
Cara Saigon, come sei cambiata in due anni. La bolgia oscena di motorette arrembanti e rumorose è sempre la stessa. La disarmante cordialità dei tuoi abitanti anche. Ma molto ribolle nel tuo ventre inquieto ed affamato di crescita.

Sei cambiata. E di recente, molto in fretta. Proprio nel tuo centro basso e coloniale, non lontano dagli storici alberghi Rex e Continental, antiche costruzioni a due, massimo quattro piani, ricche di boiseries e dall’atmosfera ovattata da Indocina francese, sta sorgendo un arrogante siluro di ferro, cemento e vetro, con tanto di elisuperficie laterale, dal quale si sovrasterà il sinuoso e lento incedere del fiume Saigon, con le anse che disegnano la topografia della città. Nuovi colonizzatori: scritte in coreano costellano gli ultimi piani ancora da finire. Presto sarà completato, e offenderà per sempre la delicata armonia fatta di teatri barocchi, viali larghi e fioriti, case color ocra e vetrate art-decò.
Anche le persone si adattano al rapido sviluppo. Una nazione giovane e scalpitante attorno alle nascenti opportunità. Molti imprenditori sono a malapena trentenni. Un’azienda con cinque anni di storia è già un traguardo di cui vantarsi. Thong è il personaggio del giorno. Si racconta nello stentato inglese di chi ha imparato a masticarlo per necessità, non sui banchi di scuola. Voglia di rivincita, di arrivare, di dimostrare con la propria caparbia determinazione che non occorre la laurea per aver successo. I vecchi compagni di scuola, quelli più bravi, hanno cominciato ad apprezzarlo. Ha conosciuto la fame, Thong. Trent’anni o poco più, i ricordi sono vividi, i crampi allo stomaco ancora freschi. Parla delle condizioni miserabili (dice proprio così, miserable) in cui viveva la sua famiglia. Cresciuto in campagna, tutti lavoravano come somari senza saper bene per cosa. Se non per il diritto ad unirsi a quelle lunghe file pazienti, una volta al mese, per ricevere l’essenziale, in mano il libro che sanciva le razioni di riso e di vestiario – quando ce n’era, se no ci si accontentava di scampoli di stoffa e poi si confezionava a casa, la sera, dopo la giornata nei campi o nelle officine. Troppo recente la fame per averla già dimenticata. Troppo grande l’occasione offerta dall’apertura delle frontiere nel non lontano 1993. Fino ad allora non si usciva dal Vietnam. Né gli investimenti stranieri erano permessi. Tutto cambia. Ora Thong ha un’azienda sua e importa macchinari, parla anche cinese con la stessa esuberante approssimazione con cui si esprime in inglese, fuma sigarette costose dal pacchetto multicolore, ride di gusto e guida nel traffico orrendo una inutilmente spaziosa Honda. E non se la prende se l’occasionale motociclista lo tampona con un botto sordo di plastica deformata, vai vai sembra dire magnanimo, è stato a lungo un forzato dello scooter e sa quanto sia difficile divincolarsi in quel caos. Il tapino fa la faccia mortificata, chiede scusa con gli occhi di cane bastonato, forse teme che gli si chiedano dei soldi per il minimo danno al paraurti, ma Thong è gentile e tollerante, non ha dimenticato cosa vuol dire arrivare a fine mese avendo fame e nemmeno un soldo in tasca.
Per i mille Thong – e per molto altro ancora – continua a piacermi il Vietnam. Perché la gente non ha perso quella genuina dose di rispetto per gli altri. Perché tutti ti sorridono per strada, e senza necessariamente volerti vendere qualcosa. Perché mi sembra di essere tornato indietro nel tempo, e di rivivere la Cina di quindici anni fa. Anche se, cara Saigon, non mi parli più in francese come facevi un tempo. Anche se non trovo più il venditore ambulante che mi saluta la mattina presto, dicendomi bonjour monsieur e offrendomi l’Equipe. Sei meno coloniale e solo un pochino più puttana. Ma sei bella lo stesso, Saigon, o cara.

