Il racconto prosegue da ieri. La prima parte la trovate qui.
Riflessioni sparse, affiorate durante quelle lunghe ore in un luogo che a malapena evocava la sofferenza. Stimolanti visioni, talvolta addirittura entusiasmanti, veri tesori per l’occhio del viaggiatore curioso ed affamato di conoscenza.
Già al momento dell’arrivo, in auto, la prima sorpresa. Cartello: block parking. Simbolo di fiducia quasi illimitata. Il lotto è pieno? Non importa. Parcheggi la macchina in seconda fila, con le chiavi nel cruscotto ed il finestrino abbassato. Quando qualcuno deve andarsene ma è bloccato dai nuovi arrivati, degli inservienti spostano la vettura esterna e poi la posteggiano nel vano lasciato libero. E avanti così. Tutto basato sulla fiducia che nessuno tocchi nulla. Da noi? Impensabile.
SGH. Potrebbe essere un centro ricreativo. Giardinetti con aiuole colorite di fiori e allegri cartelli a forma di cuore che ringraziano le infermiere per la loro dedizione. Panchine dove i visitatori leggono il giornale, chiacchierano, riposano in attesa dell’ora di passaggio. Perfino delle variopinte bancarelle nei viali, zeppe di mercanzia varia, borse, orologi, magliette, sciarpe, fermagli per capelli, pelouches.
Una corte delle cibarie (lo so, è un neologismo orrendo, ma come altro tradurre l’inglese food court, simbolo di ristorazione ad ampio spettro del Sud Est Asiatico?) dove le varie etnie trovano i propri cibi per far colazione, pranzo, cena, senza un’apparente soluzione di continuità. Sempre piena a tutte le ore, l’ansia e il dolore vinte dall’esigenza primordiale di rifocillarsi. Lunghe e rispettose code di persone si dipanano tra i tavoli, ad indicare i chioschi che offrono le migliori refezioni. Nasi lemak malesi, jiao zi cinesi, curry di pollo indiani. Niente alcol, ma solo grandi spremute di frutta fresca. Tutto genuino e saporito. E per pochi dollari, idoneo alle tasche di tutti.
E i malati? Anche loro trattati come ospiti di un albergo. Di rango. Dopo il pranzo arriva una cordiale infermiera dotata di una rivista. Domanda, dolce ed espansiva, cosa vogliamo mangiare domani? E illustra ai degenti le pagine, piene di foto a colori delle pietanze disponibili tutta la settimana. C’è ovviamente scelta. Cinque menù diversi: cucina occidentale; cinese; halal, per i malesi mussulmani; indiana, vegetariana o con carne. Robe che vien l’acquolina in bocca solo a guardare le figure.
Ascolta i bisogni dei nostri pazienti, ammonisce da un muro un gran manifesto. Scegli parole che fanno bene al malato. Sorridi, usa gli occhi per comunicare partecipazione. Usa il tono giusto e parla con sincerità. Presta attenzione a ciò che ti viene detto e comprendi le preoccupazioni. Ricordare tutto questo evidentemente fa bene, perché dottori e infermiere ogni giorno sono davvero così, come i ritratti di questo poster.
Chi è Rosie Kwan? La superstar. Non di qualche vacuo programma televisivo pieno di beceri sfaccendati. È la finalista, vincitrice del concorso annuale per il miglior dipendente dell’ospedale. Scelta tra più di mille persone, tutte premiate per l’eccellente stato di servizio. Di quali straordinarie sollecitudini si sarà resa protagonista, considerando l’inarrivabile livello di efficienza unita alla premura che caratterizza tutto il personale con cui sono venuto in contatto? Fatto sta che si è meritata una gigantografia all’ingresso di uno dei corridoi al pian terreno. È bello sapere che esisti, Rosie.
Mi ha commosso tutta questa inusitata ostensione di impegno, di dedizione, di scrupolosità, di voglia di dare (agli altri, ai bisognosi) prima che ricevere (lo stipendio, comunque ben più meritato rispetto ai nostri scafati professionisti dell’assenteismo retribuito).
Rieccomi a casa: apro un qualsiasi giornale italico, leggo l’ennesima vergogna. Il morto di giornata da malasanità. E m’intristisco, riflettendo: il terzo mondo siamo noi.
Prima pubblicazione : 27 settembre 2009
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