polena su un carrettino. Gli occhi sono socchiusi e sembra quasi che sorrida. Data la modesta velocità, non credo fosse per proteggerli dal vento. Magari una istintiva difesa contro l’inquinamento che ammanta come un sudario caliginoso la capitale filippina. Poco più in là, sulle spesse lastre metalliche di un cancello marrone, una mano ferma ha vergato a pennello bianco la scritta: beware of killer dogs. Attenti ai cani assassini. Per tenere lontani i malintenzionati? Forse. Chi ha veramente dei killer dogs non lo pubblicizza, per non dare inutili vantaggi ai banditi.

In certe ore (quasi tutte quelle del giorno) nel caos indescrivibile il traffico scorre lentissimo. Ore per fare pochi chilometri. Dalle onnipresenti jeepneys saltano fuori al volo dei passeggeri, subito rimpiazzati da altri clienti. Il trasporto pubblico è quasi interamente appaltato a questi microimprenditori dalle gomme lise, dal molto acciaio cromato e dalle decorazioni vivaci, spesso a tema religioso. L’autista, per aver sempre pronto il resto per i passeggeri, viaggia con delle banconote di piccolo taglio, piegate in due per il lungo, infilate tra le dita. Eppure riesce anche a guidare, spesso scalzo o in sandali, sgasando rumorosamente per conquistare di prepotenza la precedenza nel corpo a corpo tra lamiere di piccolo cabotaggio.

Un ragazzo semivestito fa la doccia sul marciapiede, attingendo l’acqua da un idrante appositamente svitato. Non gl’importa un fico secco della gente intorno, che peraltro non lo degna d’uno sguardo, mentre finisce le proprie abluzioni e sbuffa intorno l’acqua fredda che si versa sulla testa a mestolate, con una cucchiaia di plastica rossa da cereali.

All’angolo tra due strade sul marciapiede c’è un cubicolo di cemento arancione con una tettoia rialzata in lamiera. Ci sta dentro a malapena una persona, e la testa rimane a vista, per denunciarne senza dubbi l’occupazione. Public urinal, riporta una scritta manuale in bella grafia. Ma non basta: “courtesy of...”. Come dire, qualche mediocre amministratore locale ha sentito l’esigenza di far presente ai suoi concittadini che quel lussuoso vespasiano l’aveva fatto installare proprio lui in quel cantone, e quindi si aspettava della riconoscenza – sotto forma di voti, va da sè.

A proposito di politici. La gente è furibonda con la classe dirigente, che incassa stipendi da favola ma non si accontenta di questi. Pork barrel è sulla bocca di tutti, vivace espressione che indica l’uso fraudolento di fondi destinati ai lavori pubblici. L’ultimo scandalo? Nelle Filippine l’elettricità non viene distribuita con reti sotterranee. Come in Giappone, il paesaggio è costellato di pali della luce e talora di inestricabili matasse di fili che chi ci capisce è bravo. Tutto questo sartiame elettrico è stato spazzato via dai venti a 300 all’ora del tifone Yolanda, nell’isola di Leyte. Ricostruire queste infrastrutture di distribuzione d’energia si stima costi centinaia di milioni di dollari. Chi pensate che li pagherà? Ma naturalmente la popolazione sinistrata, che se vorrà accedere ai rinnovati servizi elettrici si troverà in bolletta la maggiorazione necessaria a coprire i costi della nuova rete.

Intanto a Manila il teatrino continua, con scaramucce tra congressmen (ma anche women) che si accusano l’un l’altro di essere ladri e approfittatori. Abitudine talmente diffusa e radicata da aver dato origine ad una figura molto in auge oggi : il wistleblower. Letteralmente chi soffia nel fischietto. Metafora per indicare chi è dell’ambiente e, improvvisamente schifato dalla troppa disonestà, si decide a parlare per denunciare il malaffare e la corruttela imperante tra chi governa. Mestiere apparentemente rischioso, quello del whistleblower, al punto che c’è chi ha proposto un progetto di legge per proteggere e incentivare con benefici economici questi fischiatori pentiti.

Forse è venuto il momento di ricordare ai miei quattro lettori che sto parlando delle Filippine. Che so io, vi foste distratti un attimo e la mente vi avesse portato a pensare che stessi raccontando di un’altra nazione a noi cara. Vedete voi quale.





sabato 16 novembre 2013

Please help us

Per favore, aiutateci. Abbiamo bisogno di cibo.

Non sono i soliti professionisti della questua. In Asia, per strada o ai semafori, è facile imbattersi in dei bambini che chiedono soldi. Tanti, troppi. Sempre malmessi, spesso sporchi, talora purtroppo rapiti alle famiglie da adulti criminali che gestiscono questo laido racket. A volte sono storpiati dai loro aguzzini e sfruttatori per meglio far leva sulla pietà dei donatori.

Questi invece sono bambini filippini sopravvissuti al tifone Yolanda. Non sono né sporchi né storpi, e soprattutto non sono professionisti. Sono solo affamati. Non chiedono denaro, ma cibo.

Chi ha perso tutto, magari perfino la famiglia, non cerca soldi. Restano solo le necessità basilari quando è questione di mera sopravvivenza. Per questo sporgono le mani giunte, pieni di speranza e fiducia nella bontà di sconosciuti in transito.

Mostrano un cartello gentile ed educato, che implora per loro. Ma sono quelle braccine tese, quegli sguardi innocenti e supplici, quel loro muto attendere un gesto di vitale compassione a dover colpire non solo qualche distratto automobilista di passaggio, ma il mondo intero.

Nessuna di queste creature dovrebbe essere costretta all’umiliazione di mendicare un po’ di riso. Se il mondo è capace di osservare questa immagine senza provare infinita pena e vergogna, e senza far qualcosa per aiutare chi non ha più nulla salvo forse la dignità, allora non è un posto dove voglio vivere.




venerdì 27 maggio 2011

Botteghe oscure

Domenica a Manila. Caldo torrido. Nemmeno equatoriale va bene per descriverlo, perché di solito all’equatore c’è un’umidità insopportabile, mentre invece qui spira un vento caldo e secco che sembra di passare sotto un fon acceso. Tuttavia non basta a spazzare l’inquinamento orrendo che esalano milioni di autobus fumosi, di jeepneys catarrose, di camion arrembanti e cancerogeni.

Così non resta che l’artificiale refrigerio di un centro commerciale dalla perenne e malsana aria condizionata. Manila. L’unica città dove ho visto vere folle di sfaccendati fare la coda la mattina presto davanti ai varchi dei megamall, con il solo scopo di trascorrere qualche ora nel sollazzevole e gratuito fresco offerto dalle potenti ed esose centrali di condizionamento installate sui lastrici solari di bottegoni sterminati.

Ma il giretto domenicale non è tempo sprecato. Mai vista una tale concentrazione di insegne spassose. Tanto da invogliarmi a documentarle, suscitando sguardi sbigottiti negli astanti, ma guarda un po’ quel tipo, che gusto ci troverà a fotografare i negozi, mah, sono proprio bizzarri questi stranieri...

Cominciamo la carrellata con dei classici: i ristoranti italiani, errori compresi.

Italianni’s? Facciamo una colletta. Regaliamogli un dizionario.

Piazza Pazzo. E pensare che sembravano tutti normali, gli avventori. Proprietario (o creativo coniatore del nome): giustificatevi. Avrete fatto la fatica di sceglierlo, questo nome. Come ci siete arrivati?

Pizzeria ä Veneto. Talmente italiana da usare una lettera che non esiste neppure nella nostra lingua. Ma il capolavoro è sotto: va bene che serviate pizza e pasta. Gli eroi (heros) che piatto sono?

Evita Peroni. Senza parole. Voglio sperare che esista una signora con tale nome, proprietaria della catena di negozi di bigiotteria, che vanta sedi a Parigi, New York e Tokyo. Perché se no è oltraggio alla memoria dell’icona femminile d’Argentina, confusa con una birretta dal suono italico.

Mr Quickie. Non sarò originale, né il primo ad aver sogghignato per tale disgraziato nome, affibbiato ad una modesta bottega per la rapida risolatura di scarpe. Spero che il volgare doppio senso vi abbia almeno giovato negli affari: perché Mr Quickie suona come il Signor Sveltina. Non proprio lusinghiero, in una terra orientale dalla cultura profondamente machista.

JiPan. Gustoso calembour. Una panetteria giapponese a Manila. La lingua tagalog è infarcita di lemmi spagnoli, dopo vari secoli di dominazione ispanica. Pan è il pane. Se è giapponese (credevate che mangiassero solo riso, vero?), ecco Ji-pan.

Di colonialismo in colonialismo. Dopo gli spagnoli, sono arrivati i giapponesi. E poi i liberatori americani. Ora si tifa per l’NBA, si mangia nei fast food, la lingua si è ulteriormente imbastardita con nuove parole inglesi. Il dentifricio in tagalog si dice colgate. Marchio trasformato in nome comune. Potenza delle multinazionali. Ma gustiamoci questo arguto oste cinese, che ha chiamato il suo ristorante come l’ambito trofeo del football americano. Super bowl – of China. La super zuppiera. Geniale.

Prima pubblicazione : 21 aprile 2010

venerdì 19 novembre 2010

Umorismo clericale

Sign posted in a Manila church: “Please do not leave your belongings unattended. Someone might think it’s the answer to their prayers.”



Cartello visto in una chiesa di Manila: "Vi invitiamo a non lasciare i vostri effetti personali incustoditi. Qualcuno potrebbe pensare che è la risposta alle sue preghiere."

martedì 24 agosto 2010

Carne da macello


Che differenza c’è tra la fotografia qui sopra e quella sotto?


Otto vittime innocenti, del tutto casuali, solo ieri mattina ancora totalmente ignare del destino balordo e brutale che stava per abbattersi su di loro. Otto turisti di Hong Kong ammazzati a colpi di mitraglia dopo dodici ore da ostaggi in un autobus a Manila.

I fatti: Rosario Mendoza, ex-poliziotto filippino di 55 anni, cacciato dall’arma e privato dei benefici pensionistici per una storia di tentata estorsione, rapina, minacce gravi (quisquilie dunque…) ferma un bus di turisti, ingannando l’autista con la sua divisa indossata abusivamente e criminalmente. Dopo una intera giornata di trattative, che portano almeno al rilascio di nove degli ostaggi, la sera la situazione precipita, il bandito spara, i poliziotti attorno al mezzo cercano di spaccare i vetri, rispondono al fuoco, gettano lacrimogeni, sembrano scoordinati e senza un piano d’azione serio, non tentano l’assalto perché il criminale si fa scudo degli ostaggi, alla fine un cecchino riesce a inquadrare l’ex collega e lo fa secco con un colpo in testa.

Le notizie iniziali, che parlano di un paio di morti, sono purtroppo destinate presto ad essere smentite. Nell’isteria del momento, tra donne urlanti, gente sanguinolenta che viene calata fuori dall’autobus attraverso i finestrini sfondati, poliziotti che finalmente osano avvicinarsi, dato che il bandito è lì penzoloni a braccia in giù, mezzo dentro e mezzo fuori, e ormai non rappresenta più un rischio, perché gli hanno aperto il cranio come un cocomero, non ci si rende conto che Mendoza ha portato con sé, nell’ultimo gesto di follia della sua vita, otto stranieri che erano a Manila per una vacanza. E speriamo si salvino tutti i feriti, visto che alcuni sono gravi.

Questo piccolo massacro ha scatenato la stampa asiatica. E non solo la stampa. Una mela marcia danneggia l’intero cesto. Le Filippine, governo e polizia, sono accusate senza mezzi termini di incapacità, quando non di idiozia, per come hanno gestito una situazione di crisi. Tutta la vicenda, fino al drammatico epilogo, è stata trasmessa in diretta da vari canali televisivi. Rendendo un ottimo servigio al sequestratore, che poteva controllare minuto per minuto non solo le mosse dei poliziotti attorno all’autobus (che, come la maggioranza dei mezzi turistici, è dotato di televisore), ma anche seguire dibattiti e interviste a politici, funzionari di polizia e opinionisti vari.

Hong Kong lamenta la perdita di suoi cittadini, e biasima il fatto che la salvezza degli ostaggi non sia stata la priorità dell’azione di polizia. I politici si dicono allibiti e rattristati, e questo è il massimo della partecipazione che sanno esprimere (si sa, sono politici). La gente protesta, offesa dall’incompetenza di chi doveva gestire la situazione innanzitutto tutelando quegli innocenti turisti. Si temono gesti di ritorsione, già ci sono voci che, sull’onda emozionale del fatto, qualche domestica filippina sia stata licenziata dal padrone honkonghese, come se il semplice fatto di esser connazionale di un delinquente fosse sufficiente per ricevere una gratuita punizione.

La ritorsione in realtà è già in atto: il governo cinese ha emesso un’allerta, invitando tutti i cittadini cinesi in visita nelle Filippine ad esercitare cautela, ad innalzare le misure di autodifesa e ad avvisare immediatamente l’ambasciata in caso di qualsiasi emergenza. Come dire: turisti, non andateci. E se ci andate e vi succede qualcosa, non dite che non vi avevamo avvisato.

Gli operatori turistici filippini possono dire un bel grazie al signor Mendoza. Anni di pubblicità, di immagini paradisiache, di spiagge bianchissime e sconfinate, tutto buttato nell’immondizia.

Tutto questo perché un ex poliziotto corrotto (la storia racconta che, insieme a dei colleghi, ha cercato di ricattare uno chef di hotel, accusandolo falsamente di possesso di droga per estorcergli denaro), nonostante fosse stato cacciato, è stato in grado di procurarsi un M16 (un fucile mitragliatore alla Rambo, per intenderci) e con questo gingillo tenere in ostaggio per una giornata 21 persone che erano lì per una gita. Bello, vero? Viva la libertà di armamento. E viva i giudici che mandano liberi dei delinquenti, più delinquenti degli altri perché dovrebbero esser quelli che la legge la fanno rispettare invece di infrangerla.

Che le Filippine non fossero il posto più sicuro dell’Asia era risaputo. Che il livello di corruzione e di disonestà di chi dovrebbe fare e far applicare le leggi (forze dell’ordine, politici, militari) sia endemico è anche una triste realtà. Chiunque vada al potere si trova a combattere (o forse a far finta di combattere) un sistema di clientelismi, di potere fatto di sopraffazione e violenza, di lotte e faide in stile mafioso (l’ultimo clamoroso episodio risale a qualche mese fa, quando 57 tra giornalisti, politici e sostenitori di un candidato a governatore locale sono stati fermati da un commando ingaggiato dal rivale e uccisi a raffiche di mitra; le donne – per aggiungere un tocco machista, sempre apprezzato nelle Filippine – sono state prima violentate).

Le Filippine mi ricordano il Brasile. Una forbice spaventosa tra pochi ricchi ed una maggioranza di poveri. Favelas dove si vive ai limiti della dignità umana. E dei ladroni che invece di governare pensano ad arricchirsi e non esitano a fare ammazzare gli avversari che fossero d’ostacolo nella loro ascesa al potere.

Le Filippine sono l’unico posto dove ho partecipato al funerale di un giovane conoscente, ucciso a colpi d’arma da fuoco da dei banditi che lo hanno aspettato, di sera, all’uscita dall’ufficio.

Le Filippine sono la nazione che se di colpo si prosciugassero i trasferimenti di valuta dall’estero, inviati ogni mese da milioni e milioni di emigrati che fanno i muratori, i marinai, i cantanti e musici, le domestiche, perderebbe la sua maggiore fonte di reddito.

Le Filippine sono un posto dove un ex attore diventa presidente, poi viene messo in galera per una faccenduola di corruzione, talmente irrilevante che i giudici gli danno l’ergastolo, dopo qualche annetto richiede ed ottiene il perdono dalla presidente che gli è succeduta, ed ora, libero come un uccellino, ha pensato seriamente a ricandidarsi per un altro termine presidenziale. Tanto per non perdere il vizio.

Le Filippine sono una terra di sorrisi gentili e di gente rassegnata alla propria povertà.

Le Filippine non si meritano l’incompentenza, l’ignoranza, il menefreghismo, l’arroganza, la violenza di chi dovrebbe governare e tutelare i filippini. Che sono troppo poveri e miti – ma non abbastanza disperati – per fare una rivoluzione.