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lunedì 23 marzo 2015

giovedì 20 marzo 2014

Scoprite le differenze


Facciamo un gioco. Io vi fornisco gli elementi di confronto da una parte. La controparte ce la mettete voi, con le – spero poche – esperienze che avrete maturato di persona o per sentito dire. E poi mi direte se avete trovato delle differenze.

Singapore, ingresso del National University Hospital. Un cartello spiega il percorso del paziente dal suo arrivo in ambulanza al pronto soccorso, illustrato come se fosse un allegro gioco dell’oca, con tanto di punto di partenza indicato dalla freccina.

Ecco alcuni dettagli rimarchevoli: controllo temperatura, immediato; registrazione, immediata. Poi si prendono da due a cinque ore per una diagnosi fatta da un team medico capeggiato da un primario. Alla fine di ciò, il bivio: il paziente o viene dimesso, o viene ricoverato. A casa, oppure in reparto.

E i reparti del NUH sono immacolati, con un buon profumo di pulito ma senza l’invasivo lezzo di disinfettante, le sale d’aspetto per i parenti con la televisione accesa ma a basso volume per discrezione, ascensori lustri e dal movimento soave, giardinetti interni ben curati con una scultura informale dal benaugurante nome Hope, speranza. Per non parlare del personale, attento, garbato e professionale da lasciare a bocca aperta.

A Singapore la tecnologia è di casa. Volete partecipare ad un sondaggio sulla qualità del servizio ricevuto in ospedale? Compilate il questionario con il telefonino, leggendo l’ormai onnipresente codice QR. Temete di perdervi mentre siete alla ricerca di un parente ricoverato? Niente paura: basta scaricare la mappa interattiva che vi guiderà attraverso i reparti. Codice QR disponibile per Android e iPhone. Sembra una pubblicità. Invece è tecnologia al servizio della civiltà.

Siamo a metà del gioco. Ora tocca a voi completarlo: pensate ad un qualsiasi ospedale pubblico italiano, e scoprite le differenze. Non si vince nulla, ma magari – come diceva Benigni – ci si incazza parecchio. Come quando ti senti dire che ci vogliono sei mesi per fare un esame, che guarda caso nel centro privato si fa in pochi giorni. Basta pagare.



venerdì 17 gennaio 2014

Acrobati 3

Mandare un SMS oppure scrivere un messaggio su qualche social network mentre si viaggia in motoretta? A due mani? Si può, si può. Basta essere passeggeri, avendo perfino il comfort del bauletto come schienale a cui appoggiarsi, per meglio tener l’equilibrio mentre si digita. Speriamo non ci tocchi un giorno vederlo fare, ma al guidatore. Al peggio non c’è mai fine.






domenica 29 dicembre 2013

Essere o non essere…

... italiano? Il dilemma in questo caso non si pone. La risposta è certamente no.

Perché se lo sgrammaticato procuito poteva lasciare qualche spazio al dubbio, alla frettolosa distrazione, alla innocente svista, già quando arriviamo alla qualifica geografica, e si scivola sullo strafalcione Prama, allora c’è la certezza di una mano apocrifa dietro alla compilazione di un tale menu degli orrori. Subito dopo, burata non aiuta a migliorare l’infelice posizione lessicale del redattore.


Bisogno di ulteriori conferme? Ci pensa la definitiva e straziante deformazione della nostra umile e sana focaccia a convalidare la tesi testé acclarata: una forgasia non fa primavera. E soprattutto non fa un ristorante autenticamente italiano. O sole mio, Singapore. Astenersi, per favore. Almeno fino a quando questi analfabeti non arriveranno a capire che perfino un dozzinale Google translator può servire a qualcosa.




domenica 20 ottobre 2013

Contrasti


Tradizione



Modernità


Fotografate entrambe a Singapore la sera del ventidue settembre. Un paio di chilometri più in là si stava svolgendo il gran premio di Formula Uno. Ma molta gente, me compreso, al rombo dei motori della corsa in notturna più abbacinante al mondo ha preferito il quieto semibuio della gita nel parco per ammirare il tradizionale festival delle lanterne. Cinesi, ma fini ed educati come dei lord inglesi. Solo a Singapore.



domenica 17 marzo 2013

Figlie di un dio minore

G.A. Avanti, modaioli. Cosa vi fa venire subito in mente questa sigla? Ma certo. Il nostro Armani nazionale, il gorgeous Giorgio, come lo aveva definito parecchi anni fa la copertina di Time.

Ma G.A. erano anche le iniziali dell’Avvocato per antonomasia.

Qualche cinese, certo dotato di senso dello humour, ancor prima che di senso degli affari, deve aver pensato: perché non mettere insieme le due cose, per dare un inconfondibile e superiore senso di italianità alle mie cinghie?

Signori: ecco a voi Giorgio Agnelli. E le sue cinture. Che per inciso, per non essere nemmeno di pelle – anche se la menzognera stampa all’interno giura il contrario – non sono manco economiche. Only in Singapore shopping centres.





domenica 10 marzo 2013

Drive & Drink

Si sente sempre parlare di Drink & Drive. A Singapore una creativa e talentuosa pubblicità rovescia l’assioma. Tutti condannano la gente che prima beve e poi guida. Ma qui fanno sul serio. E affrontano la questione a monte del misfatto.

Non raccontiamoci storie: quando esci di casa sai già il programma della serata, e se ci saranno libagioni comunitarie inebrianti, minacciose per la capacità di guida. Nessuno, men che meno i poliziotti, abbocca alla facezia, toh, ma guarda, ero convinto di andare ad una degustazione di tè verde, e invece...

Per cui, al posto del solito non guidare dopo aver bevuto, questi geni della comunicazione sociale ti dicono, non guidare prima di bere. E non guiderai mai ubriaco.

Pensateci prima, per non pagare – e caro – dopo. Only in Singapore.




giovedì 4 ottobre 2012

Feticismi – Uno

Quanti di voi conoscono almeno un feticista dell’auto? Uno di quelli che passano le domeniche a lavarla, lucidarla e coccolarla. Che per un graffietto sulla carrozzeria fanno delle tragedie che manco il Re Lear. Che concederebbero il suo volante ad un conoscente più malvolentieri delle grazie della moglie.

Secondo me tra questi invasati del dio motore c’è più d’uno che ha fantasticato di portarsi l’amato bene in salotto. Singapore, terra del lusso e dell’esibizionismo edonista, questo sogno lo ha trasformato in realtà – probabilmente in cambio di un sontuoso gruzzolo di dollari.

Passo accanto all’ennesima torre multipiano, appena sorta – come araba fenice – dalle ceneri di un vecchio e onesto albergo che non rendeva a sufficienza per non soccombere al fato distruttore in guisa di crudeli macchinari dentuti e martellanti. Davanti all’ingresso sbrilluccica una corrusca scultura ipermoderna, una specie di trombone partorito dalla fantasia allucinata di un artigiano in acido. Ma è il montacarichi, innaturalmente a vista, e per di più con opulenti giochi di luci cangianti – dal rosso al giallo al blu – all’interno del vano, a destare i miei sospetti. Dai. Troppo grosso perfino per una lavatrice industriale o un sofà monopezzo ingestibile in una tromba delle scale. E poi, una volta finito il trasloco, a cosa serve una serranda larga come quella di un negozio, anzi di più?

Repentina l’illuminazione. Ora ricordo: ho letto da qualche parte di questa ultima bizzarria. Il garage sotterraneo? Ma che banalità! L’ascensore consente ad ogni proprietario di alloggio di portarsi la vettura (e non ci saranno molte Panda nel casamento) fino al piano. E parcheggiarla nell’apposito locale, adiacente alla zona giorno. Mettici due poltrone e un tavolino lì attorno, ed ecco trasformata la quattroruote in un esclusivissimo – sebbene ingombrante – oggetto di arredamento.

Già mi immagino i nuovi rimbrotti, coniati lì per lì da mogli esasperate dal dernier cri del feticismo maschile. Ti sei pulito le ruote prima di entrare in casa? Guarda lì, io mi spezzo la schiena a lucidare e guarda che cerchi motosi che hai! Insomma, la vogliamo finire con queste macchie d’olio in salotto? Portala una buona volta dal meccanico a cambiare quella guarnizione! Ti ho detto mille volte che non si fuma in macchina, cioè, in casa, vaffanculo, è la stessa cosa ora!!

Signori maschietti, vedete il lato buono della faccenda: se un giorno, stufi delle sgridate delle consorti, finirete per litigare, almeno avrete l’alternativa. O dormite sul divano, oppure approfittate dei confortevoli sedili ribaltabili del vostro personale feticcio al ventiseiesimo piano. Vuoi mettere l’esclusività?



domenica 8 luglio 2012

Konopizza

Viaggiatori, turisti, occasionali visitatori d’oltre confine. Quali sono i cibi che maggiormente identificano l’Italia nell’immaginario collettivo? Magari qualcuno non concorderà: ma per me sono la pizza ed il gelato. Va beh, gli americani ci provano sempre ad attribuirsi la paternità dell’allegra vivanda partenopea, grazie a catene di pizzerie che spesso propinano atrocità inimmaginabili a chi non abbia mai varcato i confini della Campania. Il gelato, quando non è spalettato da abili giocolieri turchi che sollazzano le clienti con divertenti siparietti, manovrando con consumata sapienza coni multigusto, viene per solito associato alla città di Napoli. Neapolitan icecream, recano scritto i mille chioschetti che vendono pallidi gusti di frutta o creme dai colori sospetti.

Ebbene, qualche animo perfido ha pensato bene di fare accoppiare queste due semplici delizie tutte italiane, dalla cui innaturale unione è nata una creatura aliena e inquietante: Konopizza. Il chiosco era chiuso, per cui non ho potuto documentare l’abominio in corso d’opera. Ma queste immagini bastano a far venire la pelle d’oca a chiunque abbia una goccia di sangue italiano, ed un briciolo di senso della tradizione. Un convogliatore trasporta all’interno del macchinario la pasta da cuocere, passando attraverso delle umilianti forche caudine in guisa di cono rovesciato. Nemmeno voglio immaginare come siano distribuiti gli ingredienti tipici della pizza all’interno del geometrico contenitore. Non so cosa esca dall’infernale apparecchio, e credo sia stata una fortuna non scoprirlo. Ci sono cose nella vita che non si vogliono sapere. Ed infine: raramente trovo cose o situazioni che mi offendono, ma stavolta ho fatto un’eccezione. Quell’”italia” (per inciso: minuscolo?! Please, un po’ di rispetto per la nostra nazione) piazzato lì, accanto al bizzarro nome commerciale, a cercar mendacemente di rinforzare il concetto di italianità, proprio non mi è andato giù. Sebbene sia di sicuro meno indigesto del konopizza.


No comment.



mercoledì 16 maggio 2012

Assassino

Ma Chi è. No, non mi sono dimenticato il punto interrogativo. L’assassino – sovvertiamo le regole dei gialli e riveliamolo all’inizio – si chiama Ma Chi. Per chi volesse dargli una faccia, eccolo qui.

Ma perché assassino? Era un po’ che non toccavo uno degli argomenti che mi infiammano. Questo lestofante ha ammazzato due innocenti. Non con armi da fuoco o con coltellacci. Con una Ferrari, lanciata a velocità folle nella notte di Singapore, bruciando un semaforo rosso e schiantandosi contro uno sfortunato taxi, appena ripartito allo scattare del verde, che si è trovato sulla sua scriteriata traiettoria.

Così sono morti la passeggera giapponese e il guidatore del taxi. E l’assassino.

I singaporeani si scoprono improvvisamente razzisti? Un plebiscito di condanne del folle gesto si è sollevato contro l’assassino. Perché Ma Chi è cinese, è arrivato a Singapore quattro anni fa con famiglia al seguito ed il pomposo titolo di investitore finanziario (non è tuttora ben chiara la provenienza né la legittimità del suo patrimonio) e nel frattempo – sentite un po’ – si è comprato un alloggio da tre milioni di dollari, una BMW da 400 mila e come regalino per i suoi trent’anni sprecati la Ferrari 599, pagata la ragguardevole cifretta di un milione e ottocento mila dollari (di Singapore), ma il cui prezzo più esosamente alto è la morte di due innocenti e un deficiente (al volante della stessa).

La gente di Singapore non è razzista. Io, per quel che vale, sono con loro in pieno. Perché sono giustamente infuriati per l’assoluta mancanza di rispetto di ogni regola, per il cinismo e l’esibizionismo tipico dei cinesi arricchiti (poi qualche solerte ispettore fiscale sarà così cortese da spiegare le ragioni di tale sorprendente opulenza). Sono increduli che per l’imbecillità criminale di un “talento straniero” abbia perso la vita un padre di famiglia, unica fonte di reddito per una moglie casalinga e tre figli ancora in età da liceo e con dei sogni di università che chissà se si avvereranno mai. E una giovane giapponese, col solo torto di essersi trovata nel momento sbagliato sulla linea di mira di un assassino.

I singaporeani sono indignati con i propri giornali, che preferiscono discettare della Ferrari e dei retroscena piccanti : chi è la misteriosa giovane ospite dell’assassino, vestita discintamente e ferita a sua volta nell’impatto, mentre la moglie – incinta – aspettava a casa con la figlioletta il maritino che alle 4 di mattina aveva preso il centro di Singapore per la pista di Imola?

I singaporeani vorrebbero che si parlasse di più della famiglia del taxista morto per l’idiozia di un tronfio cinese che crede di potersi comportare all’estero come di sicuro faceva a casa sua. I colleghi della compagnia di taxi hanno iniziato una raccolta di fondi. Ma c’è chi chiede che siano i parenti dell’assassino a risarcire finanziariamente la vedova dell’autista investito, affinché i propri figli possano completare gli studi avviati.

I singaporeani sono disgustati per la sorprendente celerità con cui è stata celebrata la cremazione del colpevole di queste morti inutili. Incidente avvenuto sabato mattina, lunedì già eseguita la cerimonia. E si interrogano: è stata fatta un’autopsia? Era in condizione di guidare o era ubriaco? Perché tutta questa fretta sospetta di far pulizia di eventuali prove?

I singaporeani sono offesi dalle reazioni stizzite della famiglia del morto: né hanno chiesto scusa a suo nome per aver causato tanto dolore evitabile, né hanno proposto di contribuire alla raccolta fondi per la vedova del taxista ucciso. Hanno invece dichiarato ai giornali locali di lingua cinese: la gente dovrebbe trattenere le proprie lingue velenose. E soprattutto: chi non si può permettere una Ferrari 599GTO non deve andare in giro a dire che chi può è un figlio di papà. Nemmeno un po’ arroganti.

Chi è sensibile è invitato a smettere di leggere qui. Perché per concludere voglio ricordare a tutti i coglioni che si credono immortali come Ma Chi, che morire schiantandosi in macchina alla velocità con cui viaggiava in una strada di città, porta ad alcune curiose modifiche della propria fisionomia: tipo che la testa tende a staccarsi dal collo, lasciando in bella vista carotide e giugulare recise, e che gli arti – per l’enorme istantanea decelerazione – si strappano dal torso. Certo una morte veloce – alcuni commentatori estremisti hanno scritto troppo veloce, meritava di soffrire di più – ma non un bello spettacolo per la parentela che lo deve riconoscere.

Pensateci bene, o imbecilli e potenziali assassini al volante. Perché se della vostra pellaccia non ve ne frega nulla, né peraltro - da infami egoisti - di quella della gente innocente che rischiate di ammazzare, magari a casa ce l’avete qualcuno a cui vorreste risparmiare la visione del vostro puzzle sanguinolento su un tavolo mortuario. Sono sicuro che se vi mostrassero una bella foto con i risultati granguignoleschi delle vostre gesta al volante, a qualcuno passerebbe la fantasia di imitare Nicky Lauda per fare il ganzo con la squinzia di turno. Mentre la moglie, povera cretina, lo aspetta inutilmente a casa.



mercoledì 7 marzo 2012

Margaritas ante porcos

Uno screanzato gruppo di coreani in transito all’aeroporto di Singapore si affaccenda intorno al banco della degustazione del cognac di uno dei numerosi Duty Free Shops. La ragazza addetta alla mescita serve solerte dei bicchierini in plastica riempiti per un terzo del prezioso nettare che fa bella mostra di sé sul banco, con tanto di prezzo dotato di svariati zeri.

I coreani fanno sparire di malagrazia il frutto di decenni di invecchiamento nelle voraci budella, subito sollecitando con gesti imperiosi l’erogazione di ulteriori assaggi e contornando il tutto con l’emissione di volgari suoni di apprezzamento.

La ragazza comprende la situazione e ricerca con lo sguardo l’intervento di un collega che dirima la questione. Sa che da sola non ha alcuna possibilità di fare valere le proprie ragioni con un gruppo di uomini, in special modo coreani. Al sopraggiungere del cortese ma fermo direttore della boutique del bere, gli scrocconi sciamano via come piccioni al rintocco di mezzogiorno, palesando la già manifesta intenzione non di acquistare, bensì di ingollare a ufo quanto più possibile liquore. Quando si dice: tutto il mondo è paese.



Prima pubblicazione : 14 gennaio 2008

sabato 3 marzo 2012

La piccola bottega degli orrori - 2

Ogni tanto mi capita, più per compiacenza nei confronti di altri commensali che per genuino piacere, di accettare inviti in ristoranti italiani o presunti tali. E in questi simposi, di menu raffazzonati o impregnati di castronerie ne ho letti più di qualcuno in vita mia. Ma pochi possono contendere il primato ad un locale di una nota catena di pizzerie che finge di essere italiana, in un brulicante centro commerciale di Singapore.

Mi è venuto il sospetto che il supporto linguistico tricolore sia opera di consulenti foraggiati dalla concorrenza intenzionata a danneggiare la suddetta impresa. Perché altrimenti non si spiegherebbe un tale accanimento nei confronti del nostro vocabolario.

È già poco accettabile che, sia pur con la scusa dell’incombente stagione natalizia, si propini ad un’innocente avventore una pizza decorata nel centro da una ciliegia completa di picciolo, di quelle dall’inquietante colore rosso ferrari, che ti chiedi sempre che diavolo di tinture chimiche usino per conciarle così. Ma tant’è. Puoi sempre togliercela, se proprio ti fa ribrezzo l’idea. E in fondo, se ci sono dei vicini di tavolo che si strafogano con una pizza all’ananas, che meraviglia può destare una ciliegia fosforescente?

Ancor meno tollerabile è che pretendano di pubblicare sul menu amenità e fatti curiosi sul Natale, ed informino, udite udite, che non dappertutto il vecchio barbuto che porta doni su una slitta tirata da renne volanti è conosciuto come Santa Claus, ma che per esempio in italiano si chiama (sic) Le Befana. Voltiamo pagina.

Grazie alla mania americana di abbreviare le parole per rendere tutto più veloce e più pratico, che non abbiamo mica tempo da perdere qui, ecco infine la perla che vado ad illustrare. Una pasta seminata di tocchi di pollo ed altri ingredienti che ora mi sfuggono, nella foga del succingere, trasforma il troppo lungo chicken in chic’. Si suppone che il redattore della carta fosse in vena di estrosità geografiche, vista la conclusione del suo capolavoro. Chic’… Chic’…? Come le battezzo queste linguine al pollo? Ecco l’idea! Trovato. Chiamiamole come la città americana. Chic’ cago. Proprio così, verbatim. Potessi morire. Gli ho fatto una foto perché non ci credevo. Defeco elegantemente. In pizzeria.

Il candido, ingenuo peto di pollo letto una volta in Australia è surclassato. Maledetti creativi, quando imparerete a consultare i dizionari delle lingue che violentate con i vostri cervelli bacati, per il vile profitto di qualche pizza o di qualche piatto di pasta venduti in più?


Prima pubblicazione : 2 dicembre 2007

domenica 22 gennaio 2012

Be white

Avevo promesso, qualche settimana fa, di raccontare degli eterni abbronzati. Prima di far ciò voglio toccare il rovescio della stessa medaglia.

Tanto da noi ci sono patologiche fissazioni nell’apparire costantemente arrostiti dal sole (Emilio Fede e Carlo Conti sono irriducibili esponenti del partito delle Lampados), quanto in Estremo Oriente funziona esattamente al contrario.

Basandosi sulla logica che chi ha la pelle abbronzata si suppone sia un lavoratore della terra o un migrante che alimenta la insaziabile industria delle costruzioni civili, il massimo desiderio delle donne – ma anche degli uomini – asiatici è di conservare (o se necessario acquisire) un colorito il più possibile diafano.

Al punto da trovare, in farmacia come nei supermercati, creme che promettono una pelle più chiara: risultati in sole due settimane di applicazione! La confezione dichiara orgogliosamente che con tale prodotto ci si sbianca. Alla faccia del politically correct.


Ma non basta. Ci sono perfino centri benessere che già dall’insegna chiariscono senza ombra di dubbi l’obiettivo prefissato: be white. Sii bianco.


Per questo gli asiatici, mentre camminano rigorosamente all’ombra o si riparano con vezzosi ombrellini da sole argentati, guardano come animali da circo i turisti occidentali (spesso italiani) che si crogiolano al solleone equatoriale, sulle spiagge o in piscina. E proprio non capiscono questi curiosi lattonzoli che a tutti i costi – anche rischiando l’ustione – insistono per diventare scuri. Mah. Gente strana: sono già bianchi – senza creme – e vogliono sembrare dei contadini. Valli a capire...



martedì 10 gennaio 2012

Chi l’ha visto

Ruberie all’aeroporto. Un nuovo giallo di Agatha Christie? Poirot si aggiorna, passando dagli affascinanti treni d’epoca a nuovi e più moderni mezzi di trasporto? No. È solo un titolo eclatante dell’edizione on-line del quotidiano di Singapore.

La polizia chiede collaborazione ai cittadini, per risolvere dei casi di furti, appunto al Changi Airport. Se una tale notizia vi fa pensare a scaltri predatori di valigie con tanto di falso bagaglio senza fondo, alla Totò, oppure a disonesti addetti ai nastri che sottraggono beni di valore dagli indifesi colli di ignari viaggiatori (Malpensa docet), o ancora a leggiadri borsaioli, pronti a sfilare portafogli gonfi di pregiate valute straniere a stremati passeggeri in arrivo da chissà dove, beh, vi sbagliate.

La Legge cerca questi due malfattori, sorpresi dalle telecamere a sgraffignare qualche oggetto dagli scaffali dei piccoli supermercati aeroportuali. Chiunque li riconoscesse è invitato (ed è di quegli inviti che suonano molto simili a ordini) a telefonare al numero verde 1800-255-0000. Nemmeno difficile da ricordare. Non avete proprio scuse di sorta: non si paga neppure la chiamata.

E ricordatevi: low crime doesn’t mean no crime.

Capite perché li ho definiti, giusto di recente, dei perfezionisti?


sabato 7 gennaio 2012

Perfezionisti

Gran parte delle nazioni del mondo si leccherebbero i baffi ad avere i record di sicurezza e di livello di crimine di Singapore. Invece quegli eterni perfezionisti non si accontentano mai. E fanno bene. Perché solo attraverso il costante impegno, il diuturno esercizio della giustizia – con puntualità ed equità, e soprattutto senza i soliti privilegiati che posson sempre farla franca perché contano qualcosa ed hanno gli amici nei posti giusti – si riesce a mantenere quell’invidiabile primato della città-stato detta la Svizzera d’Oriente.

Low crime doesn’t mean no crime. Poco crimine non equivale a niente crimine. Non nascondere la testa nella sabbia come gli struzzi, suggerisce graficamente il manifesto della campagna pubblicitaria governativa applicato su un taxi. Stai all’occhio. E i cittadini eseguono alla lettera. Se accade qualcosa di anormale chiunque è pronto a telefonare alla polizia, per segnalare un comportamento illegale, un pacco sospetto in un luogo pubblico, anche un evento veniale, che da noi susciterebbe l’ilarità dei gendarmi e l’invito a disturbarli per cose più serie.

Trovo straordinario questo non accontentarsi, il non sedersi sugli allori, il volere solo e sempre il meglio per se stessi e per i propri concittadini, da parte degli amministratori di Singapore. Poco crimine è pur sempre un crimine, e non ci basta. L’acquiescenza alla piccola malefatta è il primo passo verso l’accettazione di comportamenti criminali peggiori.

Non ho mai avuto occasione (non so se dire per fortuna) di far conoscenza con un giudice di Singapore. Almeno socialmente mi sarebbe piaciuto, però. Perché se sono tutti così convinti della loro missione come il giovane giudice distrettuale Marvin Bay, allora sono un esempio per qualsiasi magistrato al mondo. Vestito con tuta, mantello rosso e cappello, Captain Justice, supereroe sconfiggi-crimine, ha recitato la parte davanti ad una trentina di bambini partecipanti ad un programma filantropico mirato a migliorare l’istruzione e a prevenire la delinquenza giovanile. Ha cantato la canzone “Capitan Giustizia arriva in città” e a distribuito piccoli doni agli spettatori in erba. Alla fine ha consegnato un assegno di cinquemila dollari, soldi raccolti tra il personale dell’Ente Giustizia Civile, ai rappresentanti del benefico sodalizio.

Forse gesti come questo susciteranno dei sogghigni da parte di qualcuno in Italia. Ma è sapendo comunicare con i cittadini del domani, creando in loro un senso di fiducia e di complicità, non di soggezione e diffidenza, che si gettano le fondamenta per una società che vuole continuare a vivere rettamente. E se il giudice Marvin Bay non si vergogna a travestirsi da supereroe per perseguire la sua missione, lode a lui.

Di quanti Marvin avremmo bisogno in Italia, per tentare di iniziare a renderla una nazione civile? OK, come non detto. Non basterebbe l’intera popolazione di Singapore. Perché se ognuno di noi non ha dentro di sé i semi dell’onestà e dell’orgoglio della propria missione, nemmeno un esercito di supereroi ci trasformerà mai in una società sana.

mercoledì 14 settembre 2011

Cronache marziane - 2a parte

Il racconto prosegue da ieri. La prima parte la trovate qui.

Riflessioni sparse, affiorate durante quelle lunghe ore in un luogo che a malapena evocava la sofferenza. Stimolanti visioni, talvolta addirittura entusiasmanti, veri tesori per l’occhio del viaggiatore curioso ed affamato di conoscenza.

Già al momento dell’arrivo, in auto, la prima sorpresa. Cartello: block parking. Simbolo di fiducia quasi illimitata. Il lotto è pieno? Non importa. Parcheggi la macchina in seconda fila, con le chiavi nel cruscotto ed il finestrino abbassato. Quando qualcuno deve andarsene ma è bloccato dai nuovi arrivati, degli inservienti spostano la vettura esterna e poi la posteggiano nel vano lasciato libero. E avanti così. Tutto basato sulla fiducia che nessuno tocchi nulla. Da noi? Impensabile.

SGH. Potrebbe essere un centro ricreativo. Giardinetti con aiuole colorite di fiori e allegri cartelli a forma di cuore che ringraziano le infermiere per la loro dedizione. Panchine dove i visitatori leggono il giornale, chiacchierano, riposano in attesa dell’ora di passaggio. Perfino delle variopinte bancarelle nei viali, zeppe di mercanzia varia, borse, orologi, magliette, sciarpe, fermagli per capelli, pelouches.

Una corte delle cibarie (lo so, è un neologismo orrendo, ma come altro tradurre l’inglese food court, simbolo di ristorazione ad ampio spettro del Sud Est Asiatico?) dove le varie etnie trovano i propri cibi per far colazione, pranzo, cena, senza un’apparente soluzione di continuità. Sempre piena a tutte le ore, l’ansia e il dolore vinte dall’esigenza primordiale di rifocillarsi. Lunghe e rispettose code di persone si dipanano tra i tavoli, ad indicare i chioschi che offrono le migliori refezioni. Nasi lemak malesi, jiao zi cinesi, curry di pollo indiani. Niente alcol, ma solo grandi spremute di frutta fresca. Tutto genuino e saporito. E per pochi dollari, idoneo alle tasche di tutti.

E i malati? Anche loro trattati come ospiti di un albergo. Di rango. Dopo il pranzo arriva una cordiale infermiera dotata di una rivista. Domanda, dolce ed espansiva, cosa vogliamo mangiare domani? E illustra ai degenti le pagine, piene di foto a colori delle pietanze disponibili tutta la settimana. C’è ovviamente scelta. Cinque menù diversi: cucina occidentale; cinese; halal, per i malesi mussulmani; indiana, vegetariana o con carne. Robe che vien l’acquolina in bocca solo a guardare le figure.

Ascolta i bisogni dei nostri pazienti, ammonisce da un muro un gran manifesto. Scegli parole che fanno bene al malato. Sorridi, usa gli occhi per comunicare partecipazione. Usa il tono giusto e parla con sincerità. Presta attenzione a ciò che ti viene detto e comprendi le preoccupazioni. Ricordare tutto questo evidentemente fa bene, perché dottori e infermiere ogni giorno sono davvero così, come i ritratti di questo poster.

Chi è Rosie Kwan? La superstar. Non di qualche vacuo programma televisivo pieno di beceri sfaccendati. È la finalista, vincitrice del concorso annuale per il miglior dipendente dell’ospedale. Scelta tra più di mille persone, tutte premiate per l’eccellente stato di servizio. Di quali straordinarie sollecitudini si sarà resa protagonista, considerando l’inarrivabile livello di efficienza unita alla premura che caratterizza tutto il personale con cui sono venuto in contatto? Fatto sta che si è meritata una gigantografia all’ingresso di uno dei corridoi al pian terreno. È bello sapere che esisti, Rosie.

Mi ha commosso tutta questa inusitata ostensione di impegno, di dedizione, di scrupolosità, di voglia di dare (agli altri, ai bisognosi) prima che ricevere (lo stipendio, comunque ben più meritato rispetto ai nostri scafati professionisti dell’assenteismo retribuito).

Rieccomi a casa: apro un qualsiasi giornale italico, leggo l’ennesima vergogna. Il morto di giornata da malasanità. E m’intristisco, riflettendo: il terzo mondo siamo noi.

Prima pubblicazione : 27 settembre 2009

martedì 13 settembre 2011

Cronache marziane - 1a parte

Malasanità. Episodi scandalosi. Gente che muore perché la sala operatoria era chiusa. O perché sballottata da un ospedale a un altro alla ricerca di un letto o di un dottore che ci capisca qualcosa. Gente che resta sotto i ferri, togliendosi tonsille o poco più. O che se ne va per criminali errori, scambi di sacche emostatiche, iniezioni sbagliate, diagnosi superficiali o grossolanamente fallaci. Arnesi e garze dimenticati nelle pance come se i pazienti fossero dei panni lenci da imbottire di cotone.

Torno in Italia e ritrovo il solito stillicidio di eventi vergognosi. E ripenso all’abissale differenza tra i troppi nosocomi nostrani trasformati in sconce topaie dove curarsi è diventata una lotteria, ed un luogo – che sommo contrasto! – da indicare ad universale esempio di dedizione al malato.

SGH. Entro in questo ospedale per visitare una persona d’età, lì per un’operazione complessa e delicata. La prima cosa che mi colpisce è l’assoluta mancanza di quel lezzo tipico di clinica, tanfo di disinfettante aggressivo misto agli afrori di umanità varia, sofferente o in visita. Eppure ogni superficie riluce di pulizia estrema, ogni pavimento è lindo e privo del benchè minimo detrito, ogni parete sembra imbiancata di fresco ieri l’altro. Macchinari corruschi ed efficienti. Ascensori politi e solleciti. È un policlinico o la NASA?

Poi scopro che tutti i visitatori si devono registrare, lasciando i propri dati a delle volonterose signorine che lavorano senza sosta al computer. Etichetta sulla maglia, valida solo per il reparto del malato che si visita. Controllo a portale della febbre. Mascherina, fornita gratuitamente ad ogni ingresso. Ammissione solo negli orari di passo, che peraltro sono ampi, due ore sul mezzogiorno e addirittura tre e mezzo il pomeriggio.

Salgo ai piani. Ci sono infermiere di una gentilezza disarmante. Dotate di un sorriso che intuisci dagli occhi, visto che la mascherina è obbligatoria non solo per i visitatori ma anche per lo staff. Si muovono e lavorano con serenità, spostando senza sforzo malati appena operati, adagiati su barelle motorizzate ma silenziosissime, che scorrono nei corridoi senza un cigolio, senza un’incertezza. Entrano ed escono dalla zona di rianimazione. Colgono la trepidazione di parenti in attesa di notizie, ansiosi di vedere un proprio caro seppur solo al di là di un vetro. Il lento respirare incosciente del coma indotto è già motivo di sollievo. Rispetto, silenzio, garbo.

I dottori visitano. Non tronfi e importanziosi, circondati da codazzi di giovani tirapiedi, non le divinità la cui epifanizzazione in corsia provoca perentori richiami da parte di infermiere sbirre: tutti fuori, presto, che c’è il Dottore. Qui il chirurgo visita alla presenza dei parenti, sorride confortante e incoraggia la malata che già dà segni di ripresa. La privacy è rispettata, una tenda gira tondo tondo attorno al letto e nasconde il sollecito, efficiente consulto. Il medico si sposta al paziente successivo e a quello dopo ancora. Tre ospiti, tre idiomi differenti. Il dottore li padroneggia tutti. Un ultimo sorriso e se ne va, altra stanza, altre anime da consolare e motivare.

Ovunque ci sono moniti all’igiene. Mani pulite, vera ossessione. Ogni dieci metri c’è un flaconcino che dispensa alcool, per disinfettarsele. Nei bagni, lindi e luccicanti come specchiere di cristallo, risuona discreta della musica classica. Operistica. Puccini, il mio favorito. E non è una clinica privatissima, per milionari che possono pagare rette da grandhotel. È il Singapore General Hospital.

Una città, uno stato si giudicano anche dalla cura che dedicano ai propri cittadini quando sono malati. Se questo è un parametro sufficiente, Singapore è tra i luoghi più civili al mondo. Ho visitato il SGH per dieci giorni di fila. E riuscivo sempre a meravigliarmi per qualcosa di nuovo, di inaspettato, di sorprendente.

Se vi è piaciuta la prima parte del racconto, tornate a trovarmi domani, per la seconda parte delle Cronache marziane...

Prima pubblicazione : 26 settembre 2009

mercoledì 7 settembre 2011

Goodbye, little rascal

You flew somewhere this morning. Wherever you are now, I wish you a good trip. As good as the life you had. Happy, fierce, confident dog. Bye, Teddy. You will be missed.

domenica 17 luglio 2011

Il paese del bengodi

Sono i piccoli episodi a dirla lunga sul miserevole stato del rispetto delle regole in Italia. Viareggio, stazione ferroviaria. Un giovane romeno viene sorpreso a forzare la cassettiera di un telefono di una pensilina. Primo errore: ci sarà già chi dice cosa vuoi che sia, c’è ben di peggio in Italia. Vero: ma non per questo rubare può diventare giustificato. Né è lecito lanciarsi in analisi sociologiche sul disagio degli immigrati, con assoluzione morale preventiva.

Il furfantello, vista la polizia, scappa, si nasconde su un treno e quando viene acciuffato minaccia i gendarmi: dirò al giudice che mi avete picchiato durante l’arresto.

Tattica certamente ritenuta efficace, e purtroppo non a torto: ci sono buone probabilità che il mariuolo incontri un giudice che alla fine mette sotto inchiesta i poliziotti, e magari trova la maniera di mandare assolto un ladro colto con le mani nel sacco.

Quando apprendo fatti del genere, mi corre immediatamente il pensiero a Singapore. E alla sua giustizia orientata unicamente verso un obiettivo. Incentivare i comportamenti leciti, punendo severamente, rapidamente e diligentemente l’illegalità. A Singapore i poliziotti non picchiano gli arrestati. Non si sostituiscono ai giudici. Non ce n’è bisogno. Ad ognuno il proprio ruolo.

A Singapore nessun ladro ricatterebbe una guardia che lo sta arrestando. Perché a Singapore i giudici stanno dalla parte della legge. E sono loro a poter – legalmente – comminare un numero di frustate proporzionale alla gravità del reato. Metodi correttivi estremi? Certo. Ma provate una sera a passeggiare per il centro (o per la periferia, fa lo stesso, è altrettanto sicura) di Singapore, provando un senso di tranquillità che da noi è da lungo tempo perduto.

Dirò al giudice che mi avete picchiato, dice il ladruncolo rumeno di Viareggio, sperando di evitare una condanna e di inguaiare due sgherri. Gli fosse successo a Singapore, avrebbe scongiurato gli agenti di esser indulgenti nel verbalizzare il suo reato. Perché lì è il giudice – davanti al quale si compare in una questione di giorni, talvolta di ore – a decidere se basta un po’ di gattabuia, oppure è appropriato assegnare una punizione fisica al malfattore. Sei colpi di rattan, ben affibbiati sulle terga snudate del reo, lasciano un segno. E non parlo solo del sedere.

domenica 10 luglio 2011

Troncamenti equivoci

Forse varrebbe la pena suggerire a questi signori, importatori di cibi e bevande di pregio dalla vecchia Europa, che se si vuole dare al proprio negozio un nome contenente un tocco di raffinata allusione ai termini meno consueti ma più identificativi del vero gourmet, allora prima di perfezionare la scelta sarebbe saggio consultare qualche italiano. Perché se no, nel tentativo di evocare la scienza culinaria, si ottengono questi spassosi risultati.

Non solo: fanno pure proseliti. Come gli autori di questo ricettario, visto negli scaffali di una libreria di Singapore.