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giovedì 30 maggio 2013

Prigionieri - 2

Fèrmati per andare avanti. È il motto dell’Eremo del Silenzio.

E pensare che pochi mesi fa, all’arrivo a Perth, avevo sorriso, vedendo, proprio all’uscita dall’aeroporto, la pubblicità dalla vecchia galera di Fremantle. Che, con squisito senso dello humour australiano, recitava: dando il benvenuto ai visitatori da centocinquanta anni. Il nuovissimo mondo. Talmente recente da non avere nient’altro di più antico o di più rimarchevole da visitare. Che idea bizzarra, vero, visitare una prigione?


Invece, una domenica di maggio, mi capita di passare davanti alle Nuove, a Torino. Fin da ragazzo ricordo di aver osservato quei muri in mattone pieno con un senso di inquietudine e di curiosità insieme. Curiosità di sapere che mondo ci fosse dietro quella recinzione, dietro quelle sbarre, attraverso le quali ogni tanto capitava di vedere un detenuto comunicare con qualche parente – prima degli anni di piombo, che porteranno misure più severe e ancor più spinto isolamento dal mondo esterno. Inquietudine per quel senso di ovvia pericolosità del luogo, dell’ambiente, il pensiero teso all’auspicio di non dover mai, neppure per errore, trovarsi a dover frequentare da ospite tale luogo di pena ed espiazione.

E la curiosità mi ha sopraffatto, quando ho trovato un nuovo varco laterale spalancato di recente nel muraglione. Impossibile resistere. Bastano pochi, timidi passi, ed eccomi dentro al perimetro del carcere. Una signora mi chiede: vuole visitare il Museo delle Nuove? Forse, dico, ma mento. Certo che voglio. La seconda e la quarta domenica del mese ci sono visite guidate, alle nove di mattina. Unico viandante mattiniero, ho la fortuna e il privilegio di avere una guida tutta per me. Michele, volontario, mi accompagna attraverso un percorso di oltre un’ora. Attraverso il camminamento interno, recintato dalle due cinte murarie, si entra nella struttura. Non prima di aver reso un omaggio ad una teoria di fotografie d’epoca, ritratti seri, fieri, volti non sconfitti, vittime delle rappresaglie naziste in tempo di guerra. Persone che oggi si ritrovano nella toponomastica di Torino. Il generale Perotti, Massimo Montano, Paolo Braccini, Eusebio Giambone, Ignazio Vian, Emanuele Artom. E tanti altri sconosciuti combattenti morti per darci un’Italia migliore. Chissà se lo rifarebbero, vedendo l’odierno stato miserevole della nostra penisola.

Michele alterna interessanti notizie storiche e architettoniche con le vicende di umili eroi, come suor Giuseppina, che salvò uomini, donne e bambini, in tempo di guerra. Come padre Ruggero, cappellano carcerario, cinquant’anni tondi passati lì dentro, dalla guerra alla seconda repubblica.

E poi ci sono le odissee di ignoti reclusi, raccontate dai graffiti incisi sui muri delle celle. Disegni, incerte parole in dialetto, ma anche le ultime lettere dei partigiani condannati, piene della loro straziante certezza di morire, pur confortata dalla serena fierezza di aver lottato per un mondo migliore, che lasciavano in eredità a mogli, figli, parenti.

Fra tutte queste testimonianze scarabocchiate da animi angosciati, c’è chi, nella sezione femminile, è stata capace di sintesi massima, mentre esternava cosa si prova a stare in cella: qui si fa solo strage di sogni.

Michele mi chiede, alla fine, di far conoscere il loro oscuro lavoro di volontari, retribuito solo dall’apprezzamento e dalla riconoscenza dei visitatori. E di lasciare due parole sul registro. Faccio entrambe le cose molto volentieri. Ci sono esperienze che vale la pena fare, nella vita. Come questo viaggio attraverso un luogo opprimente, ancora grondante dolore e echeggiante grida e lamenti di sofferenze passate. Per capire il valore della parola libertà, spiegata nell’ambiente in cui è costretto a vivere – e spesso a morire – chi la libertà l’ha persa. Giusta o sbagliata che sia la ragione per cui si son trovati lì.

Sono di nuovo fuori da quelle mura alte e scure. Respiro a pieni polmoni l’aria tersa e fresca. Il sole non mi è mai sembrato così caldo e scintillante.




giovedì 2 maggio 2013

Pum pum! Sei morto! (sul serio)

Chi è causa del suo mal, pianga se stesso. Non trovo un detto più adatto, per commentare la notizia di quel bambino – di cinque anni – che nel Kentucky ha ucciso la sorellina – di due – con un fucile.

Ma non un fucile mal custodito da genitori negligenti e sconsiderati. No. Proprio il suo fucile.

Allora mi vengono alcune domande, che sarebbe bello trovassero risposta.

Americani: è normale che un bambino di cinque anni debba già possedere un fucile? Autentico? Con tanto di proiettili? Avete presente la comprensione della realtà di un bimbo di quell’età? La sua capacità di giudizio critico? La sua percezione di azione e reazione, di vita e di morte?

E ancora: con quali aspettative dei genitori regalano al figlio - di quattro anni, perché non erano due giorni che l’armina girava per casa – un fucile, sapendo che è fatto apposta per ferire e per ammazzare? E per non farsi mancare nulla, con tanto di munizioni? Ben consci che in famiglia, oltre al piccolo armigero, c’è anche una bimbetta di due anni? Perché non avete regalato anche una pistolina a lei, così almeno poteva difendersi?

E non pensate che affermare, quasi a giustificarsi: non sapevo che ci fossero ancora cartucce nel fucile, sia una dichiarazione di resa della vostra missione di genitori? Ancora? Quindi il fucile non era un oggetto inanimato, per far finta di giocare alla guerra, nascondendosi dietro il divano e facendo pum pum con la bocca. Lasciavate un figlio in giro per casa con un’arma carica: non vi è mai passato per la testa che qualcosa prima o poi sarebbe potuto succedere? Mai temuto, nemmeno per un momento, che potesse giocare alla guerra sul serio, ignorandone innocentemente le conseguenze funeste?

Inoltre, cari americani: trovate logico, giusto, perfino divertente che debba esistere un sito dove sono in libera vendita armi formato giocattolo, peccato che siano vere? E che lo stesso sbandieri lo spensierato motto “My first rifle”, così come da noi si pubblicizza il primo orologio o la prima bicicletta per bambini? Che queste armi mortali debbano essere farisaicamente travestite da giocattoli, colorandole di rosa per le bambine? Ma dai. Siamo seri. Un fucile non è la casa della barbie.

Voi che siete fissati con le avvertenze sull’uso di qualsiasi oggetto casalingo, sortendo effetti comici come scrivere su un ferro da stiro attenzione! diventa caldo durante l’uso, oppure non introdurre gatti o bambini, sull’oblò di una lavatrice, ce l’avevate scritto: attenzione! può uccidere se lasciato in mano ad un bambino di cinque anni incustodito, su un fucile venduto appositamente per i minori? Ma scritto bello grosso, che attragga l’attenzione distratta dei genitori, visto che il povero innocente a quell’età non saprà ancora leggere – ma è grande a sufficienza, nel giudizio scriteriato dei suoi tutori, da impugnare un’arma. Vera. E carica. Robe da matti.

Molto probabilmente queste rimarranno domande retoriche e non cambieranno lo status quo. E forse troveranno un’ottima percentuale di gente, di là dall’oceano, pronta a rispondere che sì, il loro è un diritto inalienabile, quello di possedere delle armi da fuoco, sì, anche automatiche, e che quei genitori sono stati solo imprudenti, e non deficienti a regalare un fucile al proprio figlio – ripeto, di cinque anni.

Fatemi capire: non avete ancora superato la sindrome del far-west? Avete bisogno di girare col cinturone e la pistola come nei film di Sergio Leone? Vivete in una terra così pericolosa da accogliere con il fucile imbracciato qualsiasi viandante che osi passare davanti al vostro vialetto ghiaioso? Avete una polizia così poco efficiente da aver la necessità di difendervi da soli da banditi che evidentemente pullulano come formiche, vista la diffusione capillare di schioppi, pistole e mitragliere presso il popolo in generale? Non mi sembra. Eppure limitare (proibire equivale ad un intoccabile tabù) il possesso di armi ai privati è come scalare l’Everest a mani nude e senza bombole. Chiunque ci provi soccombe – politicamente parlando.

Leggendo di questo povero bambino, vittima delle circostanze quanto sua sorella, mi è tornato alla mente quando io avevo la sua età. Anch’io avrei voluto in regalo da babbo natale una pistola giocattolo. Ma quel saggio uomo di mio Padre disse poche, irrefutabili parole, la cui potenza educativa capii solo crescendo. Da vecchio ufficiale del Regio Esercito, disse: in guerra le ho usate abbastanza io le armi. Non voglio che mio figlio cresca con in mano una pistola. Nemmeno giocattolo. E mai ne ebbi.

Forse in America ci vorrebbero più uomini come mio Padre.




venerdì 25 gennaio 2013

Nonne allo sbaraglio

Abituati alla giustizia torpida e lassista dei nostri lidi, fa clamore e scandalo leggere di condanne a morte comminate in Asia a trafficanti di droga. Ancor più scalpore – episodio di questi giorni - suscita il sapere che l’imputata sia una nonna inglese. Uno se le figura sempre in qualche casa in pietra scura, nella piovosa campagna britannica, dedite a crear trine all’uncinetto presso un caminetto che dispensa un tepore dolce e profumato di legna. Invece qualche intraprendente e insospettabile avola, forse stufa di sferruzzare e in cerca di emozioni forti, decide di trasportare all'estero ingenti quantità di droga in valigia. Probabilmente mal consigliata, perché ad essere beccata in dogana in certi posti dove per tali commerci non c’è clemenza, va sempre a finire malamente.

Come è capitato a Lindsay Sandiford, condannata dal tribunale di Bali alla pena capitale per esser stata sorpresa con rimpiattati nel bagaglio quasi cinque chili di eroina, che cercava di far entrare nella Rimini dell’Indonesia. Ennesima prova del fatto che le leggi draconiane di Singapore, Malaysia e Indonesia in tema di traffico di droghe son roba seria.

Dodici anni fa scrivevo un racconto, rimasto inedito. Eccolo: oggi è più che mai attuale. Dedicato a tutti gli irresponsabili – giovani e vecchi, è il caso di dire – che credono ancora alle favole.


Avviso ai naviganti

Un inglese è stato condannato a morte a Kuala Lumpur per traffico di eroina. Duecento grammi. Ha commentato la sentenza applaudendo sarcasticamente all’indirizzo del giudice, donna e – si suppone, dal nome – mussulmana.

Vorrei che questo fosse un avviso ai naviganti. Ai troppi, voglio sperare pochi, ma pur sempre troppi, giovani incoscienti che pensano che con certe leggi e certi moniti si possa scherzare. Non ai professionisti della morte, che quelli sanno bene a che cosa vanno incontro se colti sul fatto, ed in fondo una dose di rischio fa parte del gioco sporco del narcotraffico.

Parlo invece agli stupidi, sbruffoni forse, ragazzi che pensano, ma cosa vuoi che mi facciano se mi porto qualche dose, in fondo è per me. E invece no. Quando sei sull’aereo, e compili la carta d’immigrazione, che ci sia la pena di morte obbligatoria per i trafficanti di droga te lo scrivono in rosso, bello evidente (capita arrivando in Malaysia, a Singapore, nelle Filippine). Non bastasse, mezzora prima dell’atterraggio, un messaggio preregistrato ti ricorda che sei ancora in tempo a disfarti di imbarazzanti fardelli, prima che sia troppo tardi.

Pena di morte. Obbligatoria. Non sperare di incappare nel giudice che trova simpatica la tua faccia da bravo ragazzo. Qui i giudici, come la legge, non devono avere senso dell’umorismo. E se pure ne avessero, sono tenuti a non esercitarlo quando indossano la toga.

Ma più di tutto questo, se il gusto di rischiare la tua pelle non ti ha ancora abbandonato, sappi che non basta essere straniero per garantirsi l’immunità dalle leggi, implacabili contro gli spacciatori di morte. E qui ne basta veramente poca, di morte in forma di polvere bianca, per essere considerati spacciatori e non dipendenti dal vizio.

Mi è tornato in mente un vecchio film, Fuga di mezzanotte, in cui un giovane americano viene pizzicato in Turchia, e passa le sue, fino all’immancabile lieto fine. Duro quel film, bello e cattivo. Ma all’americana, con la vittima (vittima?) che alla fine torna a casa, almeno salva seppur non completamente sana.

Qui è la realtà, non la finzione filmica. E non è così. Ragazzo, lasciala a casa. Tutta. Dai retta. Oppure prova ad immaginare che effetto ti farebbe sentire dire: sei condannato ad essere riportato in prigione e da qui in un luogo dove sarai appeso per il collo finché non sopraggiunga la morte. Questa è la formula che pronuncia il giudice, ed è a te che parla. Pensaci. Molto, ma molto bene. Perché la vita non è un film, e la parola fine non scorrerebbe su di te che all’alba esci dalla prigione e ti avvii verso la libertà. Scorrerebbe sui tuoi piedi penzolanti. Ma tu i titoli di coda non li vedresti. Il buio sarebbe già sceso sui tuoi occhi, il film della tua vita concluso così.

Prima redazione : giugno 2001





lunedì 28 maggio 2012

S.O.S.

Metti che, una decina di anni fa, tu sia in vacanza in un paese centroamericano. Su una barca. Che tu abbia a cuore la sorte di certe specie di animali, minacciate di estinzione dall’uomo scriteriato. Che tu assista alla crudele – e, per inciso, illecita – fine fatta da degli squali, mutilati da vivi delle pinne e poi ributtati in mare, condannati a una morte lenta e atroce per asfissia, perché senza pinne non son capaci di nuotare, e se non nuotano l’acqua non filtra nelle branchie irrorandole di ossigeno.

Metti che tu provi a opporti a questa barbarie. E che i vili delinquenti, feccia umana al servizio delle mafie, cerchino di speronarti. Per poi andare a dire che invece eri tu a tentare di affondarli, mentre esercitavano il loro diritto a torturare dei pesci con la sola colpa di aver delle pinne appetite dai cinesi.

Metti che questi sadici, invece di limitarsi a menzionare l’increscioso episodio in qualche localaccio da angiporto frequentato da baldracche in disarmo, lo vadano a raccontare alla polizia. E che parta una denuncia internazionale nei tuoi confronti. Con tanto di richiesta di estradizione, per comparire davanti ad un tribunale del Costa Rica, dove verrai processato e rischi di finire in galera, magari per un bel pezzo.

Metti infine che, dopo essere stata dormiente per un decennio, qualcuno decida di rispolverare quella citazione in giudizio, perché nel frattempo forse hai dato fastidio agli interessi di qualche lobby di ipocriti assassini, riducendo sensibilmente il loro sporco giro d’affari.

Credo non piacerebbe a nessuno trovarsi in un ginepraio del genere. Ma proprio questo sta accadendo in questi giorni – salvo il fatto che non fosse in Centroamerica per una vacanza – a Paul Watson. Arrestato a Francoforte l’altra domenica, con sulla testa una richiesta di estradizione verso il Costa Rica, accusato – ribaltando la realtà dei fatti – di tentato omicidio, ha trascorso qualche giorno in cella, per poi essere rilasciato su cauzione, ma con obbligo di non lasciare la Germania fino alla decisione del giudice se estradarlo o meno.

Quando viaggio, non sempre riesco a tenermi aggiornato sui fatti del mondo. Solo l’altro giorno, di ritorno a casa, ho scoperto che il capitano coraggioso stava passando dei seri guai. E mi è presa un’irrazionale rabbia, perché forse, pur nel mio piccolo, avrei potuto contribuire a fare informazione, affinchè chi ha a cuore le sorti della natura scrivesse alle autorità tedesche, per caldeggiare sia la liberazione di Paul Watson sia la ricusazione della richiesta di estradizione.

Per fortuna moltissimi sapevano, e hanno risposto agli inviti di Sea Shepherd. Migliaia di email hanno testimoniato quanto sia importante che il capitano possa continuare la sua crociata ecologista, contro chi fa strage di balene, delfini, pescicani ed altri grandi abitatori dei mari. In Germania, ma anche in Italia, sono stati esposti striscioni di supporto: S.O.S. Save our skipper.

Salviamo il nostro capitano. Perché colpire Paul Watson significa lasciare al loro destino di morte e di sofferenza centinaia di balene, migliaia di delfini, milioni di squali.

Chi pensa che lo squalo sia l’animale più pericoloso del mare si sbaglia di grosso. Per qualche decina di umani attaccati dai Big White sulle coste australiane o della California, ogni anno – provate a dire un numero... - settanta milioni di squali vengono uccisi, e spesso amputati da vivi, per le loro pregiate pinne. Ora chi è il vero terrore del mare: il pescecane o l’uomo?

S.O.S. Lo chiede la natura. Perché gli squali appartengono agli oceani, e non alle zuppe di qualche cinese arricchito in vena di esotiche estrosità culinarie.



venerdì 30 marzo 2012

Questo pazzo, pazzo mondo

Notizie assortite, di poca o molta rilevanza, tratte dal quotidiano The Japan Times di oggi.

Pretese.
Il padre di Mohamed Merah, l’assassino islamista di Tolosa, da Algeri ha sporto denuncia contro i reparti speciali francesi, rei di avergli ucciso il figlio.

Mi interrogo: per favore, fai che l’iniziativa sia pilotata. Qualcuno, ben in alto, da qualche parte, deve avere un recondito interesse a creare un caso inedito e mediatico. Faccio fatica ad immaginare che un carneade qualsiasi, padre di un carrozziere, mica di un astrofisico, decida di far causa ad un esercito straniero. Così, senza consigli, senza spinte, senza la coscienza di esser tirato dentro in qualcosa più grosso di lui.

Anche perché, se una simile bizzarria giudiziaria dovesse avere un seguito, se io fossi il genitore di uno di quei bambini ebrei trucidati a scuola dal terrorista già assassino di parà francesi, allora farei a mia volta causa alla Gendarmerie. Rea di non averlo catturato – e eventualmente neutralizzato per sempre – prima del suo ultimo infame crimine.

Pendagli da forca.
A proposito di morti ammazzati. Era dal luglio 2010 che in Giappone non si giustiziava nessun condannato a morte. Si sono messi in pari coi ritardi. Ieri sono stati impiccati tre criminali, tutti pluriomicidi, e con gustose aggiunte di efferatezze varie nell’esecuzione dei delitti.

Il Ministro della Giustizia Ogawa, da poco insediato, ha dichiarato: ho ottemperato al mio dovere. Il popolo ha il diritto di vedere i criminali puniti, e un sondaggio governativo indica che la maggioranza dei giapponesi è favorevole alla pena capitale.

Le rare voci dell’opposizione protestano con garbo e toni pacati tipicamente nipponici. Un professore universitario, docente di criminologia, afferma che il ministro “ha fatto un grave errore” e che – vista la sua recente nomina – non ha certo avuto tempo sufficiente per analizzare a fondo le storie criminali dei tre giustiziati.

Come avevo scritto tempo fa: l’ossessione per la pulizia finale. L’uomo della strada commenta, tre assassini in meno da mantenere.

Non so se giustizia è fatta, né quello che provino oggi i parenti delle vittime. Ma la gente respira a pieni polmoni l’aria diventata più pulita. In attesa della prossima forca purificatrice delle nefandezze umane.

Continua domani, con la seconda parte.

martedì 17 gennaio 2012

Conigli nazionali - e non

Innanzi tutto chiedo scusa a Emanuele Filiberto. Che c’entra con i conigli nazionali? Nulla. Infatti gli chiedo scusa. Perché in un momento di conigliaggine diffusa, ha dimostrato di aver il coraggio di farsi ritrarre con un’idrovora in mano, vestito da operatore ecologico (versione politically correct del più volgare fognaiolo), alla faccia dell’ascendenza regale da cui proviene. Probabilmente si saranno avvertiti leggeri moti sussultori sia nei pressi della Basilica di Superga, sia vicino al Pantheon a Roma. Niente paura: erano soltanto gli avi del principino che si rivoltavano nelle auguste tombe. Ma la temerarietà sfrontata dell’ultimo erede di Casa Savoia fa da straordinario contrasto con alcuni episodi di estrema viltà, di cui si parla proprio in questi giorni.

Conigli 1.
Torino. Sono stati – finalmente – catturati i due assassini di Alessandro Sgrò, sette anni, travolto e ammazzato sulle strisce a dicembre, davanti a dei genitori impotenti e sconvolti da tanta efferatezza. Alessandro Cadeddu e Francesco Grauso, di Aosta. Dopo l’investimento, stando alle loro stesse dichiarazioni, sono andati a comprare eroina dal pusher. Ci è voluto più di un mese per trovarli. Assassini di un bambino: speravate di passarla liscia? Di vivere tranquillamente con un peso del genere il resto della vostra vita, riuscendo a dormire ogni notte? La parola coscienza vi dice nulla? Avreste fatto meglio ad assumervi le vostre responsabilità. A presentarvi spontaneamente, invece di nascondervi come conigli. Ora spero che pagherete il giusto. Non servirà a riportare ai genitori Alessandro. Ma che sia almeno di monito a tutti i potenziali assassini al volante.

Conigli 2.
Roma. È stato trovato impiccato (e forse avvelenato, si aspettano gli esiti dell’autopsia) Mohamed Nasiri, uno dei due marocchini che due settimane fa, durante un tentativo di rapina, ha sparato a Zhou Zheng e alla figlioletta di nove mesi. Suicidio, dicono le fonti ufficiali.

Confesso che il primo pensiero, all’udire la notizia, è stato: lo hanno trovato prima loro. Sono in buona compagnia, a quanto pare. Nonostante le smentite dei portavoce della comunità cinese, in parecchi nel quartiere di Torpignattara credono ad un atto di giustizia sommaria da parte della mafia cinese.

Se l’assassino si è veramente ammazzato in preda agli atroci rimorsi per quanto ha compiuto, pace all’anima sua. Se invece – come ventilano certe ipotesi – l’informazione sul suo nascondiglio è stata venduta a chi voleva applicare la legge del taglione, occhio per occhio, morto per morto, allora avrebbe fatto molto meglio a non cercare di scappare: le galere italiane sono sempre un’alternativa migliore alla giustizia sommaria di chi arriva da un paese che per legge ha la pena di morte per un’ampia gamma di delitti, e la applica senza risparmiarsi, figuriamoci quelli che sono fuorilegge.

Ora speriamo che i nostri investigatori acchiappino almeno il complice. Così ci sarà una parvenza di giustizia – all’italiana – in questo delitto che ha toccato molte corde sensibili. Tra un quattro o cinque annetti forse si avrà una prima sentenza. Che potrà esser ribaltata in appello. Indulti e amnistie. Correità con uno che non si può difendere perché regolarmente defunto, con conseguenze comodo scarico di responsabilità sul morto. Dieci anni di gattabuia a dir tanto.

Allora, coniglio in fuga: meglio costituirsi o farsi trovare da chi è abituato che i processi durano quindici giorni – in tribunale – e venti minuti se il P.M. è un boss di una triade?

Conigli 3.
Isola del Giglio. Vada a bordo cazzo. Diventerà un tormentone. La voce autorevole, forte, irrefutabile del Comandante De Falco (questo sì meritevole del grado, e con la ci maiuscola) che intima, da vero militare, al conigliante Schettino di fare il suo dovere, ossia tornare subito a bordo della nave che indegnamente presiedeva e che ha abbandonato al suo destino quando era ancora piena di passeggeri. Che disgusto. Una volta i veri comandanti affondavano con la nave. Forse era retorica patriottarda, forse non sempre gli eroismi saranno stati autentici e volontari, ma solo causati dall’impossibilità di salvarsi. Ma allora c’erano davvero stirpi di uomini per cui l’onore valeva più della propria stessa vita. Capitani coraggiosi.

Invece oggi ci rendiamo tristemente conto che la vigliaccheria, il prima io poi gli altri se ce la fanno, e se no che crepino, l’abuso di titolo e di credulità popolare imperano. Di parole ne sono state spese sin troppe, nei confronti di questo ignobile marinaio con molto meno coraggio di certi suoi subalterni che hanno invece dimostrato valore, abnegazione e sprezzo del pericolo, restando a bordo finché c’erano dei passeggeri e dei colleghi da salvare.

Basta parlare di conigli: io voglio fare un plauso al Comandante De Falco. So che non è possibile, ma se mai un giorno decidessi di fare una crociera, o anche solo di prendere un traghetto, mi piacerebbe che al timone ci fosse Lei. O almeno uno che da Lei ha preso il cipiglio, le certezze e il senso del dovere. Cazzo.


La buona Stella – 2a parte

Ecco la parte migliore della classifica. La prima puntata la trovate qui.

Il quarto posto degli Stella Awards va a Jerry Williams di Little Rock, Arkansas. Ha ottenuto 14.500 $ più le spese mediche per un morso al sedere affibbiatogli dal cagnetto beagle del vicino di casa – nonostante che il beagle fosse alla catena, nel proprio giardino cintato da una palizzata.

Sentite questa: Williams aveva chiesto ben di più. Ma la giuria ha ridotto la cifra, ipotizzando (ma va’??) che forse il cane era stato provocato. Jerry infatti aveva scavalcato la recinzione, entrando nel giardino del vicino, ed aveva sparato ripetutamente con una pistola ad aria alla povera bestiola.

Che dire? Soltanto peccato che il buon beagle abbia sbagliato lato. Un morso altrettanto efficace nelle zone anteriori corrispondenti al sedere avrebbe sortito effetti più convincenti – e permanenti – nell’odioso impallinatore di cani.

Terzo posto a Amber Carson di Lancaster, Pennsylvania. Un tribunale ha condannato un ristorante di Philadelphia a pagarle 113.000 $, per essersi rotta l’osso sacro scivolando su una bevanda versata sul pavimento del locale.

Volete sapere perché la bibita era sparsa per terra? La signorina Carson, trenta secondi prima, l’aveva buttata in faccia al fidanzato durante un litigio. Chi è causa del suo mal... in America non piange, ride sventolando mazzette di fruscianti bigliettoni da cento dollari.

Secondo posto a Kara Walton di Claymont, Delaware, che ha citato il proprietario di un nightclub perché è caduta dalla finestra del bagno, spaccandosi due denti incisivi.

Sebbene la subdola ma maldestra Kara stesse cercando si svignarsela dal finestrotto del bagno per evitare di pagare il conto della serata, la giuria ha stabilito che il padrone della balera dovrà pagarle 12.000 $ di risarcimento. E – naturalmente – il conto del dentista.

Squillino le trombe per la vincitrice dello Stella Award! La signora Merv Grazinski di Oklahoma City, Oklahoma ha acquistato un bel camper Winnebago da 10 metri, praticamente un autobus travestito da alloggio. Nel viaggio inaugurale, al seguito della squadra di football di cui è fan, una volta sull’autostrada, ha impostato il cruise control (il dispositivo, poco conosciuto in Italia, che mantiene costante la velocità della vettura, esentando dall’esiguo sforzo di premere l’acceleratore i già pigri guidatori di auto senza frizione perché col cambio automatico) sulla velocità di 90 km/h.

E poi ha pensato bene di lasciare il posto di guida (a cosa serve se no il cruise control??) per andare nel retro a prepararsi un buon sandwich. Stranamente il camper si è schiantato fuori dell’autostrada, capottandosi.

Indispettita da questo sorprendente comportamento del mezzo, la signora Grazinski ha subito chiamato in giudizio la Winnebago per non aver scritto nel manuale del camper che non era consentito lasciare il volante per dedicarsi ad altre attività ricreative mentre il cruise control era attivo. Povera donna, ingannata dai troppi film dove si vedono comandanti di aerei inserire il pilota automatico e poi lasciare la cabina di pilotaggio per andare a fare la corte alle hostess!

Tenetevi forte: il tribunale di Oklahoma City le ha riconosciuto un indennizzo di UN MILIONE E SETTECENTOCINQUANTA MILA DOLLARI … più un camper nuovo di zecca!!

La Winnebago dopo la sentenza ha rifatto i manuali dei propri camper. Non si sa mai. Qualche parente della signora Grazinski potrebbe decidere di comprarne uno!


Prima pubblicazione : 8 novembre 2009

lunedì 16 gennaio 2012

La buona Stella

La buona Stella premia gli imbecilli. O no? In questo caso pare siano i furbi ad essere premiati, e gli imbecilli devono essere altri. Negli Stati Uniti, la terra più litigiosa al mondo, ogni anno si gratificano degli Stella Awards le sentenze più stravaganti emesse dai tribunali.

Il nome deriva dell’archetipo delle cause strampalate: tempo fa l’arzilla ottantenne americana Stella Liebeck ha vinto una causa intentata contro McDonald per essersi scottata con del caffè bollente. Sapete che gli americani hanno la divertente abitudine di bere il caffè in macchina. Si suppone che l’ottuagenaria guidasse una vettura all’antica, priva degli alloggiamenti rotondi per appoggiare il bicchierone di carta. Come ha fatto Stella a bruciarsi? Mentre era al volante, per raffreddare la bevanda, ha cercato di togliere il coperchio stringendo il contenitore tra le ginocchia. Chi l’avrebbe mai immaginato che uno rischiava di ustionarsi, con questo gesto? Eppure una giuria le ha dato ragione, imponendo alla venditrice di tali pericolosi prodotti di pagare i danni. Da allora i coperchi delle bibite sono impreziositi dalla scritta: Attenzione! Il contenuto può ustionare, se bevuto o versato addosso. Ma non divaghiamo, che la quasi infinita teoria di avvisi bizzarri esposti sulle merci americane merita un racconto a sé stante.

Ecco dunque la classifica degli Stella Awards dello scorso anno.

Settimo posto alla signora Kathleen Robertson di Austin, Texas. Le sono stati riconosciuti 80.000 $ per essersi rotta una caviglia inciampando in un bimbetto che correva in un negozio di mobili.

Il proprietario del negozio è rimasto comprensibilmente sorpreso da tale verdetto, in considerazione del fatto che il bimbo in questione era il figlio di Kathleen.

Sesto posto a Carl Truman, diciannovenne di Los Angeles, California. Il suo vicino di casa è stato condannato a pagare 74.000 $ più le spese mediche, per avere schiacciato una mano a Carl con la sua vettura.

Pare che il birichino ma disattento Truman non si fosse accorto che c’era qualcuno al volante della Honda del vicino, a cui stava cercando di rubare i copri-cerchi dalle ruote della macchina.

Quinto posto a Terrence Dickson, di Bristol, Pennsylvania. In procinto di lasciare una casa che aveva appena finito di svaligiare, si è trovato davanti alla porta automatica del garage che si rifiutava di collaborare, aprendosi. Nel frattempo, anche la porta di collegamento alla casa si era richiusa, imprigionando lo sfortunato malfattore. Costretto a sopravvivere per otto giorni con una cassa di Pepsi e un sacco di crocchette per cani, Terrence ha avuto la brillante idea di citare l’assicurazione del padrone di casa, lamentando di aver subito un’ingiusta sofferenza mentale.

Controllate bene che la porta del vostro garage funzioni regolarmente: la giuria ha sentenziato che l’assicurazione deve pagare al ladro Dickson – siete pronti? – 500.000 $, per l’angheria sopportata. Mezzo milione di dollari per una settimanetta a Pepsi e Ciappi? Alzi la mano chi non ci starebbe.


La classifica continua domani, con i contendenti più meritevoli!


Prima pubblicazione : 7 novembre 2009

martedì 10 gennaio 2012

Chi l’ha visto

Ruberie all’aeroporto. Un nuovo giallo di Agatha Christie? Poirot si aggiorna, passando dagli affascinanti treni d’epoca a nuovi e più moderni mezzi di trasporto? No. È solo un titolo eclatante dell’edizione on-line del quotidiano di Singapore.

La polizia chiede collaborazione ai cittadini, per risolvere dei casi di furti, appunto al Changi Airport. Se una tale notizia vi fa pensare a scaltri predatori di valigie con tanto di falso bagaglio senza fondo, alla Totò, oppure a disonesti addetti ai nastri che sottraggono beni di valore dagli indifesi colli di ignari viaggiatori (Malpensa docet), o ancora a leggiadri borsaioli, pronti a sfilare portafogli gonfi di pregiate valute straniere a stremati passeggeri in arrivo da chissà dove, beh, vi sbagliate.

La Legge cerca questi due malfattori, sorpresi dalle telecamere a sgraffignare qualche oggetto dagli scaffali dei piccoli supermercati aeroportuali. Chiunque li riconoscesse è invitato (ed è di quegli inviti che suonano molto simili a ordini) a telefonare al numero verde 1800-255-0000. Nemmeno difficile da ricordare. Non avete proprio scuse di sorta: non si paga neppure la chiamata.

E ricordatevi: low crime doesn’t mean no crime.

Capite perché li ho definiti, giusto di recente, dei perfezionisti?


sabato 7 gennaio 2012

Perfezionisti

Gran parte delle nazioni del mondo si leccherebbero i baffi ad avere i record di sicurezza e di livello di crimine di Singapore. Invece quegli eterni perfezionisti non si accontentano mai. E fanno bene. Perché solo attraverso il costante impegno, il diuturno esercizio della giustizia – con puntualità ed equità, e soprattutto senza i soliti privilegiati che posson sempre farla franca perché contano qualcosa ed hanno gli amici nei posti giusti – si riesce a mantenere quell’invidiabile primato della città-stato detta la Svizzera d’Oriente.

Low crime doesn’t mean no crime. Poco crimine non equivale a niente crimine. Non nascondere la testa nella sabbia come gli struzzi, suggerisce graficamente il manifesto della campagna pubblicitaria governativa applicato su un taxi. Stai all’occhio. E i cittadini eseguono alla lettera. Se accade qualcosa di anormale chiunque è pronto a telefonare alla polizia, per segnalare un comportamento illegale, un pacco sospetto in un luogo pubblico, anche un evento veniale, che da noi susciterebbe l’ilarità dei gendarmi e l’invito a disturbarli per cose più serie.

Trovo straordinario questo non accontentarsi, il non sedersi sugli allori, il volere solo e sempre il meglio per se stessi e per i propri concittadini, da parte degli amministratori di Singapore. Poco crimine è pur sempre un crimine, e non ci basta. L’acquiescenza alla piccola malefatta è il primo passo verso l’accettazione di comportamenti criminali peggiori.

Non ho mai avuto occasione (non so se dire per fortuna) di far conoscenza con un giudice di Singapore. Almeno socialmente mi sarebbe piaciuto, però. Perché se sono tutti così convinti della loro missione come il giovane giudice distrettuale Marvin Bay, allora sono un esempio per qualsiasi magistrato al mondo. Vestito con tuta, mantello rosso e cappello, Captain Justice, supereroe sconfiggi-crimine, ha recitato la parte davanti ad una trentina di bambini partecipanti ad un programma filantropico mirato a migliorare l’istruzione e a prevenire la delinquenza giovanile. Ha cantato la canzone “Capitan Giustizia arriva in città” e a distribuito piccoli doni agli spettatori in erba. Alla fine ha consegnato un assegno di cinquemila dollari, soldi raccolti tra il personale dell’Ente Giustizia Civile, ai rappresentanti del benefico sodalizio.

Forse gesti come questo susciteranno dei sogghigni da parte di qualcuno in Italia. Ma è sapendo comunicare con i cittadini del domani, creando in loro un senso di fiducia e di complicità, non di soggezione e diffidenza, che si gettano le fondamenta per una società che vuole continuare a vivere rettamente. E se il giudice Marvin Bay non si vergogna a travestirsi da supereroe per perseguire la sua missione, lode a lui.

Di quanti Marvin avremmo bisogno in Italia, per tentare di iniziare a renderla una nazione civile? OK, come non detto. Non basterebbe l’intera popolazione di Singapore. Perché se ognuno di noi non ha dentro di sé i semi dell’onestà e dell’orgoglio della propria missione, nemmeno un esercito di supereroi ci trasformerà mai in una società sana.

domenica 11 dicembre 2011

Macellai in guanti bianchi

I miei più vecchi lettori (temporalmente, non d’età) sanno che ho poche, ma ricorrenti fissazioni. Una è la lotta senza quartiere all’idiozia umana che porta a bere alcolici e poi a guidare una macchina (e purtroppo spesso ad ammazzare degli innocenti). Un’altra è la condanna senza mezzi termini della ripugnante sconcezza chiamata pedofilia. Poi c’è la passione per certi sport minori (almeno, da noi sono tali), tipo il rugby, e l’idiosincrasia per l’osannato pallone (sferico).

Infine c’è Sea Shepherd. Le sue lotte contro la dissennata caccia alle balene e ai delfini. Contro l’incongruenza di un sistema che formalmente proibisce tali stragi, salvo offrire la comoda scappatoia della “ricerca scientifica”. Contro chi, forte di potere economico e carico di arroganza, pratica una caccia illegale ed in territori marini protetti, santuari di riproduzione violati degli arpioni esplosivi della flotta mercantile nipponica.

Se non puoi sconfiggerli faccia a faccia, devono aver pensato i cinici responsabili di tali stragi, attaccali al fianco, quello scoperto e potenzialmente debole, con un espediente che si chiama citazione in tribunale. Così la Kyodo Senpaku Kaisha, armatrice (in più di un senso) delle navi baleniere, insieme con l’Istituto per la Ricerca sui (o dei?) Cetacei – che nome pomposo, vero, per una macelleria formato gigante – hanno chiamato in giudizio negli Stati Uniti la Sea Shepherd Conservation Society ed il suo fondatore e uomo simbolo Paul Watson, per cercare di far proibire la loro interferenza nelle consuete attività di caccia alle balene.

Queste bestie devono proprio valere un bel gruzzolo, se i succitati signori hanno potuto investire qualcosa come trenta milioni di dollari in una guerra legale contro chi si prodiga – e con successo – per impedir loro di razziare, stagione dopo stagione, i Mari del Sud. Sea Shepherd afferma che tali ingenti capitali sono stati stornati dai fondi governativi giapponesi allocati per la ricostruzione post-tsunami. Sarebbe interessante sapere quanti senzatetto della prefettura di Miyagi preferiscano un bel filettino fresco di balena ad una nuova casa.

Capitan Watson sa che questo attacco è strumentale, mirato a distrarre risorse, morali e finanziarie, dall’unico obiettivo di disturbare e prevenire la prossima strage nell’oceano australe. Critiche, burocrazia, processi, politici collusi con il potere economico non lo spaventano.

Lo spaventa invece la prospettiva di un mondo spopolato dai grandi cetacei. E per questo continua a lottare, giorno dopo giorno, con l’entusiasmo di un ventenne, contro i nuovi predoni.

Il crimine non è impedire alle navi Nisshin Maru e le varie Yushin Maru di eseguire la loro mattanza. È di continuare a lasciargliela fare, e per di più ipocritamente mascherata da ricerca scientifica. Speriamo che il tribunale statunitense se ne renda conto. E sentenzi coerentemente.

domenica 17 luglio 2011

Il paese del bengodi

Sono i piccoli episodi a dirla lunga sul miserevole stato del rispetto delle regole in Italia. Viareggio, stazione ferroviaria. Un giovane romeno viene sorpreso a forzare la cassettiera di un telefono di una pensilina. Primo errore: ci sarà già chi dice cosa vuoi che sia, c’è ben di peggio in Italia. Vero: ma non per questo rubare può diventare giustificato. Né è lecito lanciarsi in analisi sociologiche sul disagio degli immigrati, con assoluzione morale preventiva.

Il furfantello, vista la polizia, scappa, si nasconde su un treno e quando viene acciuffato minaccia i gendarmi: dirò al giudice che mi avete picchiato durante l’arresto.

Tattica certamente ritenuta efficace, e purtroppo non a torto: ci sono buone probabilità che il mariuolo incontri un giudice che alla fine mette sotto inchiesta i poliziotti, e magari trova la maniera di mandare assolto un ladro colto con le mani nel sacco.

Quando apprendo fatti del genere, mi corre immediatamente il pensiero a Singapore. E alla sua giustizia orientata unicamente verso un obiettivo. Incentivare i comportamenti leciti, punendo severamente, rapidamente e diligentemente l’illegalità. A Singapore i poliziotti non picchiano gli arrestati. Non si sostituiscono ai giudici. Non ce n’è bisogno. Ad ognuno il proprio ruolo.

A Singapore nessun ladro ricatterebbe una guardia che lo sta arrestando. Perché a Singapore i giudici stanno dalla parte della legge. E sono loro a poter – legalmente – comminare un numero di frustate proporzionale alla gravità del reato. Metodi correttivi estremi? Certo. Ma provate una sera a passeggiare per il centro (o per la periferia, fa lo stesso, è altrettanto sicura) di Singapore, provando un senso di tranquillità che da noi è da lungo tempo perduto.

Dirò al giudice che mi avete picchiato, dice il ladruncolo rumeno di Viareggio, sperando di evitare una condanna e di inguaiare due sgherri. Gli fosse successo a Singapore, avrebbe scongiurato gli agenti di esser indulgenti nel verbalizzare il suo reato. Perché lì è il giudice – davanti al quale si compare in una questione di giorni, talvolta di ore – a decidere se basta un po’ di gattabuia, oppure è appropriato assegnare una punizione fisica al malfattore. Sei colpi di rattan, ben affibbiati sulle terga snudate del reo, lasciano un segno. E non parlo solo del sedere.

domenica 26 giugno 2011

Riso amaro

Amici scrittori dilettanti, mi rivolgo a voi. Metti che un giorno capitiate in un ristorante che non conoscevate. Il padrone è antipatico, ai limiti della prepotenza. Il cibo deve essere caduto accidentalmente in un mastello di sale: immangiabile. Vedete passare rapidi sul pavimento degli scarafaggi che sembrano ansiosi di abbandonare la cucina.

Ecco un consiglio che vi verrà utile, specie se quanto sopra vi accadesse durante una vacanza a Taiwan: portatevi una macchina fotografica, meglio se abilitata a girare dei piccoli video. Perché dopo un’esperienza del genere, vi verrà la voglia di raccontarla nel vostro blog. Come ha fatto la signora Liu Ying-hui, pensando di evitare brutte avventure gastronomiche ai suoi lettori.

Esposte in rete le magagne riscontrate, Liu è stata citata per diffamazione dal proprietario dell’apparente tugurio, da cui perfino le blatte cercano di scappare. Processo. Sentenza. Il giudice le ha ordinato di pagare al padrone del locale circa 5.000 Euro a titolo di risarcimento. Secondo lui “si sono oltrepassati i limiti di una recensione appropriata”, perché la cliente non è stata in grado di portare alcuna prova delle sue affermazioni. La blogger si è beccata pure una condanna a due anni con la condizionale, sospesa perché Liu ha acconsentito a pagare la vergognosa gabella. Ma intanto la sua fedina penale è sporca.

Quindi attenzione: se anche vi trattano a pesci in faccia, il cibo fa schifo ai cani e l’odore ricorda più una discarica di rifiuti che una trattoria, se non avete con voi un mezzo di registrazione, lasciate perdere. Parlatene agli amici, passate parola, ma evitate di scriverne. Perché potrebbe capitarvi una disavventura come quella della signora Liu. Con una differenza, in Italia: visti i tempi della giustizia ordinaria, il risarcimento lo incasseranno gli eredi del ristoratore. E non è detto che siano i figli.

sabato 11 giugno 2011

Morale mortale

Dramma in tre atti. Teatro della storia: Xi’an, città dell’esercito di terracotta. Epoca: ottobre dello scorso anno. I personaggi: Yao Jiaxin, studente di conservatorio, 21 anni, famiglia ricca. Zhang Miao, contadina, sposata, madre di un bimbo.

Atto primo – un banale incidente si trasforma in reato. Yao, alla guida della sua vettura, urta Zhang e non si ferma a prestarle soccorso. Quando si accorge che lei sta cercando di annotare il numero di targa, torna indietro, scende dalla macchina e la accoltella a morte, colpendola ripetutamente al petto, allo stomaco e alla schiena. Maniera piuttosto sbrigativa ma indubbiamente efficace per risolvere eventuali richieste di danni per un’invalidità derivante dall’incidente. Nel fuggire dalla scena del delitto investe altre due persone e viene infine bloccato da una folla inferocita. Solo dopo due giorni la polizia collega i due episodi e lo arresta.

Atto secondo – delitto e castigo. Il tribunale di Xi’an, in considerazione della malvagità del crimine, del danno irreparabile causato alla famiglia di Zhang, della disparità sociale tra l’assassino e la vittima, condanna Yao a pagare una compensazione di 5.000 € ai parenti di Zhang. Ma soprattutto punisce l’omicidio volontario, sentenziando per lo studente la condanna a morte.

Il suo avvocato impugna la sentenza, appellandosi alla giovane età dell’imputato e al suo avere agito d’impulso, senza premeditazione. Vuole ottenere clemenza, un verdetto più mite. Vuole che Yao sopravviva alla sua irresponsabile follia. Sono passati sette mesi dall’omicidio. La Corte Suprema di Giustizia conferma la pena. Martedì scorso, 7 giugno, un Yao incatenato e in lacrime firma gli ultimi documenti prima di esser condotto al patibolo.

Atto terzo – le reazioni: vincitori e sconfitti. Dice il commentatore Li: solo il sistema giudiziario vince. Tutti gli altri personaggi coinvolti, le famiglie di vittima e assassino, sono perdenti. Un gruppo di professori del conservatorio dove studiava Yao ha lanciato un appello – inascoltato – per la sua salvezza. Un ricco immobiliarista ha osato scrivere sul suo blog: prego per lui. Provo tristezza nell’ascoltare la notizia della sua esecuzione. È stato immediatamente inondato di commenti critici quando non offensivi, per aver preso le parti di un assassino. Ha dovuto in tutta fretta rettificare la sua dichiarazione, indicando che la sua pietà andava al padre del giustiziato. Che a sua volta ha lamentato l’insensibilità della giustizia: non ha potuto neppure vedere il figlio da morto. Gli è stata resa solo un’urna con le ceneri, dopo la cremazione.

La rabbia popolare non si rivolge alla condanna a morte. Si focalizza soprattutto sull’arroganza delle classi agiate, e approva questa esemplare punizione, a monito di tutti i giovani rampolli che credono di poter risolvere ogni evenienza della vita con il denaro paterno e con la rete di connessioni e aderenze in alto loco. Come dice Li: vince la giustizia, ma perde l’uomo.

venerdì 3 giugno 2011

Basta

Mattia Veschi. Quindici anni, una vita sul nascere, troncata dall’ennesimo assassinio idiota. Nettuno, domenica criminale. Un romeno ubriaco, alla guida di un’auto con l’assicurazione scaduta, lo travolge e uccide. E scappa. Lasciando un ragazzo morto, lì, sull’asfalto, la bicicletta lanciata lontano. Poi, sentendosi braccato, si costituisce. Due giorni in guardina, e subito un giudice di Velletri lo scarcera.

Qualcuno mi deve spiegare perché io non posso portare nemmeno una limetta per le unghie o un tubetto di dentifricio su un aereo, e potrei venire arrestato se insistessi per farlo, mentre invece nessuno arresta chi insiste a salire – senza averne il pieno controllo, essendo criminalmente e dolosamente incapacitato – su qualcosa che pesa almeno una tonnellata, viaggia a cento e passa all’ora, è in grado di sfondare un muro di una casa, figuriamoci cosa può fare a un ignaro ragazzo in bicicletta. E intendo dire questo: arrestarlo PRIMA che uccida qualcuno, non dopo, che ormai è troppo tardi.

Perché si deve continuare a leggere di ubriachi al volante che ammazzano, straziano famiglie, strappano speranze e futuro a dei genitori impotenti? E poi perché c’è sempre qualche giudice che due o tre giorni dopo manda fuori questi assassini? Qualcuno mi risponderà: perché – semplicemente – sta applicando la legge. Allora è una legge del cazzo, questa. Questa sarebbe una legge da abrogare, cambiare, rovesciare, non le tante altre fatte ad personam dalla ineffabile legislatura che ci governa (?). E urgentemente, senza aspettare che ci sia il prossimo morto, le prossime lacrime autentiche dei parenti e di coccodrillo della stampa, la prossima ipocrita scarcerazione.

Sento che Matteo Renzi, sindaco di Firenze, si sta muovendo in questo senso. Ha lanciato una campagna per creare il reato di omicidio stradale, per aggravare le pene di chi uccide alla guida, per lottare contro ubriachi e drogati al volante. Bene, bravo. Tutto il mio appoggio, per quel che valga. È un inizio, ma non basta. Bisogna prevenire, non curare. Specie perché spesso, troppo spesso, non c’è più nulla da curare, ma solo da seppellire l’ennesima vittima e cercare di far sopravvivere dei parenti straziati da una perdita così ingiustificabile.

Questa non dovrebbe essere una battaglia politica, ma civile. La destra si schiera sempre con posizioni forti contro questi episodi. A ragione, perché meglio una voce solitaria che il silenzio assordante di certa sinistra. Per questo plaudo a Renzi, uomo schierato a manca. Perché da destra si pretendono punizioni estreme, e solo l’infinita e inenarrabile rabbia di una madre a cui è stato strappato un ragazzo quindicenne può spiegare – e perfino giustificare – il suo invocare la pena di morte per l’assassino di suo figlio. Ma spesso nelle dichiarazioni dei politici c’è un vago, indefinibile eppure presente sentore di xenofobia. Anche perché è un dato di fatto: gli assassini ubriachi al volante sono più di frequente stranieri. Perché l’Italia è considerata il paese del bengodi, dove puoi fare quello che ti pare, tanto la sfanghi sempre.

Cosa serve? Che non ci sia alcun distinguo, che chi uccide, italiano o straniero, sia punito alla stessa maniera, e soprattutto che ci sia la certezza della pena. Chi governa, chi amministra, chi legifera, dovrebbe fare leggi non sull’onda emozionale del fatto clamoroso, ma dosando razionalmente la punizione in base al crimine, con in mente il benessere della società, di ogni individuo della società.

Non è la prima volta che scrivo su questo tema. Vorrei che fosse l’ultima, ma so che è un’illusione. Per questo continuo a parlarne, ad arrabbiarmi contro l’ingiustizia del non prevenire morti crudeli e evitabili. Per questo ho firmato, e invito tutti a farlo, l’adesione all’iniziativa di Renzi. No agli omicidi stradali. Perché non ci siano più una madre, un padre, un fratello, una sorella che debbano affrontare quello che stanno patendo oggi i parenti di Mattia.

Firmate qui. Per favore. Domani potrebbe essere il vostro, di figlio.

lunedì 6 dicembre 2010

Il biondino della spider rossa

Ci sono cose nella vita che non si vogliono sapere. Che – razionalmente – la testa rifiuta. Che il cuore non riesce ad accettare. Non è possibile, continui a ripeterti. Non è vero. Non può essere vero. Non deve essere vero. E invece.

Ho seguito da lontano, dall’estero, il dramma della piccola Yara. Certe vicende, per motivi reconditi ed indefinibili, ti toccano più da vicino di altre. Sarà quel musetto da bimba pulita. Sarà che da certe lordure pensi sempre che le terre civili del norditalia siano esenti – o almeno, così ti illudi. Fatto sta che ho continuato a pensare a quei genitori in crescente angoscia, sconforto, disperazione. La follia dietro l’angolo. E a quella bambina scomparsa che non si trova, ma perché non si trova, maledizione?

E così, dal profondo della memoria sopita, dai recessi di chissà quale strato geologico del vissuto già seppellito da ricordi più recenti, è riaffiorata intatta una storia di gioventù. Milena Sutter.

Genova, 1971. Lei aveva tredici anni. Io due di più. Una mia coetanea, dal nome noto, lo vedevi nei supermercati, nel reparto delle cere da pavimento. Odore di buono, quando mia madre lucidava i pavimenti. Il flacone marrone con le scritte forse ocra e la maniglia per impugnarlo meglio. Che cosa curiosa è la memoria. Un pensiero. Un sentimento che ti agita dentro. Ed improvvisamente, come una minestra rigirata da un mestolone, ecco che aggallano pezzi misti di passato. Milena Sutter. Il delitto del biondino della spider rossa. Bastardo, ricordo di aver pensato mille volte.

All’epoca a quindici anni si era idealisti. Le ragazze si baciavano timidamente, alcune arrossivano ancora per questo ardire. C’erano buoni sentimenti, ed un istinto di protezione del branco che manco i cani.

Per questo mi aveva infiammato quel delitto. Perché uccidere una nostra coetanea, buttarla in mare con una zavorra da sub per non farla ritrovare, e chissà che altre brutture, era una cosa da schifosi. Da vigliacchi. Da grandi che se la prendono coi più piccoli. Allora sedevo idealmente dall’altra parte dello schieramento politico. Se lo avessi preso, un verme del genere, assassino e forse violentatore, avrei voluto giustizia sommaria. Macchè processo. In mano ai parenti. O forse nemmeno, erano svizzeri, troppo civili, forse il loro composto dolore non prevedeva la vendetta. L’avremmo fatta noi. Milena meritava questo, anche se non la conoscevo, se non per quelle foto sui giornali, nei quindici infiniti giorni dalla scomparsa al ritrovamento.

Sono passati quasi quarant’anni. Di Milena Sutter pochi ricorderanno il nome, e molti giovani non l’avranno neppure mai sentita nominare. Ma quella stessa rabbia, quel senso di ingiustizia suprema che governa i fatti quotidiani, quello schifo che sale da dentro e fa odiare certi indecenti rappresentanti della razzaccia umana, tutto questo pout-pourri di sapori amari l’ho riprovato di nuovo, quasi intatto, nei confronti degli assassini di Yara.

Fa male capire che le illusioni, l’impossibile lieto fine, il ritrovamento di una adolescente magari un po’ frastornata ma in fondo sana e salva, non ci sarà. Fa un male bastardo. Bastardo come chi l’ha uccisa. Portando via la luce e la vita a dei genitori impotenti.

Non sono religioso, non frequento chiese. Non riesco ad esercitare la suprema virtù del perdono in casi del genere. Non ho più l’ardore giovanile, il fuoco giustizialista e forcaiolo che avrebbe voluto un linciaggio per Bozano, assassino di Milena Sutter.

Ma la voglia che l’Italia non sia un paese di cui vergognarsi, in cui si può ancora morire bambine di tredici anni per mano di un uomo, e che questo – chiunque sia – se la possa cavare con qualche annetto di galera, e poi oplà, un bell’indulto e liberi tutti, come a nascondino, quella c’è sempre.

La voglia che chi ha compiuto un delitto così infame venga punito adeguatamente. La voglia di dire, ora basta. Chi uccide paghi, e paghi caro. Ci sono delitti che vanno puniti in maniera esemplare. Mai più un genitore deve aver paura di rischiare quello che sta passando la famiglia di Yara. Arrivo a dire questo: vorrei che questo dramma fosse successo a Singapore. Perché lì ci sono giudici che comminano la pena di morte per fatti del genere. Siete contrari? Dissentite? Padronissimi. Per me uno che ammazza una tredicenne e seppellisce il cadavere chissà dove, lasciando in un’angoscia esasperante una famiglia per delle settimane, non merita di continuare a far parte del consesso terrestre.

Voglio solo ricordare questo: Milena fu uccisa nel ’71. Bozano, riconosciuto colpevole del delitto, si rese uccel di bosco tra un grado e l’altro (altra ridicolaggine italiana: ci vogliono da dieci a vent’anni per arrivare ad una sentenza definitiva. No comment.). Riacciuffato nel ’79, dell’ergastolo originariamente sentenziato scontò solo 14 anni. Nel ’91 ottenne la semilibertà, lavorando il giorno fuori di prigione. Tale regime gli fu revocato dopo che si rese colpevole di altri pesanti approcci nei confronti di minorenni. Il lupo perde il pelo ma non il vizio, dice il proverbio. Perché offendere il nobile animale? È l’uomo, schifoso e bastardo, che non perde mai il vizio. Il giudice che concesse la semilibertà ad un simile rifiuto mal riciclato è colpevole quanto l’assassino. Certi personaggi non meritano una seconda chance. Perché ne abuserebbero. Viva Singapore. No alla nostra, cosiddetta, giustizia. Che tutto è, meno che giusta.

lunedì 28 giugno 2010

Spray e frustate

Avete mai pensato che in giro per il mondo c’è chi somministra ancora delle punizioni corporali? Penitenziagite. Ce lo ha insegnato la Santa Madre Chiesa che umiliare il corpo fa bene all’anima.

Oggi è alla ribalta della cronaca di Singapore il caso esecrabile del trentaduenne svizzero che, con un complice inglese, si è nottetempo intrufolato nel deposito del materiale rotabile della metropolitana ed ivi, armata la mano di bomboletta spray, ha disegnato un graffito – in realtà, ha scritto un esoterico nome, McKoy Banos – sulle fiancate di un paio di dormienti vagoni. Questo nella notte tra il 16 e il 17 maggio. Non del 1993, come sarebbe verosimile in un fatto criminale italiano, ma di quest’anno.

L’improvvisato pittore Oliver ha ricevuto una sentenza di cinque mesi di carcere e tre colpi di rattan per vandalismo di proprietà pubblica, violazione di area sorvegliata e taglio della recinzione protettiva.

Che cosa abbia spinto i due allegri compari a fare questa mattata non è dato sapere. Forse l’alcool, che peraltro non è considerato un’attenuante dalle Corti di Singapore. Anzi.

Tre colpi di rattan. Detto così non fa un gran effetto. In fondo, quanti sanno che cosa sia il rattan? Ebbene, questa storia ci dà lo spunto per fare qualche sana riflessione.

Tanto per cominciare, mai ce ne fosse stato bisogno, è la conferma che l’essere straniero non dà diritto ad alcun genere di impunità. Quando sei a Roma, fai come i romani. E a Singapore, da qualsiasi paese tu provenga, bada bene di fare come i singaporeani.

Che non hanno affatto preso bene la sentenza. Troppo mite, si scatenano gli internauti locali. Ma come, tre soli colpi di rattan? Appena cinque mesi di galera? Tanta gente chiede, se fosse stato un locale o un cittadino cinese, invece che uno svizzero, quanti colpi gli avrebbero dato? E quanti anni, visto che la pena per i suoi reati poteva arrivare a cinque anni? Uno sconto clamoroso, mesi invece che anni.

Poi c’è chi mette il dito nella piaga, sottolineando che l’elvetico reo altro non ha fatto se non evidenziare le carenze della sorveglianza notturna di un’area di interesse strategico. E se invece che di una bomboletta spray, il nostro fosse stato armato di una bomba a tempo, da nascondere in una carrozza e far deflagrare quando era piena di pendolari? Se uno svizzero si può far beffe di recinzioni e zone sorvegliate, che tutela offre la città-stato contro i terroristi di Jemaah Islamiyah?

C’è infine uno zoccolo duro di xenofobi che suggeriscono di trasmettere in diretta la fustigazione, qualcuno si offre volontario per somministrare le frustate, altri vorrebbero i colpi così violenti da costringere lo scriteriato bombolettaro a viaggiare tutto il tempo in piedi, da Singapore alla Svizzera, dove certamente verrà estradato una volta scontata la pena.

La seconda doverosa riflessione riguarda la terrificante rapidità della Legge. Un mese e mezzo per un processo penale. Da noi non basta nemmeno per leccare le marche da bollo da appiccicare sulla citazione. L’uomo ha presentato appello. Col rischio di vedersi aumentata la sentenza, visto che il terzo reato è ancora in sospeso, ed i cinque mesi sono stati comminati per i primi due.

Le terza riguarda l’accanimento del popolo contro lo straniero, reo di fregarsene degli usi e delle leggi locali. Sorprende che sia stato proprio uno svizzero a macchiarsi di tale onta. Uno se li immagina tutti belli precisi, come i loro orologi, rispettosi dei limiti, attenti a non oltrepassare il muro rassicurante della decenza. E invece vedi un po’ il buon Oliver, consulente aziendale nel settore IT, cosa ti combina.

L’ultima non è una riflessione, ma un invito. Se non avete idea di cosa significhi la fustigazione col rattan, in vigore sia a Singapore che in Malaysia, fate come me. Guardate – se ce la fate, fino in fondo – un video che è un pugno nello stomaco. Ma fa riflettere, ammesso che uno ne abbia voglia e coscienza. Se ci fosse più gente che lo fa, magari diventerebbero un po’ meno i fautori di questa punizione corporale, i sostenitori della corrente di pensiero che si domanda, perché tre colpi soli, giudice? Singapore sta forse diventando acquiescente con gli stranieri?