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sabato 27 settembre 2014

Alla ricerca del metano


Sui giornali italiani fa notizia il ragazzo indiano che è stato ucciso da una tigre nello zoo di Delhi. Invece in India questo non merita che un trafiletto senza neppure una foto.

Il clamore mediatico è riservato a una sonda spaziale indiana che dopo circa trecento giorni di viaggio ha raggiunto Marte e si è correttamente posizionata in orbita attorno al Pianeta Rosso.

Quello straordinario uomo di marketing che è il nuovo Primo Ministro Modi, prima di saltare su un aereo e andare a trovare Obama, ha trovato il tempo per annunciare in diretta il successo della tecnologia aerospaziale indiana, congratulando il team di scienziati che hanno permesso questa impresa. La navicella spaziale si chiama Mars Orbiter Mission, in breve MOM. Qualche genio della battuta gli ha perfino messo in bocca uno slogan da fare invidia a Renzi: MOM doesn’t disappoint. Chi conosce l’inglese sa che potrebbe anche esser letto come, la mamma non delude mai. Sembra quasi di vederlo che strizza l’occhio mentre lo dice.


Al contrario delle poche altre nazioni che hanno già raggiunto Marte, ma solo dopo alcune prove fallite, gli indiani hanno fatto centro al primo colpo: altro motivo di orgoglio nazionale. I giornali raccontano delle altrui vicissitudini interplanetarie, come satelliti persi in fase di lancio o durante il lungo tragitto. Dopo tanto dispiego di tecnologia rasenta il comico che una sonda giapponese abbia fallito la missione... per un errato calcolo del carburante necessario, come una qualsiasi Panda dispersa sull'autostrada con la spia arancione accesa.

Finalmente qualcuno si degna perfino di spiegarci che cosa cavolo ci vanno a fare su Marte, visto che i marziani sono una fantasiosa invenzione utile solo per barzellette e scadenti film di fantascienza. Alla ricerca del metano. Ovviamente non come alternativa per riscaldare i nostri appartamenti in vista delle ripicche di Putin, perché sarebbe obiettivamente complicato costruire e soprattutto tirare una tubazione fin laggiù. Il metano come prova di esistenza, anche passata, di qualche forma di vita compatibile con quella terrestre, viste le similitudini dei due pianeti. Qualche scienziato già ipotizza che la vita possa essere iniziata su Marte, e che si sia fortuitamente trasferita sulla Terra alcuni miliardi di anni fa, magari trasportata da un meteorite che, come un enorme pallone impazzito calciato da un titano, ha battuto su Marte e poi, rimbalzando, è andato a impattare sulla nostra cara vecchia Terra, seminando violentemente il germe della vita.

Certi scienziati hanno più fantasia degli autori di Star Trek.




lunedì 2 giugno 2014

Viva la privacy

Proprio vero. Paese che vai, usanze che trovi. Da noi capita talvolta che chi viene sorpreso in attività illecite sia nominato con le sole iniziali (e non è necessariamente un minore) oppure addirittura in forma anonima. Un ladro si è introdotto nella cascina ... S.G. è stato sorpreso a forzare la serranda di ...

Nell’aeroporto di Delhi troneggia il ritratto impettito e severo di Vijai Tiwari. Se fossimo in un albergo lo chiameremmo l’impiegato del mese. Ma Vijai appartiene al corpo paramilitare dei CISF, che si occupano di sicurezza aeroportuale.

Con abbondanza encomiastica di dettagli, il manifesto spiega che lo scaltro ufficiale ha scovato, meglio di un cane antidroga, la bellezza di dodici chili di sostanze proibite (anche se il principio attivo lo si trova perfino nei banali decongestionanti nasali) nella borsetta di una passeggera, menzionata con tanto di nome e cognome, paese d’origine e destinazione del suo volo. Manca solo di sapere se è libera e le misure di seno, vita e fianchi, come per le pin-up.

Cara Mjoli: non ti è passato per la testa che le borse devono passare allo scanner, con qualcuno pagato per stare lì tutto il giorno davanti a un monitor a ficcanasare ai raggi ics nelle scarselle della gente? E poi: dodici chili di pasticche? In una borsetta a mano? Avevi paura che ti facessero pagare il supplemento peso bagaglio, a metterle nella valigia da stiva?

Mah. Il prode Vijai avrà avuto anche buon fiuto. Ma non credo ci volesse Sherlock Holmes per beccare una corriera della droga così sprovveduta.




venerdì 30 maggio 2014

Gli uccelli


Sensazioni hitchcockiane. Un uomo mi vede fotografare una piccola e ben addestrata pattuglia di corvi che ha scelto l'interno dell'aeroporto di Amritsar come nido. That's India for you, mate, mi dice ridendo. Lo credo australiano, anche dall'accento, invece è inglese - ma di chiare origini locali.

Indisturbati, gli uccelli proseguono la loro esibizione acrobatica, volteggiando tra i passeggeri in coda per l'imbarco e infine atterrando leggiadramente sugli schienali delle poltroncine alla ricerca di briciole di colazioni consumate frettolosamente prima del decollo.

Un festoso cra-cra di ringraziamento accomiata i generosi umani che hanno lasciato un tangibile dono ai neri padroni di casa. That's India for you, mate!






venerdì 23 maggio 2014

Concetti e sostanza


Casa. Tempio religioso. Concetti universali, ma mai così distanti.


Casa, Emirati Arabi Uniti (Burj Khalifa, 828 metri, Dubai).


Tempio religioso, Emirati Arabi Uniti (Grande Moschea Sheikh Zayed, Abu Dhabi).


Casa e tempio religioso, Mumbai, India (la casa è quella sulla destra e ci vivono davvero degli esseri umani).




mercoledì 21 maggio 2014

Rodeo drive


Non siamo a Los Angeles ma in India. Così si viaggia, a cavalcioni di un fascio di tondini di ferro, su un camion in marcia sull'autostrada da Mumbai a Pune.


Servono altre parole?




lunedì 19 maggio 2014

Ritorno al passato


Come descrivere l'esperienza di un viaggio in autostrada in India? Benvenuti in Cina, vent'anni fa. Gli stessi antichi camion, stracarichi e affannati, ma lignei e sgargianti di colori come carretti siciliani. La stessa totale, anarchica, quasi gioiosa mancanza di regole. Lo stesso strombazzare a distesa, urgente e ammonitore, ad avvisare il mondo in movimento del proprio arrivo. Le stesse derelitte auto fumose di vapore dal cofano sbadigliante, arresesi sui tornanti come ciclisti scoppiati. Gli stessi pazienti ingorghi da incidente. Gli stessi panorami polverosi e ancora selvatici. Gli stessi pullman a lunga percorrenza, con le cuccette dove la gente dorme sdraiata sui dei tavolacci di legno, per aria condizionata i finestrini scorrevoli aperti. Gli stessi occasionali motocicli contromano a cui nessuno pare far caso, men che meno meravigliarsene.

Tutto come allora nel Regno di Mezzo. Dicono che l'India diventerà la prossima Cina? Fatte le proporzioni con il traffico, ci vorranno almeno vent'anni. E non è detto che basti.





sabato 17 maggio 2014

Un miliardo di voti

Narendra Modi. Ricordatevi questo nome. Perchè ne sentiremo parlare parecchio d'ora in avanti. Con una valanga di consensi ha spazzato via la vecchia coalizione del congresso e conquistato il potere assoluto in India. Potrà legiferare senza bisogno di metter d'accordo i tanti, troppi partitini che prima potevano influenzare o bloccare qualsiasi azione legislativa.

Mi basteranno dieci anni per cambiare l'India, questa la sua prima dichiarazione programmatica. E non scherza. Quando era ministro del Gujarat ha risolto con le maniere forti il conflitto interreligioso tra indú e mussulmani. Duro ma efficace. Questo gli era valso il farsi negare il visto per entrare negli Stati Uniti, con l’accusa di violazione dei diritti umani (senti chi parla). Oggi Obama, visto il travolgente successo elettorale, si è affrettato ad invitarlo a Washington. Vedi come improvvisamente cambiano gli atteggiamenti quando si diventa potenti.

Il quieto e poco propenso ai bagni di folla Primo Ministro uscente, Manmohan Singh, esce di scena pronunciando il discorso di commiato. La dinastia dei Ghandi rischia di non avere nemmeno un rappresentante nel governo.

A Mumbai sono magicamente già comparsi i manifesti di ringraziamento al popolo per la plebiscitaria vittoria ottenuta dal suo partito, il BJP.

La democrazia più grande della Terra ha scelto il suo nuovo capo. Non è uno che prende le cose alla leggera. Il mondo è avvertito.




venerdì 6 gennaio 2012

Medioevo? Oggi!

Una micidiale miscela di ignoranza, superstizioni e mancanza di valori morali.

Merce di scambio. Un padre venticinquenne dell’Andhra Pradesh (India) ha sottratto il figlio di quattro mesi alla madre ed ha cercato di venderlo per 300 rupie (meno di 5 euro) per pagarsi il vizio del bere. La polizia, messa in allarme dalla donna, si è presentata sul luogo del vile commercio. Il compratore e l’indegno padre sono scappati, abbandonando la creatura che è stata così restituita alle cure materne. I due rimangono latitanti.

Indifferenza punita. Un uomo cinese ha ignorato (come troppo spesso accade laggiù per una qualsiasi disgrazia in corso) le urla di richiesta di soccorso da parte di un bambino di sei anni in procinto di affogare, ed ha proseguito il suo cammino come se nulla fosse.

Doppiamente indegno. Perché il bimbo, che è poi annegato, è risultato essere suo figlio.

Invece di flagellarsi per la sua criminale ignavia, l’infame individuo ha pensato bene di sfruttare la situazione, citando in giudizio il locale comitato (si suppone per la mancanza di protezioni che impedissero al figliolo di cadere in acqua) e chiedendo una compensazione di quasi sessantamila euro (che sono una cifra piuttosto ragguardevole in buona parte della Cina).

Il tribunale ha respinto la sua richiesta. Dovrebbe esistere una legge – da noi si chiama omissione di soccorso – che punisce fatti del genere. Invece pare ci si debba accontentare che questo ignobile essere umano non sia stato premiato con un cospicuo gruzzolo, ottenibile tramite lo sfruttamento della morte del proprio figlio. Occorrono altri commenti?

La prova della purezza. Una donna di 37 anni di un villaggio dell’Andhra Pradesh (ancora lì...) è stata accusata dal marito di essergli stata infedele. Invece di risolvere la cosa parlandone, o eventualmente andando in tribunale, la soluzione della spinosa questione è stata lasciata al locale consiglio degli anziani. Il quale ha deciso che la supposta fedifraga, per provare la propria fedeltà al marito, doveva sottoporsi ad una prova tradizionale (la cui accuratezza è scientificamente convalidata da secoli di caccia alle streghe): immergere le mani in acqua bollente.

Ora la sposa – con gravi ustioni alle mani – ha superato il test, ed il marito può finalmente dormire sonni tranquilli: non è cornuto. Il vecchi bacucchi che hanno ordinato questa criminale imbecillata si sono giustificati affermando che questo è un rituale tipico, comune nella loro casta.

Sacrifici umani. Due uomini sono stati arrestati nell’India centrale, in relazione all’uccisione di una bambina di sette anni. Il suo corpo, privato di alcuni organi interni, è stato trovato ad una settimana dalla sua scomparsa.

La polizia ha finalmente messo le mani sugli assassini, rei confessi. I due, poveri agricoltori ignoranti, hanno ammesso di aver rapito una bambina a caso, sacrificandola ai loro dei per ottenere dei raccolti migliori.

Tutto questo senza neppure la scusa di esser stati ispirati dal film Apocalypto.


Che ci crediate o meno, queste notizie non sono tratte da qualche arcaica leggenda tramandata oralmente fino ai giorni nostri. Sono fatti riportati dalle cronache degli ultimi sei giorni. Siamo nel 2012, ma gli ultimi seicento anni – in certi posti del mondo – sono trascorsi invano. Bentornati nel medioevo.


sabato 26 novembre 2011

26-11

Ricordando, con un racconto scritto in India ad una settimana dal fatto, le oltre 150 vittime dell'odio terrorista, a tre anni dalla strage di Mumbai.

Il numero undici sembra un infausto denominatore comune delle stragi terroristiche. Anche l’India ha adottato la via più breve per parlare dei fatti di Mumbai. Come l’undici settembre americano, la stampa locale titola compatta a quattro cifre: 26-11.

Ma che cosa è il terrorismo? Il terrorismo è uno stato d’animo. Capisci che hanno centrato l’obiettivo quando arrivi in albergo, ti guardi intorno e ti chiedi per prima cosa come si scappa da lì, e vuoi una camera ad un piano da cui puoi ancora saltar di sotto senza spetasciarti sull’asfalto come una pesca marcia. Capisci che hanno vinto quando guardi male per strada il tipo che ti approccia, e che voleva essere solo gentile ed aiutare un buffo straniero vestito in giacca e cravatta, geneticamente impreparato ad affrontare l’attraversamento di un viale di Delhi senza rischiare la vita quanto un ostaggio di albergo a Mumbai. Sai che i bastardi magari sono morti ma hanno compiuto con successo la loro infame missione, quando un ragazzo con lo zaino che ti passa accanto non ti ispira simpatia ma ti fa scorrere brividi gelati lungo la schiena.

Gli stranieri – nello specifico, un gruppo di italiani – hanno due tipi di atteggiamento. Spavaldo alla cosa vuoi che ci succeda, siamo italiani, mica americani. Oppure preoccupato e teso tutto il tempo, in parte a causa di un bombardamento altrettanto snervante, ma stavolta da casa. Grazie, tigi e carta stampata. Ci rendete un bel servigio. Un’italiano si lamenta, mia moglie ascolta le notizie e mi rompe i corbelli ogni tre ore, come stai, tutto bene, ma sei sicuro che sia sicuro?

L’altra notte all’aeroporto di Delhi da una macchina sono stati esplosi due colpi d’arma da fuoco. Prima che l’elefantesco ed impreparato apparato militare, riparato da sacchi di sabbia piu’ adatti a contenere una piena del fiume che a proteggere da pallottole di fucili automatici, si mettesse in moto e tentasse un inseguimento, la vettura era scomparsa nella bolgia del traffico locale. In Italia si e’ letto di sei persone coinvolte nella sparatoria, di terrore in aeroporto, di seconda strage mancata. Nessuno si e’ fatto un graffio – per fortuna. Quanti morti ci sono stati ieri sulle strade italiane? Più equilibrio e meno sensazionalismo, per favore. Facciamo le proporzioni e verifichiamo le fonti, prima di sgomentare chi ha un parente che vive – o ci si trova solo per qualche giorno – in India.

La vita continua, senza apparenti intoppi o sospensioni del fare quotidiano. I giovani frequentano in massa ritrovi dai quali sbuca musica a pieno volume, facendo immaginare serate spensierate ed allegria danzerina. Escono poi tutti insieme da queste discoteche alla buona, senza il problema di dover guidare dopo aver bevuto un goccio di troppo. Si riversano in strada e danno l’assalto a degli autobus senza portiere, che sporadicamente si palesano nel rado traffico notturno. Sono allenatissimi a salire al volo, agili come gazzelle, mentre il mezzo è ancora ben in corsa. Ma perché non aspettano che si fermi, mi interrogo ingenuamente. Semplice. Quando il bus è finalmente fermo, non solo è già strabuzzante di gente, ma due o tre ragazzi pencolano avventurosamente di fuori, abbarbicati solo con mani e piedi a mancorrenti e pedana. Robe da trapezisti circensi. La legge del più lesto. Chi non osa – e non imbarca al volo – non trova più posto e va a piedi.

Nella sera tiepida e umida si epifanizza improvvisa una piccola parata di gente in costumi che sembran tratti da un film sull’impero coloniale inglese. È una rumorosa banda musicale, seguita da una folla versicolore che danza e si sfrena per strada. Notati gli sguardi incuriositi di noi italiani, subito il nostro anfitrione spiega: è un matrimonio. Bello. Il ritmo delle percussioni via via che il calore cresce assume connotazioni carioca. I tamburi battono ritmi ossessivi, i pepli di mille sgargianti tonalità, che fasciano le donne fino ai piedi, svolazzano attorno come pavoni ubriachi. Sembra un piccolo carnevale di Rio fuori stagione ed in trasferta in India. Chiude il corteo un cavaliere con tanto di ombrello cerimoniale, in coppia con una prepubere e bellissima damigella, entrambi a malapena sopportati da un mesto ronzino bianco, ingualdrappato come un elefante dei tempi dei maragià. La celebrazione si conclude, alla faccia del subdolo terrorismo venuto da oltre confine, con l’allegra esplosione di una salva di fuochi d’artificio, che tingono di rosso e di verde il cielo aranciato dai riverberi della capitale, e stordiscono le orecchie con le loro deflagrazioni troppo vicine.
Una pioggia di scintille odorose di salnitro ed è tutto finito. I musici si avviano alla caccia di un autorisciò – geniale definizione degli apini, ubiquitari e popolari taxi a tre ruote da ceto meno abbiente – libero, da inzeppare di tamburi, tromboni ed esseri umani emaciati.

Il ventisei undici promette una stagione fruttifera per la stampa indiana. Pagine e pagine riempite di ipotesi, cure, opinioni le più varie, teorie di complotti e dita puntate verso questo e quello. Pezzi grossi della politica si dimettono (a proposito: qualcuno ricorda un ministro italiano che abbia fatto altrettanto, da piazza Fontana fino a Ustica?), la Rice si è subito fiondata sia a Delhi che in Pakistan a dire ragazzi piantatela un po’ di fare casino che abbiamo già i cavoli nostri da risolvere in Iraq e Afghanistan, poliziotti e militari si lamentano pubblicamente di essere stati mandati a morire, affrontando dei terroristi ben addestrati e dotati di armi automatiche, con dei moschetti utili solo per il museo dell’artiglieria, con una preparazione ai limiti del ridicolo ed un coordinamento pari a zero. Un poliziotto all’inizio della carriera guadagna meno di 50 euro al mese, al poligono non va perché i proiettili costano, viaggia su vetture coeve e perfino assomiglianti alla millecento Fiat degli anni sessanta. Nemmeno Rambo avrebbe avuto una chance. Figuriamoci della gente con l’uniforme sdrucita, scarpe da ginnastica da quattro soldi ai piedi e nella fondina una colt che sembra quella di Buffalo Bill.

La popolazione osserva il balletto delle accuse e delle responsabilità dei soloni del giorno dopo, quelli che sono capaci di sentenziare e offrire consigli non richiesti su cosa si sarebbe dovuto fare, a cose fatte. Ma la gente manifesta soprattutto il suo bisogno primario: continuare a vivere, mettersi dietro le spalle anche questa ennesima tragedia – molto somigliante alla nostrana strategia della tensione, seppur con quantità di attentati e numero di morti ben superiore alla orribile stagione italiana – le cui origini e motivazioni provengono dal mai risolto conflitto tra India e Pakistan per il possesso della contesa provincia del Kashmir. Guarda un po’ cosa si arriva a fare per due golfini.


Prima pubblicazione : 6 dicembre 2008

sabato 9 luglio 2011

… ed altri mezzi…

Rassegna semiseria di mezzi di trasporto indiani.

Multitasking

Viaggiare seduti di sghimbescio su una vecchia vespa. Rispettare i propri canoni religiosi indossando il turbante, e nel frattempo infischiandosene della sicurezza stradale. Guidare con una mano mentre con l’altra si telefona. Si può. A Delhi. Ecco la prova.


Eguaglianza religiosa

Allora perché i Sikh possono andare in giro in motoretta con il turbante al posto del casco, e noi mussulmani dovremmo costringere le nostre donne a complicate evoluzioni per calzare l’elmetto sopra il velo? Non sia mai detto. Libertà di espressione religiosa per tutti. Donne islamiche: tranquille. Siete autorizzate a viaggiare senza casco. Tanto a cosa serve, sulla motocicletta?

Sport estremi

Ma secondo voi il tizio spenzolante fuori dall’autobus come un windsurfista in allenamento sul lago di Garda in un giorno ventoso lo paga davvero il biglietto?

Apino cabriolet

Inutile soffermarsi sulla peraltro comune condizione miseranda della carrozzeria, dei molteplici strati di vernice versicolore artisticamente alternati a sana ruggine, del telone protettivo merci e del tettuccio a telino con tanto di classico sette in stile vecchia cinquecento. Ma una menzione speciale la meritano il supersicuro sistema di fissaggio della batteria (a vista), nonché l’inquietante intreccio di fili che pende sotto la scocca, passando vicino alla ruota prodiera e toccando quasi terra proprio davanti ad essa. Un miracolo che l’anziano e ansimante trabiccolo vada ancora avanti senza distruggersi per autocombustione.

Sorridi: sei su candid camera

Come certe barzellette sulla Settimana Enigmistica: senza parole.

venerdì 8 luglio 2011

Auto blu


Per essere un’auto, è un’auto. Blu è indubbiamente blu: chiaro, ma blu. Quanti dei nostri politici, amministratori, dirigenti che godono di tale privilegio accetterebbero di essere scarrozzati su un tale cimelio vivente (peraltro in grandissimo spolvero)?

Ad ognuno le auto blu che si merita. Qui siamo in India, all’aeroporto di Bangalore. E attenzione: non che sul mercato non si trovino Mercedes, Biemmevu, Audi e perfino Bentley e Rolls. Ma per i funzionari degli enti pubblici si usano ancora le vetuste ma affascinanti Ambassador, dai corruschi paraurti cromati e addirittura con i deflettori al posto della venefica aria condizionata. Che in India siano più civili – e democratici – di noi?

sabato 2 luglio 2011

Uno per tutti

Due passi in una sera pioviginosa in centro a Bangalore, dove il buio cela pietoso le miserie ma anche assassino tende trappole ai pedoni costretti ad arrancare in marciapiedi dissestati al punto che è un eufemismo chiamarli tali.

C’è un cane accucciato contro un muretto. Gli occhi si sollevano per un attimo. Incrociamo uno sguardo. Avessi saputo come fare lo avrei portato con me. Aveva un’espressione indescrivibile: un misto di quieta pazienza, di fatica profonda, eppure di illogica fiducia in un mondo ingeneroso.

Dedicato ai milioni di randagi che ho visto in giro per l’Asia in quasi vent’anni di frequentazioni. Uno per tutti. Un’immagine che ho – ancora una volta – esitato a rubare. Alla fine ho deciso, dal cuore commosso: ecco questo anonimo, universale cane.


E con essa, un racconto inedito scritto nel lontano 1995, in Tailandia. In tutti questi anni non è cambiato nulla. Sono – e saranno – sempre così.

Cani, cani ovunque, tutti imparentati fra di loro e dunque rassomiglianti. Omologamente scarni: qui di ciccia ce n’è poca anche per gli umani, figuriamoci cosa resta ai cani. Hanno lo sguardo altero ma non cattivo, come rassegnati da atavica sofferenza a vivere di stenti. Poi, osservandoli bene, ti accorgi che lo sguardo non è perso nel vuoto. Scruta distante, attento a scoprire qualcosa da mangiare, come se già sapessero di non poterne trovare vicino. Cani.

domenica 3 aprile 2011

Orgoglio indiano

La democrazia più grande della Terra ha vinto. Campioni del Mondo. Di che cosa, si chiederà chi non ha letto i miei recentissimi racconti. Ieri nello stadio Wankhede di Mumbai l’India ha battuto lo Sri Lanka nella finale del torneo più importante disputato tra le ex colonie del passato impero britannico: il Campionato Mondiale di Cricket. Con un percorso quasi perfetto, battendo l’Australia ai quarti ed il Pakistan in semifinale, l’India si è presentata all’appuntamento con la storia pronta a cogliere l’occasione, perfino favorita dal fattore campo. E non l’ha mancata.

Sachin Tendulkar, icona del cricket indiano e miglior battitore in attività, si congeda a 37 anni con il titolo più ambito: campione del mondo. L’orgoglio nazionale è alle stelle. Un miliardo di indiani oggi sta festeggiando, dimenticando per un giorno l’assurda forbice tra poveri e ricchi, le tensioni interreligiose, le immutabili separazioni tra le caste, i palazzi fiabeschi da un miliardo di dollari e le catapecchie di cartone e lamiera. Da domani si torna alla normalità dell’anormalità.

martedì 29 marzo 2011

I miserabili

Dormire sotto un ponte. Non è una faceta iperbole. È la realtà di tanti senzatetto in una Mumbai caotica e ribollente di umanità. Ogni giorno passo davanti ad una piccola tribù che ha preso residenza sotto un poderoso viadotto, e qui conduce la sua gramissima esistenza. Nel pomeriggio caldo ed inquinato di traffico rumoroso e puzzolente, un uomo dorme buttato per terra. Accanto a lui uno smilzo ma vigile cane sembra proteggerlo dal caos indifferente che gli scorre attorno. Alcune donne, assorbite nelle desolanti incombenze quotidiane, si muovono lentamente d’intorno, mentre un numero imprecisato di bambini, sporchi e macilenti, giocano col nulla che hanno. Un essenziale, liso, immondo bucato, montato su gracili pali di bambù, si protende verso il traffico, sventolando mestamente al passaggio delle macchine. Un’amaca sottesa tra il pattume culla un poppante seminascosto dalla fitta tramatura, schermandolo nel contempo dallo squallore in cui forse è venuto al mondo.

Ci sono immagini che non so fotografare, se non con le parole di un racconto. Visioni troppo potenti per cancellarle da dentro, e troppo crudeli per umiliare ulteriormente questi reietti derubandoli dell’ultima miseranda ricchezza loro rimasta: la dignità dell’anonimato.

Prima pubblicazione : 4 dicembre 2009

giovedì 24 marzo 2011

Turbati dal turbante

Non capita tutti i giorni di vedere il nome dell’Italia nei titoli a scorrimento dei notiziari esteri. Non facciamoci illusioni, non siamo così importanti negli scenari mondiali. E allora perché continuano a fare vedere il nostro nome, associato ad immagini di parlamentari indiani, uomini e donne, che sembrano fare dichiarazioni di fuoco, a giudicare dalla foga dell’eloquio e dal gesticolare scalmanato?

Presto detto. L’allenatore di un golfista indiano, Amritinder Singh, di religione Sikh, per due volte in due settimane è stato costretto a spogliarsi del turbante su invito della sicurezza aeroportuale di Malpensa. Io capisco che gli addetti degli aeroporti non saranno dei laureati in religioni orientali, e potrebbero – dico potrebbero – non essere al corrente del forte significato rituale che il turbante rappresenta per i Sikh. Non conosco i regolamenti e quanto essi siano attenti e dettagliati nel sancire cosa può passare e cosa no, durante i controlli doganali. Quindi mi astengo dal puntare a priori il dito contro la presunta mancanza di sensibilità dell’addetto in questione. Fatto sta che in India i politici hanno fatto un can-can fenomenale. Ambasciatore italiano convocato d’urgenza e costretto – da buon diplomatico – ad aggiustare i cocci, rappresentando il dispiacere proprio e del governo italiano per l’increscioso episodio, ed assicurando che indagini sono in corso. Belle parole. Chissà se davvero seguiranno fatti concreti. Il ministro degli affari esteri Krishna dichiara che l’offesa ad un Sikh offende l’intero popolo indiano. Addirittura c’è chi vuole portare la faccenda davanti all’ONU, per sensibilizzare il mondo intero sulla mancanza di rispetto per le altrui credenze religiose.

Io la vedo così. La sicurezza aeroportuale è una cosa seria. Però sarebbe bastato poco per evitare l’incidente diplomatico. Bastava un controllo tattile, senza costringere a smontare gli otto metri di fettuccia davanti a tutti. Se ci fosse stato dell’esplosivo, si sarebbe sentito. E poi, visto che i nostri giornali trattano la cosa con una certa leggerezza: una pistola nascosta sarebbe stata rilevata dal metal detector, anche se il turbante rimaneva piazzato sulla testa del signor Singh. Irrispettoso è stato depositarlo negli stessi contenitori che ospitano le scarpe tolte dai passeggeri (indipendentemente dal significato religioso attibuito al turbante, anche a me farebbe schifo appoggiare il cappello dove sono appena state spalmate le suole di qualcuno che magari ha pestato poco prima una cacca di cane; fate un po’ voi). Infine: c’è qualche italiano che si offenderà, se gli dico che appartiene alla setta cattolica? Perché esattamente così è stata descritta la religione Sikh da certa nostra stampa: setta. Allora cerchiamo di essere equi: le religioni o sono tutte delle sette, oppure non ce ne sono alcune più belle e furbe che si meritano rispetto e altre che possono essere trattate come stramberie di gente che va in giro con una fusciacca in testa. Se no si potrebbe trovare altrettanto da ridere – e ridire – sul fatto che ci siano degli esponenti di alcune ben note sette che vanno in giro con dei gonnelloni neri lunghi fino ai piedi, oppure con dei cordoni nodosi legati in vita (e questi non sono armi improprie da strangolamento, per i solerti controllori di Malpensa?), e altri ancora con delle tovaglie da picnic drappeggiate in testa. Per non parlare di chi predica umiltà e povertà, e poi va in giro carico di monili e con una stola di ermellino che nemmeno Wanda Osiris dei tempi d’oro.

Mentre i politici manifestano disapprovazione e biasimo, il popolo indiano manifesta tutta la sua gioia. La nazionale di cricket ha appena strapazzato l’Australia campione del mondo in carica. In una tiepidissima serata baciata da una brezzolina confortante, degli amici indiani hanno avuto la suprema pazienza di spiegarmi le regole fondamentali di tale gioco, facendomelo finalmente intendere. La loro crescente allegria si è trasformata in entusiasmo, davanti al comunitario maxischermo da ristorante all’aperto, quando l’ultima palla è stata scagliata fuoricampo dal battitore indiano, e gli australiani hanno capito che era l’ora di preparare le valigie. Tra pochi giorni la sfida di semifinale, densa di tensioni politiche, razziali e religiose: India contro Pakistan.

Ma siccome il cricket alla fine è solo un gioco, anche se dagli interessi milionari in India, vi rinvio su un vecchio racconto, scritto quando non capivo ancora un’acca di batsmen, wickets, runs, over e sixes, ma certe cose mi suscitavano un’irrefrenabile ilarità. Streaker al cricket.

mercoledì 23 marzo 2011

Sono umani

Ricordate l’Italia durante i mondiali di calcio? Beh, in India sta succedendo la stessa cosa. Stanno ospitando (probabilmente il 99% degli italiani ne è all’oscuro) il campionato mondiale di cricket. E domani è il gran giorno della sfida diretta. India – Australia, quarto di finale e derby per eccellenza delle ex-colonie dove – mutuato lo sport dalla madre patria imperiale – la passione per questo gioco rasenta limiti da noi conosciuti solo per un’Italia Brasile finale di Coppa Rimet.

I giornali abbondano di pagine sportive, con analisi tecniche, pareri di vecchie glorie, confronti, statistiche e tutta l’inutile paccottiglia giornalistica che fa leggere e dibattere i tifosi. I prodi indiani partono sfavoriti dalle congetture e dagli allibratori, ma il fattore campo potrebbe farsi sentire.

Ma voltiamo pagina. Ecco una notizia degna di nota, dal Giappone terremotato. Qualcosa ci dice che non sono tutti dei mostri di precisione, compostezza ed onestà. Incredibile. Dalla camera blindata di una banca, i cui sistemi di sicurezza sono stati mandati in tilt dal sisma e dallo tsunami, lasciando il forziere arrendevolmente aperto e vulnerabile, sono spariti quaranta milioni di Yen, al cambio 350 mila euro. I locali erano allagati, tutto era sottosopra, e qualcuno ha rubato il denaro per via del caos. Così hanno dichiarato i funzionari dell’istituto di credito alla polizia, ben undici giorni dopo il terremoto. Eh, certo. Il disordine è la causa di tutti i mali.

Chissà che scandalo. Rubare da una banca. Robe da matti. Ma allora sono umani. Qualcuno ha trovato la porta aperta e non gli è parso vero di sovvenzionarsi autonomamente la ricostruzione, senza aspettare le lungaggini burocratiche, che non si sa mai come vanno a finire e in che condizioni ti ritrovi ad abitare.

Spero proprio che alla fine non salti fuori che sono stati dei cinesi. Sarebbe una grossa delusione.

Torniamo al cricket, e in diretta: il Pakistan ha appena battuto le Indie Occidentali (West Indies, mai sentite? Per forza! Non le potrebbero chiamare Caraibi, così tutti capirebbero da che parte del mondo viene questa gente?) nel primo quarto di finale. L’ansia cresce perché, se per caso domani l’India superasse l’Australia, i due acerrimi rivali non solo sportivi, India e Pakistan, si scontrerebbero in una semifinale di fuoco il prossimo 30 marzo. Non vorrei essere da quelle parti quel giorno. Ma non facciamo i conti senza l’oste, ci sono i giallo-verdi Aussies sul cammino della gloria. A domani, con i risultati del gran match, ed un racconto sul cricket a sfondo umoristico, che mi piace riproporre vista l’attualità del tema.

martedì 22 marzo 2011

Horn please

Avete presente gli autoscontri, divertimento centrale e cuore pulsante di antichi luna park di periferia? Mentre una musica infernale si riversava sull’arena coperta e liscia come un patinoire, ottundendo le meningi degli equipaggi, e una folla di sfaccendati stava in agguato ai bordi, in attesa che si liberasse un’automobiletta per il prossimo giro, dei ragazzetti imberbi ma già brufolosi azzardavano i primi, titubanti approcci verso il gentil sesso, speronando ripetutamente il bersaglio, di solito costituito da coppie di allampanate fanciulle schiamazzanti a tal punto da superare i feroci decibel dell’amalgama di note fluenti da due colossali altoparlanti neri da balera. Alla cassa, procace erogatrice di gettoni, stava seduta una grassa matrona, gli occhi bistrati come un tucano, che si vociferava fosse stata una maitresse, disoccupata dalla legge Merlin e riciclatasi nel mondo girovago dei giostrai. Massima ammirazione, per la sua inveterata perizia, suscitava il tenutario di tale attrazione, spesso dotato di cospicui bicipiti, che si esibiva nel plateale recupero dei mezzi abbandonati in mezzo alla pista, conducendoli con la nonchalance dei forti, ritto in piedi – prode nocchiero in gurgite vasto – sul bordo gommoso della vetturetta, fumando una sigaretta non di rado arrotolata da sé e briciolosa di tabacco, reggendosi con una mano all’asta dell’antennone atto a suggere energia dalla maglia elettrificata a soffitto, sfrigolante nel contatto come una tegliata di fritto di pesce in piazza a Camogli, e dirigendo a una mano quando non direttamente con un piede, prensile alla maniera dei babbuini, sul volante. Le adolescenti in libera uscita pomeridiana, trasognate, spasimavano per l’adulto fustacchione, manco fosse Marlon Brando, vagheggiando un suo bacio ardente o poco più, per il maggior avvilimento degli apprendisti corteggiatori, peraltro senza speranza per carenza di età ed eccesso di acne.

Ebbene, il principio ispiratore del traffico indiano si basa su un presupposto uguale e contrario. I mezzi di locomozione, quali che siano, si muovono in tutte le direzioni senza un’apparente logica, come formiche deliranti in una nube di flit. Anarchia organizzata. Tal quale l’autoscontro di giovanile memoria. Ma lo scopo è opposto: percorrere la maggior distanza possibile evitando di toccare qualsiasi altro veicolo (vale anche per i pedoni, numerosi e taluni dal dribbling ubriacante meglio di Sivori) venga a trovarsi repentinamente sulla propria traiettoria. Ci sono veri maestri di questa arte, e nei pochi giorni di permanenza a Delhi ho avuto il piacere – se così si può dire – di incontrarne più d’uno. La prima, basilare regola di guida è usare il clacson ogni circa dieci o dodici secondi. Anche se non c’è nemmeno un cane in strada (raro, ma può capitare). Se poi si tratta di impegnare un incrocio o meglio ancora una rotatoria, l’uso della tromba diventa non solo consigliato, ma obbligatorio. Ne scaturisce una cacofonia di suoni, nella quale si liquefa la manuale e vana fatica dei ciclisti i quali, per non essere da meno, si consumano le dita sul campanello.

Mi correggo. Una rotonda non si impegna, si aggredisce. Il rinomato tassista autoctono vi entra con imperio, senza mollare per un istante l’acceleratore, e infischiandosene se è in rotta di collisione con una miriade di mezzi, biciclette e autorisciò, vetture di taglia simile e torpedoni ansimanti e tenuti insieme da strati geologici di vernice. Su uno di questi ho letto una scritta, vergata a mano sotto il lunotto posteriore: horn please. Per favore, suonate. Come se ci fosse bisogno di invitarli a farlo.

Precedenza? Concetto sconosciuto. Vince chi mette il muso davanti all’altro. E il bello è che funziona. Chi si vede la strada tagliata, ammette serenamente la sconfitta, rallenta, si ferma, talvolta inchioda di colpo. Nessuno scende con il cric in mano per farsi giustizia sommaria, ma continua il proprio tragitto, placido come le mucche, oziose nel bel mezzo delle strade, e neanche uno che osi disturbarle. I tassisti fanno segno al forestiero appena salito a bordo accanto a loro di indossare le cinture: non temono multe dai vigili, ma parabrezza sfondati a testate da passeggeri stranieri non avvezzi a reggersi saldamente.

Benvenuti in India, la più immensa pista di autoscontri del mondo. Buon divertimento. Ah, e non dovete nemmeno passare dall’ex-ruffiana a comprare i gettoni. Si paga alla fine del giro. Come per i lanci col paracadute, il bungee-jumping e gli ottovolanti, una doverosa avvertenza: fortemente sconsigliato ai cardiopatici.

Prima pubblicazione : 10 dicembre 2008

martedì 7 dicembre 2010

Sei tu, Bob?

Mi è sempre stato istintivamente simpatico, pur ignorando la gran parte delle sue intraprese politiche in India, il quasi ottantenne Primo Ministro, il punjabi Manmohan Singh. Lo confesso, è una questione puramente estetica. Non che questo renda il mio giudizio un esempio di illuminato acume politico. Tuttaltro, me ne rendo conto. Ma quel viso sereno, spesso sorridente, quella barba bianca un po’ scarmigliata, le gran sopracciglia arruffate, perfino il bellissimo turbante Sikh, sempre di colore azzurro, drappeggiato con la sapienza di una vita sulla testa, tutte queste cose me lo fanno immaginare persona degna di coprire il non agevole incarico di capo del governo di un miliardo di indiani, oltre che uomo ammodo nella vita privata.

Oggi ne ho avuto un’indiretta conferma. Parlando con dei locali ho saputo che il sensibile Manmohan è particolarmente attento all’esigenza di salvaguardare la tigre indiana. Che i responsabili degli otto parchi nei quali vivono in libertà le ormai poche migliaia di felini sopravvissuti alle insensate cacce prima degli inglesi, e poi dei bracconieri che riforniscono il fiorente e lucroso mercato clandestino cinese, sono in costante contatto con la fondazione voluta da Singh e a lui riportano sullo stato di salute della razza, sulle misure per impedire l’ulteriore decimazione e su come proteggere le rare tigri rimaste.

In India la manodopera non costa molto. Invece di affiggere dei manifesti, c’è chi passa magari una giornata ad affrescare un ingenuo murale sul tema. Che ho visto e fotografato fuori dalla stazione di Mumbai. Un grande quadro naif, con una tigre che sembra uscita in parte dalla penna di un bambino, in parte dal pennello di un allucinato Ligabue. Dipinto su uno scalcinato muro di piastrelline bianche (o almeno, una volta, tanto tempo fa, dovevano esserlo). Una straordinaria battuta di spirito, amara ma perfetta, una piccola punta di humour inglese conservato dagli indiani per gli eventi speciali. Infine, le scritte: ha bisogno della sua pelliccia più di te. Salviamo le tigri!

Sì. Salviamo le tigri. Ce n’è urgente necessità. Il giorno che si conviceranno le donne a non indossare più pellicce e i cinesi a smettere di credere che le ossa triturate rinvigoriscano miracolosamente parti irrimediabilmente afflosciate come stracci da spolverare, le tigri potranno tirare un gran sospiro di sollievo. Fino ad allora, un sentito grazie a Manmohan Singh, al suo schietto interesse per i grandi e bellissimi felini, e agli artisti di strada che spendono il loro talento per dipingerle e creare consapevolezza del problema.

giovedì 2 settembre 2010

Timeless wisdom - Saggezza senza tempo

Believe not because some old manuscripts are produced, believe not because it’s your national belief, believe not because you have been made to believe from your childhood, but reason truth out, and after you have analysed it, then if you find it will do good to one and all, believe it, live up to it and help others live up to it.

Credi non perchè ti mostrano alcuni vecchi manoscritti, credi non perchè è il credo della tua nazione, credi non perchè ti è stato fatto credere così fin da piccolo. Scopri la verità attraverso la ragione, e dopo che l'avrai analizzata, se capirai che può far del bene a tutti, credici, mettila in pratica ed aiuta gli altri a fare altrettanto.

Gautama Siddartha - The Buddha