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martedì 28 gennaio 2014

Only in Australia

Road train è un termine familiare solo a chi conosce un po’ l’Australia. Ogni tanto in autostrada si incontrano degli autoarticolati di particolare lunghezza e capacità di carico. Il potente trattore stradale tira non il solito singolo rimorchio autoarticolato, ma ben tre. Per una lunghezza complessiva di oltre 50 metri. Per carità, che non debba mai fare manovra in retromarcia!

Un amico mi manda delle foto dalla terra dei canguri. Anche loro, seppur abituati alle esagerazioni, talvolta riescono ancora a sorprendersi di se stessi. Ecco le ragioni.

Un convoglio più somigliante a un treno merci che non ad una fila di camion come la conosciamo noi. Lassù, nel deserto rosso dei Northern Territory, una processione di road trains carica bestiame in una stazione presso Tennant Creek.

Dopo aver terminato le operazioni, il treno dei treni continua il suo lungo viaggio, in parte su sentieri sterrati. Percorrerà oltre milletrecento chilometri per raggiungere il mercato di Longreach, nel Queensland.

Un po’ di numeri, per dare l’idea di quanto eccezionale sia questa traversata desertica.

Diciassette camion; tre trailers per camion; due pianali per trailer: fanno 102 pianali da caricare di bestie.
Circa 28 animali per pianale: in totale, 2.856 capi.
Ogni capo pesa circa 500 chili.
Il prezzo del bestiame all’ingrosso a Longreach è di 1 dollaro e 65 cent al chilo.
Ogni animale viene venduto per 825 dollari.
Il valore totale della mandria trasportata è 2.356.200 dollari.
La colonna è lunga circa 900 metri. Roba da pregare di non doverla mai sorpassare!!

Quasi un chilometro di carovana e due milioni e mezzo di dollari di mucche. Questo si chiama far le cose in grande. Only in Australia.





venerdì 20 settembre 2013

Luna rossa

Cielo terso del Nord dell’Australia. Piena, lucente e nitida. Equinozio di primavera (da noi, nell’emisfero boreale, è quello d’autunno). Erano anni che speravo di rubare un ritratto così di Latona. A mano libera, senza supporti, amore, passione, un respiro profondo e via. Clic. Uno scatto speciale.


Magia della Luna. Rossa, come solo la terra del deserto australe.





giovedì 30 maggio 2013

Prigionieri - 2

Fèrmati per andare avanti. È il motto dell’Eremo del Silenzio.

E pensare che pochi mesi fa, all’arrivo a Perth, avevo sorriso, vedendo, proprio all’uscita dall’aeroporto, la pubblicità dalla vecchia galera di Fremantle. Che, con squisito senso dello humour australiano, recitava: dando il benvenuto ai visitatori da centocinquanta anni. Il nuovissimo mondo. Talmente recente da non avere nient’altro di più antico o di più rimarchevole da visitare. Che idea bizzarra, vero, visitare una prigione?


Invece, una domenica di maggio, mi capita di passare davanti alle Nuove, a Torino. Fin da ragazzo ricordo di aver osservato quei muri in mattone pieno con un senso di inquietudine e di curiosità insieme. Curiosità di sapere che mondo ci fosse dietro quella recinzione, dietro quelle sbarre, attraverso le quali ogni tanto capitava di vedere un detenuto comunicare con qualche parente – prima degli anni di piombo, che porteranno misure più severe e ancor più spinto isolamento dal mondo esterno. Inquietudine per quel senso di ovvia pericolosità del luogo, dell’ambiente, il pensiero teso all’auspicio di non dover mai, neppure per errore, trovarsi a dover frequentare da ospite tale luogo di pena ed espiazione.

E la curiosità mi ha sopraffatto, quando ho trovato un nuovo varco laterale spalancato di recente nel muraglione. Impossibile resistere. Bastano pochi, timidi passi, ed eccomi dentro al perimetro del carcere. Una signora mi chiede: vuole visitare il Museo delle Nuove? Forse, dico, ma mento. Certo che voglio. La seconda e la quarta domenica del mese ci sono visite guidate, alle nove di mattina. Unico viandante mattiniero, ho la fortuna e il privilegio di avere una guida tutta per me. Michele, volontario, mi accompagna attraverso un percorso di oltre un’ora. Attraverso il camminamento interno, recintato dalle due cinte murarie, si entra nella struttura. Non prima di aver reso un omaggio ad una teoria di fotografie d’epoca, ritratti seri, fieri, volti non sconfitti, vittime delle rappresaglie naziste in tempo di guerra. Persone che oggi si ritrovano nella toponomastica di Torino. Il generale Perotti, Massimo Montano, Paolo Braccini, Eusebio Giambone, Ignazio Vian, Emanuele Artom. E tanti altri sconosciuti combattenti morti per darci un’Italia migliore. Chissà se lo rifarebbero, vedendo l’odierno stato miserevole della nostra penisola.

Michele alterna interessanti notizie storiche e architettoniche con le vicende di umili eroi, come suor Giuseppina, che salvò uomini, donne e bambini, in tempo di guerra. Come padre Ruggero, cappellano carcerario, cinquant’anni tondi passati lì dentro, dalla guerra alla seconda repubblica.

E poi ci sono le odissee di ignoti reclusi, raccontate dai graffiti incisi sui muri delle celle. Disegni, incerte parole in dialetto, ma anche le ultime lettere dei partigiani condannati, piene della loro straziante certezza di morire, pur confortata dalla serena fierezza di aver lottato per un mondo migliore, che lasciavano in eredità a mogli, figli, parenti.

Fra tutte queste testimonianze scarabocchiate da animi angosciati, c’è chi, nella sezione femminile, è stata capace di sintesi massima, mentre esternava cosa si prova a stare in cella: qui si fa solo strage di sogni.

Michele mi chiede, alla fine, di far conoscere il loro oscuro lavoro di volontari, retribuito solo dall’apprezzamento e dalla riconoscenza dei visitatori. E di lasciare due parole sul registro. Faccio entrambe le cose molto volentieri. Ci sono esperienze che vale la pena fare, nella vita. Come questo viaggio attraverso un luogo opprimente, ancora grondante dolore e echeggiante grida e lamenti di sofferenze passate. Per capire il valore della parola libertà, spiegata nell’ambiente in cui è costretto a vivere – e spesso a morire – chi la libertà l’ha persa. Giusta o sbagliata che sia la ragione per cui si son trovati lì.

Sono di nuovo fuori da quelle mura alte e scure. Respiro a pieni polmoni l’aria tersa e fresca. Il sole non mi è mai sembrato così caldo e scintillante.




domenica 31 marzo 2013

Bellezze al bagno

Sotto gli occhi di bronzo di un canguro all’abbeverata, un gabbiano mette in scena un’allegra prassi ablutoria in una fontana di Perth. Arruffa le penne, si tuffa nell’acqua bassa, sinuoso riemerge e infine dispiega le ali.

Libertà è scegliere di volare via, veleggiando senza sforzo nel vento, con la grazia silenziosa di un aliante. Come scrissi una volta in Corea: deve essere bello avere le ali.




sabato 30 marzo 2013

What a difference a word makes

Home. La differenza nella forza, nella potenza di un messaggio è tutta in quella breve ma fondamentale parola.

Gli australiani hanno una vera ossessione per salvare le vite degli automobilisti. Operando senza sosta per impedire agli ubriachi di far danni al volante. E tempestando i guidatori con continue campagne contro l’eccesso di velocità sulle strade.

L’ennesimo cartello troneggia su un viadotto di autostrada nei pressi di Sydney. Avrebbero potuto dire: drive safely. Guida con prudenza. Ma sarebbe stato il solito, trito, barboso ammonimento a rispettare i limiti e a non fare stupide gare tra auto.

Qualche creativo che si merita il posto di lavoro invece ha pensato bene di aggiungere una parola lì in mezzo. Drive home safely. Ossia, tornate a casa sicuri.

Potenza delle parole. Drive home safely. Perché lì c’è qualcuno che ti aspetta. Non deludere la tua famiglia. Torna a casa. Guidando con prudenza.

Grandi australiani.




sabato 23 marzo 2013

Felicità è…



...giocare con l’acqua, quando si è bambini. Ma a Perth, in pieno centro, nell’installazione artistica chiamata Labirinto d’Acqua, non solo lo si può fare con il permesso della mamma, che sorveglia, vigile ma divertita, cinecamera in mano.

Addirittura l’amministrazione comunale stessa incita il pubblico – si suppone, non solo quello in tenera età – ad interagire con l’opera d’arte. Ma nel contempo avverte, a scanso di cause legali per storte o contusioni da caduta, che ognuno gioca nel labirinto a suo rischio e pericolo.

I bambini, si sa, son di gomma. E saltano, allegri e incuranti degli avvisi, in un caldo sabato d’autunno, tra le cortine di zampilli rinfrescanti. Felicità è...



sabato 26 gennaio 2013

Happy Australia Day

Due categorie di persone non potranno godere dello spietatamente scorretto umorismo di questa serie di vignette, commemoranti il giorno in cui l’Australia festeggia se stessa: chi non conosce l’inglese, ma soprattutto quelli che facilmente si offendono (e li invito caldamente a desistere dalla lettura immediatamente) per la scorrettezza politica.

Che io, al contrario, adoro. Nessuno meglio degli australiani sa essere politically incorrect. Chi altri oserebbe rivolgersi su un poster al proprio ministro degli esteri in carica invitandolo ad alzare dalla sedia il suo più che ben retribuito sedere ed a fare qualcosa (nello specifico, cercare di riportare a casa quello della connazionale Schapelle Corby, in carcere a Bali per traffico di droga)?

Auguroni, amici australiani. Celebrate degnamente la vostra giornata. Ma ricordate: if you drink and drive, you’re a bloody idiot. If you do it home, you’re a bloody legend.




venerdì 28 settembre 2012

Primavera australe - 2a parte

Segue da ieri.


Altri fiori, noti e meno noti, per voi. Bellissimi e gioiosi segni del risveglio della natura.

Dimorphotheca pluvialis

Magnolia liliiflora

Viola hortensis

Echium candicans


giovedì 27 settembre 2012

Primavera australe

Le giornate si accorciano? Cominciano a farsi sentire i primi freschi autunnali? È ora di verificare se le caldaie funzionano bene e i caloriferi non perdono?

Homing Pigeon vi regala un po’ di primavera fuori stagione. I colori dei giardini in fiore di Hobart, nella verde e bellissima Tasmania. Ma non chiedetemi diavoli, per favore.

Acacia pycnantha

Anigozanthos

Prunus persica

Banksia marginata


Continua domani, con altri fiori...



lunedì 17 settembre 2012

Bello come un dio greco – Due (2a parte)

Segue da ieri.


Due giorni dopo l’operazione chiede che al letto vengano fissati degli elastici, per ricominciare a esercitare la gamba ed il braccio superstiti. E vuole un computer. Gli uomini non son bravi ad esternare i propri sentimenti, a parlare, a trovare conforto nella presenza di parenti e compagni d’arme. Più che conversare, Paul vuole leggere e documentarsi. Vuole capire come hanno fatto gli altri a vivere con le stesse mutilazioni.

C’è luce in fondo al tunnel. La prima gioia dopo tanto dolore. Allora ho un futuro! Potrò rifare le stesse cose. Magari un po’ più lentamente. Magari con un bel po’ di ferraglia addosso. Una frase australiana, la cui potenza espressiva è intraducibile, riassume il suo pensiero: it’s gonna be alright.

Sì. Attraverso il percorso di riabilitazione e idroterapia Paul fa progressi quotidiani. Tre mesi dopo l’incidente, stufo di piscine e gente che lo guarda come un miracolato, chiede e ottiene di tornare nel suo elemento. Spiaggia di Sydney, una nuotata nell’oceano. Non fa paura. Non più, e mai più, dopo quello che ha passato.

Uno alla volta, supera i piccoli e medi obiettivi che si pone. Sono le piccole cose, quelle a cui non pensiamo mai perché sono processi e maccanismi automatici, le più frustranti da affrontare. Come allacciarsi una scarpa. Scrivere con la sinistra. Guidare la macchina.

La negatività non fa parte del suo carattere. Paul si motiva con un pensiero costante e bellissimo: non lasciare che le cose che non puoi fare ti impediscano di fare quelle che puoi.

Per tornare ad essere se stesso ha bisogno di sentirsi libero. Libero da quel coacervo di medicinali che lo hanno aiutato, ma che ora offuscano la mente e disturbano il corpo: antidepressivi; antidolorifici; cicatrizzanti; ricostituenti. Basta con questi farmaci!

Ripulito dentro, è l’ora di tornare al lavoro. La Marina lo attende a braccia aperte. Sentire di avere un ruolo, il senso di appartenenza, motivare gli altri e dare un esempio riempiono la vita. Ma per una persona che si descrive, con straordinario senso dello humour, metà uomo e metà mountain-bike, non è facile accettare i limiti imposti dalla nuova condizione. Perfino i compagni d’arme, seppur per spirito di protezione, lo fanno sentire disabile, attento a questo, bada lì, quello è meglio di no. Insomma, più riunioni e chiacchierate in poltrona che operatività. Non è quello che voleva.

Positività e motivazioni vanno conquistati, non sono merce di facile disponibilità. Come molte altre vittime di attacchi di squali, Paul non porta dentro di sé rancore per l’animale che lo ha menomato. Anzi. Considera una grande fortuna aver potuto parlare a New York, alle Nazioni Unite, sostenendo una campagna per proteggere questo grande, primordiale predatore, alla vetta della catena alimentare. Cento milioni di squali vengono uccisi ogni anno per le loro pinne. Senza questa specie, gli equilibri del mare saranno compromessi per sempre. Ammirevole, per uno che a causa di un esemplare che ora sta difendendo ha dovuto affrontare un’odissea di sofferenza e patimenti.

Paul, dopo aver parlato per un’ora ad un auditorio ammutolito e affascinato, si accommiata con un breve video che racconta il suo percorso. Incluse le scene, confuse ma inequivocabili e drammatiche, dell’attacco, filmate dai suoi commilitoni sulla barca d’appoggio. E mentre scorrono queste immagini tremende, Paul chiude gli occhi, e chissà quali mille pensieri gli affollano la mente. Tutti riassunti in un motto: never give up. Mai rinunciare – a lottare, a fare cose, al proprio diritto ad avere una vita.


La musica sfuma. Applausi. Scende dal palco con un sorriso sincero, con quell’allegria contagiosa che solo un sopravvissuto sa trasmettere.

Lo incontro, gli parlo, ed è una bella persona, non solo sul palcoscenico ma anche nel colloquio diretto. Mi dice che è stato di recente in Italia, da vero aussie mi chiama mate, ma soprattutto mi offre la destra, quella artificiale, per una stretta di mano indimenticabile. I muscoli del braccio trasmettono impulsi all’arto bionico, che contrae le dita, oppone il pollice, impugna oggetti con una delicatezza e precisione insospettabili. C’è più calore umano in quella mano sintetica di tante in carne e ossa che ho stretto in vita mia.

Ho conosciuto una specie di robocop. Ma immediatamente simpatico e affabile come solo certi australiani sanno essere. E bello come un dio greco.




domenica 16 settembre 2012

Bello come un dio greco – Due

Sì, due. Perché Alex Zanardi era il protagonista del primo racconto così chiamato. Ma Paul de Gelder merita appieno lo stesso titolo. Incontrare Paul ti cambia la vita. Come la sua, che è cambiata mille volte.

Ex giovane scapestrato. Amicizie sbagliate, bevute scriteriate, droga. Spogliarellista da nightclub. Poi una nuova vita nata quasi per scommessa. La Marina Militare, il training duro, le forma fisica perfetta, un lavoro pericoloso ma stimolante come sommozzatore militare. Una missione a Timor Est, il contatto con villaggi che vivono ancora in maniera atavica: un’esperienza che insegna umiltà e apprezzamento per quanto si ha e spesso si dà per scontato. Al ritorno, un addestramento di mesi in vista dell’Iraq. Per sentirsi dire, all’ultimo, che non sarebbe partito. Come prepararsi per la finale e scoprire mentre si entra in campo che si resterà in panchina. Ma la svolta che cambierà ancora – e radicalmente – la sua vita arriva l’undici febbraio del 2009.

Baia di Sydney, un’immersione di routine, come tante. Finchè un grande occhio nero lo fissa da vicino. Troppo vicino. Uno squalo. Un urto violento. Non c’è dolore. L’addestramento militare subentra istintivo. Colpirlo a pugni sul muso. Ma la muta finisce all’altezza dell’avambraccio destro. Mentre la bestia strattona e trascina sotto, nel suo elemento, in un impari gioco di vita e di morte. Una rapida riemersione, una furente boccata d’ossigeno, e poi di nuovo in balia del pescecane. Un pensiero: è finita. Game over. Ma non è così. Liberato dalla morsa dei denti laceranti, ora occorre portarsi in salvo. Adrenalina a mille. La più lunga nuotata della vita, con la sola parte sinistra del corpo, verso il canotto dove i commilitoni lo soccorreranno. Issato a bordo. Una preoccupante sfilza di improperi del collega gli fanno capire che la situazione è grave, molto grave. Finalmente, sdraiato sull’assito della barca, sviene. Mentre l’amico – che dirà, poi, non lo rifarò mai più in vita mia – gli infila la mano nelle carni aperte della coscia, afferrando e stringendo le arterie recise per fermare l’imponente emorragia. Senza quello, Paul, davvero game over.

Quattro dosi di morfina, sull’ambulanza che corre verso l’ospedale, annullano ogni sensazione. Ma gli danno una terribile crisi respiratoria – manca perfino la forza per riempire i polmoni d’aria. Per la seconda volta il pensiero game over affiora alla mente sconvolta. Ma l’istinto di sopravvivenza vince ancora. Niente panico. Conserva l’energia, o è finita.

Due giorni di coma indotto, il risveglio. La prima visione è confortante. La gamba destra. Gonfia, martoriata, fasciata. Ma il piede è ancora lì. Sembra morto, non lo sente, ma vede che c’è. Bene. Pazienza per la mano, ma almeno tornerò a camminare.

Una settimana dall’assalto dello squalo. Il dottore affronta – serenamente ma obiettivamente – un soldato addestrato a confrontarsi con rischi e pericoli. Anche mortali. Paul, sarò chiaro: il morso ti ha portato via buona parte del polpaccio, e venti centimetri di nervo sciatico. Ora hai due scelte. Tentare di ricostruire il possibile, per alimentare un brandello di gamba privo di vita ed evitare la cancrena. O tagliare. Sotto il femore, via tutto. In dodici mesi, con una protesi, camminerai di nuovo.

La vita è fatta di scelte. Talvolta difficili. Paul vuole vivere, non sopravvivere. E sceglie la seconda.

Il risveglio è il momento più terribile. Altro che la lotta con la bestia. Altro che la nuotata monca verso la salvezza. Altro che la crisi respiratoria in ambulanza. Venti ore di dolore continuo, lancinante, disumano. Insopportabile. L’unico punto, del suo tragitto di sofferenza, in cui Paul avrebbe preferito che lo squalo lo avesse ucciso. In quelle ore disperate arriva a dire alla madre che lo assiste: vammi a comprare una pistola che mi sparo.

Ma anche il più intollerabile dei dolori alla fine recede. Lucido e determinato come sempre, Paul sa di essere davanti ad un’altra delle scelte che questo evento estremo comporta: come affrontare la menomazione. Eccolo qui, in un letto d’ospedale: un uomo senza avambraccio e gamba destri. Essere triste, commiserarsi per la sfortuna, rimpiangere ciò che ha perso per sempre? O reagire, affrontare la vita col coltello fra i denti, accettare e vincere le nuove sfide? Paul è un soldato coraggioso: facile intuire cosa farà.


Continua domani, con la seconda parte.

domenica 24 giugno 2012

Che gelida manina...

Puccini è sempre stato il mio autore operistico favorito. Sarà la conterraneità. Sarà il fatto che quando gli altri liceali andavano a vedere concerti rock, io frequentavo le matinée al Regio di Torino. Tosca è indubitabilmente l’opera che prediligo, specie se gustata nella fatata atmosfera del teatro all’aperto di Torre del Lago, che ti fa sopportare anche l’inevitabile umidità delle serate estive e le zanzare che pasteggiano col mio dolce sangue.

Il Maestro torna a casa, recita la locandina che pubblicizza l’apertura del museo-casa natale di Puccini a Lucca. Ma è in giro per il mondo che si scopre quanto, a distanza di un secolo, le sue melodie siano ancora un irresistibile richiamo commerciale. In particolare una: la Bohème.


Eccoci a Tokyo, in pieno centro. La mia istintiva ritrosia ad usufruire di ristoranti italiani all’estero mi ha impedito di approfondire il discorso, di cercar di capire cosa spinga un nipponico a battezzare il suo locale, tra tante possibili soluzioni, proprio con il titolo di un’opera del Maestro lucchese. E soprattutto ad affidare il tutto alla fantasia di un architetto che, nel tentativo di riprodurre l’Art Nouveau dell’epoca, ha trasformato la facciata in un’inquetante imitazione dell’Urlo di Munch...



Ma chi si è superato è un produttore di vini australiani. Tre atti, tre bottiglie. Un crescendo – questa volta pucciniano, non rossiniano – di gusti, da accompagnare con la storia di Lucia, detta Mimì.


Come ci ricorda, o amata aria di casa, la Boutique dell’Opera annessa alla Scala di Milano. La citazione dalla Bohème è in testa – un caso? – al pout-purri di brani famosi. Ehh, Puccini è sempre Puccini.







martedì 22 maggio 2012

L’uomo non è di legno

Se proprio la necessità lo impone, ogni tanto, seppur a malincuore, ricorro anche a dei ristoranti italiani all’estero. Per esempio quando non ho voglia di mangiare finto cinese, o finto tailandese, o finto vietnamita, come spesso capita in Australia. Purtroppo, con le ondate migratorie recenti, la terra di Down Under è piena di trattorie che sono diventati indecorosi miscugli, dove alla zia Pina, vecchia padrona sempre vestita di nero di una generazione fa, sono subentrati dei cinesi, oppure dei libanesi, che si mimetizzano meglio, da mediterranei dell’altra sponda, agli occhi non esperti di turisti e autoctoni, pur mantenendo le pretese di originale italianità del locale.

Insomma, non sempre qualità del cibo e redazione del menu vanno indenni dal passaggio di mano. Generando talvolta delle inesattezze, tanto involontarie quanto clamorosamente spassose. Come questa.


E ora chi glielo va a spiegare alla mia contabilità che in realtà la prima voce dello scontrino era un’innocentissima pasta alla puttanesca? Per fortuna c’è la tariffa, pardon, il prezzo, che taglia la testa al toro. Con l’inflazione galoppante di oggi, con quindici miseri dollari australiani una professionista dell’amore prezzolato credo non risponda nemmeno al campanello. Figuriamoci se ti fa pure la ricevuta.



sabato 19 maggio 2012

Il primo bacio

Non si scorda mai? No: è quello del padre della sposa all’appena acquisito genero. Gesto di benvenuto in famiglia suffragato da una suocera finalmente rilassata e una dolce metà che più raggiante non si può.

Auguri a questa coppia di sconosciuti sposini, sorpresi oggi pomeriggio in un momento di estatica felicità, appena fuori dalla Cattedrale di Santa Maria di Sydney.





lunedì 14 maggio 2012

Prosit

Amici cultori della degustazione di un buon bicchiere di vino a tavola: preparatevi al peggio. Ho visto cose – dell’altra parte del mondo – che voi umani non potete immaginare. L’Australia sembra terra di sperimentazione. E puntualmente, dopo qualche tempo, la stessa viene esportata verso la vecchia Europa, Italia compresa.

Molti anni fa scoprii con sorpresa i tappi di silicone sul collo di alcuni buoni vini australiani, bianchi ma anche rossi. Non passò molto e, con varie farisaiche spiegazioni, tipo il sughero è sempre più raro, oppure che vuoi che sia, in fondo i bianchi son di pronta beva, anzi, pensa che bello, niente più bottiglie che san di tappo da mandare indietro sotto gli sguardi truci di camerieri a percentuale, ecco presentarsi puntuali i tappi di silicone sui nostri vini. Passi per la pronta beva: ma ogni tanto ci vuole la forza d’Ercole per stapparli, e hai sempre paura di spaccare il bordo della bottiglia o di troncarci dentro il cavatappi, mentre tiri disperato il riottoso turacciolo plastico, avvinghiato al vetro come piovra inamovibile.

In tempi più recenti ho notato con orrore che dei rossi anche di pregio, corposi Shiraz e profumati Cabernet Sauvignon delle calde e generose vallate sud-australiane venivano sigillati da... tappi a vite. Sì. Davvero. Di metallo, proprio come quelli che si usavano sulle bottiglie di vermouth tanti anni fa, quando non era stato ancora inventato quel sistema a labirinto con la pallina, contro gli abusivi rabbocchi di sottomarche in recipienti con etichette di pregio. Ora delle voci del settore (ho amici e colleghi che si occupano di macchinari per stampare le bottiglie di vetro) mi dicono che anche da noi si comincia a parlare di colli con il filetto. Ahimè. Vi garantisco che ordinare al cameriere un Barbaresco d’annata e vederselo stappare come fosse una gazzosa non fa un bell’effetto. Ma che volete farci? Sono un nostalgico, e apprezzo ancora quando il sommelier mi offre il sughero da annusare, a comprova della bontà del rubicondo contenuto.

Oggi ho avuto un’anticipazione di un presumibile squallido futuro. Già temo che, come tutte le trovate che fanno guadagnare qualche soldo in più, magari per il discutibile effetto novità, prima o poi sugli scaffali dei nostri supermercati debutterà questo nuovo modo di servire il vino. Manco fosse un integratore per maratoneti in carenza di sali. I giovani, anime facilmente influenzabili dalle pubblicità più cretine, abboccheranno a frotte. È la moda, baby.

Prosit.


martedì 10 aprile 2012

Overkill

Viaggiare in Italia con un australiano è fonte inesauribile di divertimento. Non perché siano tutti dei comici naturali, ma per la schiettezza e la stuporosa ingenuità con cui ti fanno notare cose che a noi ormai scivolano addosso come acqua tra le dita.

Ecco uno spettacolare esempio accaduto giusto stamattina. Carabinieri su una rotonda, paletta fuori. Rapido esame di coscienza. Cinture a posto, fari accesi, velocità ben dentro i limiti cittadini. Può solo essere un banale controllo di routine. Esco dalla vettura e, su richiesta, porgo la patente e il libretto. Uno si rigira tra le mani la mia ormai quasi improponibile patente, pietosamente tenuta insieme da una foderina plasticata che si apre a fisarmonica. L’altro fa qualche acrobazia per dipanare il libretto e verificarne l’aggiornamento. Tutto a posto, grazie, vada pure. Buona giornata. Se non cordiali, perlomeno molto cortesi. Raro, ma può capitare.

Risalgo in macchina ed il mio ospite mi guarda sconcertato e mi domanda: cosa volevano? Solo controllare patente e libretto, niente di più. Scoppia in una risata fragorosa ed esclama: fucking ridiculous! Cosa è fottutamente ridicolo?, gli chiedo. Che cosa?!? Ma è normale qui da voi che uno che vuole semplicemente controllarti la patente ed il libretto della macchina lo faccia con addosso il giubbotto antiproiettile, imbracciando qualcosa che assomiglia ad un mitragliatore Uzi, e per di più tenendo per tutto il tempo il dito sul grilletto? Non so se lo hai notato, ma muovendosi in qua e in là ti ha puntato un paio di volte la bocca da fuoco verso la pancia da un metro di distanza.

È vero. Non è proprio per niente normale. Ma noi ci siamo purtroppo assuefatti alla normalità dell’anormalità. Non ci facciamo nemmeno più caso. Basterebbe uno starnuto, parte una raffica e tanti saluti.

Mi chiede ancora, ma di che cosa hanno paura? Terroristi? Delinquenti? Forse. O forse, mi dice, è solo l’abitudine a mostrare i muscoli, ad esibire l’armamentario. Gli australiani non hanno un grosso amore per l’autorità. Deve essere un retaggio ancestrale, visto che due secoli fa la loro terra era la colonia penale del Regno Unito, e i trisnonni facevano i galeotti. Gli deve essere rimasta nel DNA qualche istintiva goccia di avversione nei confronti della forza pubblica. A guardie e ladri fanno sempre fatica a trovare chi vuole fare la guardia. Uno dei più celebrati eroi nazionali è un fuorilegge ottocentesco, Ned Kelly, giustiziato per impiccagione a venticinque anni. Una specie di Robin Hood moderno, difensore dei coloni australiani contro la cialtroneria dei giannizzeri inglesi e irlandesi.

Anche in Australia ti fermano per strada. Eccome. Anzi, con molta più frequenza e rigore che da noi. Ti fermano per controllare se hai bevuto. E se lo hai fatto, te ne fanno pentire. Amaramente. Ti fermano, e ti tartassano, per quattro chilometri in più oltre il limite di velocità. Quelli della Roads and Traffic Authority ti possono anche fermare per appurare se la tua macchina è a posto con le emissioni di gas. Se guidi un vecchio scatanfrone che fuma come una ciminiera, ti multano, sequestrano il libretto e te lo rendono solo dopo che dimostri di averla portata in officina, e che ora emette scarichi lindi e tersi come aria di montagna.

I poliziotti che eseguono controlli, sia nei posti di blocco, sia di pattuglia in macchina, è logico che non siano disarmati. Ma non sono bardati da guerra come i nostri carabinieri. Al massimo una pistola, che se ne sta placidamente riposta nella fondina. E se ci fosse il caso di tirarla fuori, mai con l’indice sul grilletto.

Con un’ultima sonora risata dedicata al buffo paese che temporaneamente lo ospita, descrive tutta questa sproporzionata esibizione di potenza di fuoco con una parola: overkill. Che si può liberamente tradurre con: che esagerazione. Come dargli torto?

Prima pubblicazione : 17 aprile 2008

mercoledì 21 marzo 2012

Un’Altra Dannata Acqua

Prima che tu chiami angosciato il dottore, o faccia i bagagli, dia un bacio alla mamma e ti arruoli nel Circo Viaggiante dei Mostri, ti possiamo garantire che non hai accidentalmente mangiato dei funghi sospetti.

Questa è davvero la nostra nuova bottiglia arrotondata. Sì, abbiamo messo su curve e perso peso, che va bene perché gli spigoli sono fuori moda e le rotondità invece sono in. Ciò significa usare il 40% in meno di plastica, e la notizia fa eccitare anche l’ambiente.

La nostra nuova bottiglia è sempre riempita con la stessa acqua pura di sorgente delle Alpi del Victoria, dove non ci sono nè veleni nè prodotti chimici. In sostanza, gli unici parassiti che troverete lassù stanno guidando dei caravan, indossano calzettoni al ginocchio e guardano perplessi le loro carte topografiche Melways del 1974 chiedendosi quale è la strada per Coffs Harbour.

Allora, mettete le mani sulle nostre curve e godetevi un’Altra Dannata Acqua.


Tutto questo è – testualmente – riportato sull’etichetta di una bottiglia di acqua, trovata in un qualsiasi negozio di Melbourne. Riuscite a immaginare un creativo italiano, seppur il più trasgressivo, che oserebbe mai mettere insieme un simile sproloquio politicamente scorrettissimo, per descrivere, anzi celebrare una mercanzia che qualche suo collega australiano ha avuto l’audacia di battezzare Un’Altra Dannata Acqua?

Per apprezzare meglio lo humour, giova ricordare che Coffs Harbour dista qualcosa come mille e cinquecento chilometri da Melbourne, e che parassiti non rende appieno il gioco di parole in inglese, perché “pests” significa sia insetti nocivi che scocciatori, rompiscatole.

Straordinari australiani. Senza timori e senza pudori. Pieni di ironia, sempre pronti a ridere di se stessi. Ecco perché li adoro.

lunedì 5 marzo 2012

Politically incorrect

Ogni nazione, ogni popolazione ha le sue vittime predestinate, nel creare barzellette o calembour che alludono alle non proprio esaltanti virtù intellettive di un certo gruppo, etnico o meno che sia. I francesi hanno i belgi. Gli svedesi hanno i norvegesi. Da noi si contano infinite storielle sui carabinieri che, bontà loro, in generale non si offendono (ricordo peraltro un amico, ex benemerita, che anche a distanza di anni dalla leva digrignava i denti tutte le volte che in compagnia qualcuno, ignaro dei suoi precedenti, faceva una battuta su di loro). Gli inglesi e – per estensione coloniale – gli australiani hanno gli irlandesi.

Un piccolo incidente, di quelli che ti aspetteresti in Italia ed invece, guarda un po’, accadono anche in Australia, nella civilissima Sydney. Parcheggiamo per un paio d’ore la macchina per andare a cena. Al ritorno, un vetro è sfondato, alla ricerca di qualcosa di valore da rubare. Errore. Mai lasciare in vista una borsa da lavoro. Anche se il computer è al sicuro a casa, c’è sempre qualcuno che si fa attrarre da quella promettente, seppure deludente, visione. E intanto il vetro te lo tieni in briciole.

Insomma, pezzetti di vetro dappertutto e nulla che manca. Visto che dentro non c’erano altro che inutilissime cartacce di lavoro, non hanno nemmeno fatto la fatica di portare via la borsa. Il giorno dopo, sabato, è vano sperare di trovare un volonteroso meccanico che ripari il danno. Ma il mio amico, in una crisi di infingardia, e complice anche il beltempo, non ci mette neppure un pezzo di cellophan, classico rimedio all’italiana alle spaccate. Così viaggiamo con un buco vistosamente aperto dove c’era il finestrino posteriore.


Arrivati al mercato del pesce, che il weekend pullula di turisti e per una vera fesseria ti danno dei piatti di ostriche fresche che ci senti ancora l’odore salmastro di un mare limpidissimo, ecco il capolavoro di humour. Gli domando: ti fidi a lasciare la macchina parcheggiata così? E lui, serio: sì. E se poi troviamo un altro vetro spaccato, perlomeno sappiamo che è stato un irlandese. Grandioso. Credo di avere riso, incontrollabilmente, per dieci minuti. Ho sempre detto che adoro lo humour inglese. Al suo meglio.


Prima pubblicazione : 24 giugno 2008

giovedì 12 gennaio 2012

Mafia S.p.A.

Stamani, aprendo la posta elettronica, trovo una mail da un amico australiano. Una parola nell’oggetto attrae immediatamente la mia attenzione. Una parola che non ti aspetteresti mai da qualcuno che ti scrive di solito per parlare di noiose questioni contabili, fatture, pagamenti, anticipi, dare e avere. Questa parola è Mafia, proprio così, con la emme maiuscola.

Ecco come ci descrive ai suoi lettori il giornalista Nick Squires, corrispondente a Roma di The Age, giornale numero uno di Melbourne. Un quadro impressionante, per le cifre enunciate e per la freddezza analitica con cui parla di un fenomeno in piena espansione e dalla salute ferrea, al contrario di tutto il resto d’Italia.


La mafia è la più grossa azienda italiana, con un giro d’affari di 140 miliardi di euro, stando ad un autorevole rapporto.

I quattro gruppi costituenti la mafia sono usciti dalle loro tradizionali roccaforti e si sono diffusi in tutto il paese, sfruttando la crisi economica per accaparrarsi aziende malridotte e beneficiare dalle attività di usura.

Hanno a disposizione un patrimonio di 65 miliardi di euro di cartamoneta e profitti annuali per 100 miliardi, pari al 7% del PIL italiano, secondo uno studio fatto dalla Confesercenti.

Il tipico mafioso non è più un delinquente con mitra in spalla, ma un furbo uomo d’affari con lo smartphone ed una sofisticata conoscenza della finanza. La Mafia SpA è la prima banca italiana, con una liquidità di 65 miliardi, dice il rapporto chiamato La morsa della criminalità sul business.

Con la crisi le banche sono riluttanti a concedere prestiti, e la mafia ne ha tratto vantaggio, quando i disperati bisognosi di finanziamenti si sono rivolti a strozzini che chiedono tassi di interesse da usura.

Marco Venturi, presidente di Confesercenti, dichiara che lo strozzinaggio portato dalla crisi economica è diventato un’emergenza nazionale. Dalle nostre stime, nel 2010 l’usura ha costretto a chiudere 1800 aziende, con la perdita di migliaia di posti di lavoro.

I proprietari di piccole aziende con margini di guadagno ristretti e basso cash flow sono i più vulnerabili: più di 200.000 sono stati vittime di usurai. Ma hanno anche subito estorsioni, quando non direttamente rapine – per una media di un crimine al minuto.

L’influenza della mafia non si fa solo sentire nelle città più tradizionalmente note per tale fenomeno, come Palermo e Napoli, ma anche sempre di più nel ricco nord.

La Conferercenti, portavoce di 270.000 aziende medio-piccole, ha dichiarato che il nuovo governo tecnico di Mario Monti deve aiutare le imprese “a riguadagnare il territorio occupato dalla Mafia”.

Ma sarà una battaglia difficile. Il crimine organizzato controlla tutto, dalle scommesse clandestine all’edilizia, fino allo smaltimento dei rifiuti sia industriali che urbani.


Non c’è davvero di che essere allegri. Che dire? Visto che ogni tanto qualcuno sembra dimenticarsi che la mafia esiste e prospera, o magari a qualcuno fa comodo che l’italiano medio creda alle favole, allora grazie a Nick per questo prezioso promemoria. Se no, per cosa sono morti Falcone, Borsellino e tutti gli altri uomini di legge e giudici ammazzati dalle lupare e dalle bombe di mafia?


mercoledì 4 gennaio 2012

Best. Pub ad. Ever.

Geniali: come si fa a non adorare gli australiani? Stagione estiva, temperature desertiche nel nord del Queensland. Dentro al pub c’è l’aria condizionata. Ma voi cosa scegliereste, dopo un invito del genere?

Fuori, 47°. Dentro, 26°. Birra, 0,2° - fate voi.