Visualizzazione post con etichetta Animali. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Animali. Mostra tutti i post

venerdì 30 maggio 2014

Gli uccelli


Sensazioni hitchcockiane. Un uomo mi vede fotografare una piccola e ben addestrata pattuglia di corvi che ha scelto l'interno dell'aeroporto di Amritsar come nido. That's India for you, mate, mi dice ridendo. Lo credo australiano, anche dall'accento, invece è inglese - ma di chiare origini locali.

Indisturbati, gli uccelli proseguono la loro esibizione acrobatica, volteggiando tra i passeggeri in coda per l'imbarco e infine atterrando leggiadramente sugli schienali delle poltroncine alla ricerca di briciole di colazioni consumate frettolosamente prima del decollo.

Un festoso cra-cra di ringraziamento accomiata i generosi umani che hanno lasciato un tangibile dono ai neri padroni di casa. That's India for you, mate!






venerdì 7 febbraio 2014

Scatti cinesi: animali

Segue da ieri.


Due monumenti, due significati. Il cavallo umile strumento di lavoro e di fatica quotidiana, e quello fiero e impavido di un condottiero. Come tra gli uomini, ci sono animali guerrieri e altri operai. Certi percorrevano per tutta la vita la via del tè, versione minore della più nota via della seta, recando nelle gerle preziosi carichi di foglie essiccate e pressate per risparmiare spazio e al contempo prevenirne l’ammuffimento. Altri, protetti talvolta da rudimentali armature, guidavano i guerrieri in battaglie di conquista o di difesa. Entrambi indispensabili all’uomo per portare a termine le proprie imprese.


A proposito di operai. La seta cinese è famosa, una volta chi cercava di rubare i segreti della lavorazione dei bozzoli rischiava la morte. Oggi, seppur con tutti i macchinari inventati dall'uomo, la cernita dei bozzoli è ancora un'operazione manuale, come in questa fabbrica di Suzhou. Da ogni bozzolo si arriva ad estrarre un singolo ininterrotto filo lungo fino a un chilometro. Sembra che ti spieghino tutto, nel giro di visita. Ma non è vero. Come i maestri di arti marziali: ti insegnano mille mosse, ma mai l’ultima. I segreti sono segreti.


Povera bestia, spaurita dai rumori e dagli odori della città. Un falco, incappucciato per impedirne la fuga. Appollaiato su un misero e sudicio trespolo, su una strada di transito di Shanghai, in balia di passanti curiosi, di motorette puzzolenti di passaggio, di autobus turbolenti che gli agitano il piumaggio. Com’è lontano il cielo terso. Com’è lontana la libertà.


Non poteva mancare in questa rassegna l’animale simbolo della Cina. Forse non tutti sanno che oltre al Panda Maggiore, abitante dello stemma del WWF e delle foreste del Sichuan, c’è anche il Panda Minore. Simpatico orsacchiotto mezzo fulvo e mezzo nero, di taglia come un grosso gatto, dagli occhi furbi e malandrini. Vive in branchi, al contrario del cugino juventino che predilige la solitudine. Non fatevi ingannare né dall’esigua figura né dai curiosi colori da peluche del manto. Un cartello nella riserva vicino a Chengdu avverte di resistere alla tentazione di carezzarli, perché sono mordaci. E quando i cinesi si prendono la briga di avvisare, farete bene a crederci. Se ci tenete alle dita.



Continua... qui.

martedì 28 gennaio 2014

Only in Australia

Road train è un termine familiare solo a chi conosce un po’ l’Australia. Ogni tanto in autostrada si incontrano degli autoarticolati di particolare lunghezza e capacità di carico. Il potente trattore stradale tira non il solito singolo rimorchio autoarticolato, ma ben tre. Per una lunghezza complessiva di oltre 50 metri. Per carità, che non debba mai fare manovra in retromarcia!

Un amico mi manda delle foto dalla terra dei canguri. Anche loro, seppur abituati alle esagerazioni, talvolta riescono ancora a sorprendersi di se stessi. Ecco le ragioni.

Un convoglio più somigliante a un treno merci che non ad una fila di camion come la conosciamo noi. Lassù, nel deserto rosso dei Northern Territory, una processione di road trains carica bestiame in una stazione presso Tennant Creek.

Dopo aver terminato le operazioni, il treno dei treni continua il suo lungo viaggio, in parte su sentieri sterrati. Percorrerà oltre milletrecento chilometri per raggiungere il mercato di Longreach, nel Queensland.

Un po’ di numeri, per dare l’idea di quanto eccezionale sia questa traversata desertica.

Diciassette camion; tre trailers per camion; due pianali per trailer: fanno 102 pianali da caricare di bestie.
Circa 28 animali per pianale: in totale, 2.856 capi.
Ogni capo pesa circa 500 chili.
Il prezzo del bestiame all’ingrosso a Longreach è di 1 dollaro e 65 cent al chilo.
Ogni animale viene venduto per 825 dollari.
Il valore totale della mandria trasportata è 2.356.200 dollari.
La colonna è lunga circa 900 metri. Roba da pregare di non doverla mai sorpassare!!

Quasi un chilometro di carovana e due milioni e mezzo di dollari di mucche. Questo si chiama far le cose in grande. Only in Australia.





martedì 17 dicembre 2013

Whistleblowers

C'era una volta un piccione viaggiatore. Che si portava appresso un curioso taccuino, e raccontava a tutti che quella era la sua macchina fotografica.

Poi un giorno il piccione cadde in tentazione. Fedele fino ad allora al mantra della pellicola, capitolò di fronte alle lusinghe della visione immediata del risultato, della leggerezza e compattezza del nuovo oggetto di culto, della praticità di avere con sé scorte quasi illimitate di fotogrammi. Insomma, in due parole abbandonò il rullino per il digitale.

E grazie, o forse dovrei dire per colpa di macchine sempre più piccole e potenti, pronte allo sfodero e allo scatto senza pensieri e senza titubanze, che tanto se vien male si cancella (poi) e se ne fa un’altra (ora), il taccuino lentamente fu messo da parte. Note, appunti e racconti in fieri divennero via via più rarefatti, la matitina le cui mine prima duravano il breve arco di una stagione riposò inutilizzata tra le pagine bianche che lentamente ingiallivano nella vana attesa di essere tappezzate di parole.

Era facile – e perfino divertente – scegliere qualche scatto e recensirlo brevemente. Un’istantanea parla da sé, talora non ha bisogno di nient’altro se non un titolo.

A volte ritornano. E questo capita quando il mondo ti passa davanti, ma le immagini scorrono troppo rapide per riuscire anche solo ad inquadrarle. Allora ti ricordi che ci vogliono la memoria, gli occhi e la penna, per riprodurle. E soprattutto il cuore.

Come mi è capitato, di recente, a Manila. Viaggiando in mezzo al traffico si vedono un sacco di affreschi di umanità varia. Scene di un attimo. Episodi minimi di vita quotidiana.

Cani protagonisti, nel bene e nel male. Vedo un cagnetto che fa da polena su un carrettino. Gli occhi sono socchiusi e sembra quasi che sorrida. Data la modesta velocità, non credo fosse per proteggerli dal vento. Magari una istintiva difesa contro l’inquinamento che ammanta come un sudario caliginoso la capitale filippina. Poco più in là, sulle spesse lastre metalliche di un cancello marrone, una mano ferma ha vergato a pennello bianco la scritta: beware of killer dogs. Attenti ai cani assassini. Per tenere lontani i malintenzionati? Forse. Chi ha veramente dei killer dogs non lo pubblicizza, per non dare inutili vantaggi ai banditi.

In certe ore (quasi tutte quelle del giorno) nel caos indescrivibile il traffico scorre lentissimo. Ore per fare pochi chilometri. Dalle onnipresenti jeepneys saltano fuori al volo dei passeggeri, subito rimpiazzati da altri clienti. Il trasporto pubblico è quasi interamente appaltato a questi microimprenditori dalle gomme lise, dal molto acciaio cromato e dalle decorazioni vivaci, spesso a tema religioso. L’autista, per aver sempre pronto il resto per i passeggeri, viaggia con delle banconote di piccolo taglio, piegate in due per il lungo, infilate tra le dita. Eppure riesce anche a guidare, spesso scalzo o in sandali, sgasando rumorosamente per conquistare di prepotenza la precedenza nel corpo a corpo tra lamiere di piccolo cabotaggio.

Un ragazzo semivestito fa la doccia sul marciapiede, attingendo l’acqua da un idrante appositamente svitato. Non gl’importa un fico secco della gente intorno, che peraltro non lo degna d’uno sguardo, mentre finisce le proprie abluzioni e sbuffa intorno l’acqua fredda che si versa sulla testa a mestolate, con una cucchiaia di plastica rossa da cereali.

All’angolo tra due strade sul marciapiede c’è un cubicolo di cemento arancione con una tettoia rialzata in lamiera. Ci sta dentro a malapena una persona, e la testa rimane a vista, per denunciarne senza dubbi l’occupazione. Public urinal, riporta una scritta manuale in bella grafia. Ma non basta: “courtesy of...”. Come dire, qualche mediocre amministratore locale ha sentito l’esigenza di far presente ai suoi concittadini che quel lussuoso vespasiano l’aveva fatto installare proprio lui in quel cantone, e quindi si aspettava della riconoscenza – sotto forma di voti, va da sè.

A proposito di politici. La gente è furibonda con la classe dirigente, che incassa stipendi da favola ma non si accontenta di questi. Pork barrel è sulla bocca di tutti, vivace espressione che indica l’uso fraudolento di fondi destinati ai lavori pubblici. L’ultimo scandalo? Nelle Filippine l’elettricità non viene distribuita con reti sotterranee. Come in Giappone, il paesaggio è costellato di pali della luce e talora di inestricabili matasse di fili che chi ci capisce è bravo. Tutto questo sartiame elettrico è stato spazzato via dai venti a 300 all’ora del tifone Yolanda, nell’isola di Leyte. Ricostruire queste infrastrutture di distribuzione d’energia si stima costi centinaia di milioni di dollari. Chi pensate che li pagherà? Ma naturalmente la popolazione sinistrata, che se vorrà accedere ai rinnovati servizi elettrici si troverà in bolletta la maggiorazione necessaria a coprire i costi della nuova rete.

Intanto a Manila il teatrino continua, con scaramucce tra congressmen (ma anche women) che si accusano l’un l’altro di essere ladri e approfittatori. Abitudine talmente diffusa e radicata da aver dato origine ad una figura molto in auge oggi : il wistleblower. Letteralmente chi soffia nel fischietto. Metafora per indicare chi è dell’ambiente e, improvvisamente schifato dalla troppa disonestà, si decide a parlare per denunciare il malaffare e la corruttela imperante tra chi governa. Mestiere apparentemente rischioso, quello del whistleblower, al punto che c’è chi ha proposto un progetto di legge per proteggere e incentivare con benefici economici questi fischiatori pentiti.

Forse è venuto il momento di ricordare ai miei quattro lettori che sto parlando delle Filippine. Che so io, vi foste distratti un attimo e la mente vi avesse portato a pensare che stessi raccontando di un’altra nazione a noi cara. Vedete voi quale.





domenica 31 marzo 2013

Bellezze al bagno

Sotto gli occhi di bronzo di un canguro all’abbeverata, un gabbiano mette in scena un’allegra prassi ablutoria in una fontana di Perth. Arruffa le penne, si tuffa nell’acqua bassa, sinuoso riemerge e infine dispiega le ali.

Libertà è scegliere di volare via, veleggiando senza sforzo nel vento, con la grazia silenziosa di un aliante. Come scrissi una volta in Corea: deve essere bello avere le ali.




venerdì 15 marzo 2013

Cani al volante

Guidi come un cane. Non si potrà più dire. Non nel senso offensivo con cui lo si usa, perlomeno. Perchè in Nuova Zelanda hanno trovato la maniera di farli guidare, i cani. Davvero, non è un pesce d’aprile in anticipo.

Si tratta di bestiole di canile, animali abbandonati, o salvati da padroni violenti, o semplicemente randagi raccolti per strada.

I volontari dell’associazione per la protezione degli animali hanno avuto un’idea speciale. Insegnare a tre di loro, su degli improvvisati simulacri di cruscotti, a compiere le manovre fondamentali. Curvare, frenare e perfino parcheggiare. Poi, su delle Mini adattate per l’evenienza, dopo due mesi di corso, questi volonterosi allievi hanno dimostrato in pista di essere capaci di condurre una vettura. Da soli, con l’istruttrice che li guidava alla voce, da fuori. Due su tre hanno passato il test. C’è gente che ci mette di più a prendere la patente, pur avendo la parola e un cervello che – forse a torto – riteniamo superiore a quello degli animali.

Hanno scelto apposta dei cani rifiutati, per sconfessare quel brutto preconcetto che l’ospite di un canile sia un essere di serie b, una bestia da scegliere solo se non si ha un’alternativa migliore, un’incognita da mettersi in casa con cautela.

Il motto di questa eccentrica iniziativa? Cani così intelligenti si meritano una casa.

Ma domandiamoci, piuttosto: noi boriosi e arroganti umani, siamo sicuri di essere degni di meritarci delle creature così?





lunedì 17 settembre 2012

Bello come un dio greco – Due (2a parte)

Segue da ieri.


Due giorni dopo l’operazione chiede che al letto vengano fissati degli elastici, per ricominciare a esercitare la gamba ed il braccio superstiti. E vuole un computer. Gli uomini non son bravi ad esternare i propri sentimenti, a parlare, a trovare conforto nella presenza di parenti e compagni d’arme. Più che conversare, Paul vuole leggere e documentarsi. Vuole capire come hanno fatto gli altri a vivere con le stesse mutilazioni.

C’è luce in fondo al tunnel. La prima gioia dopo tanto dolore. Allora ho un futuro! Potrò rifare le stesse cose. Magari un po’ più lentamente. Magari con un bel po’ di ferraglia addosso. Una frase australiana, la cui potenza espressiva è intraducibile, riassume il suo pensiero: it’s gonna be alright.

Sì. Attraverso il percorso di riabilitazione e idroterapia Paul fa progressi quotidiani. Tre mesi dopo l’incidente, stufo di piscine e gente che lo guarda come un miracolato, chiede e ottiene di tornare nel suo elemento. Spiaggia di Sydney, una nuotata nell’oceano. Non fa paura. Non più, e mai più, dopo quello che ha passato.

Uno alla volta, supera i piccoli e medi obiettivi che si pone. Sono le piccole cose, quelle a cui non pensiamo mai perché sono processi e maccanismi automatici, le più frustranti da affrontare. Come allacciarsi una scarpa. Scrivere con la sinistra. Guidare la macchina.

La negatività non fa parte del suo carattere. Paul si motiva con un pensiero costante e bellissimo: non lasciare che le cose che non puoi fare ti impediscano di fare quelle che puoi.

Per tornare ad essere se stesso ha bisogno di sentirsi libero. Libero da quel coacervo di medicinali che lo hanno aiutato, ma che ora offuscano la mente e disturbano il corpo: antidepressivi; antidolorifici; cicatrizzanti; ricostituenti. Basta con questi farmaci!

Ripulito dentro, è l’ora di tornare al lavoro. La Marina lo attende a braccia aperte. Sentire di avere un ruolo, il senso di appartenenza, motivare gli altri e dare un esempio riempiono la vita. Ma per una persona che si descrive, con straordinario senso dello humour, metà uomo e metà mountain-bike, non è facile accettare i limiti imposti dalla nuova condizione. Perfino i compagni d’arme, seppur per spirito di protezione, lo fanno sentire disabile, attento a questo, bada lì, quello è meglio di no. Insomma, più riunioni e chiacchierate in poltrona che operatività. Non è quello che voleva.

Positività e motivazioni vanno conquistati, non sono merce di facile disponibilità. Come molte altre vittime di attacchi di squali, Paul non porta dentro di sé rancore per l’animale che lo ha menomato. Anzi. Considera una grande fortuna aver potuto parlare a New York, alle Nazioni Unite, sostenendo una campagna per proteggere questo grande, primordiale predatore, alla vetta della catena alimentare. Cento milioni di squali vengono uccisi ogni anno per le loro pinne. Senza questa specie, gli equilibri del mare saranno compromessi per sempre. Ammirevole, per uno che a causa di un esemplare che ora sta difendendo ha dovuto affrontare un’odissea di sofferenza e patimenti.

Paul, dopo aver parlato per un’ora ad un auditorio ammutolito e affascinato, si accommiata con un breve video che racconta il suo percorso. Incluse le scene, confuse ma inequivocabili e drammatiche, dell’attacco, filmate dai suoi commilitoni sulla barca d’appoggio. E mentre scorrono queste immagini tremende, Paul chiude gli occhi, e chissà quali mille pensieri gli affollano la mente. Tutti riassunti in un motto: never give up. Mai rinunciare – a lottare, a fare cose, al proprio diritto ad avere una vita.


La musica sfuma. Applausi. Scende dal palco con un sorriso sincero, con quell’allegria contagiosa che solo un sopravvissuto sa trasmettere.

Lo incontro, gli parlo, ed è una bella persona, non solo sul palcoscenico ma anche nel colloquio diretto. Mi dice che è stato di recente in Italia, da vero aussie mi chiama mate, ma soprattutto mi offre la destra, quella artificiale, per una stretta di mano indimenticabile. I muscoli del braccio trasmettono impulsi all’arto bionico, che contrae le dita, oppone il pollice, impugna oggetti con una delicatezza e precisione insospettabili. C’è più calore umano in quella mano sintetica di tante in carne e ossa che ho stretto in vita mia.

Ho conosciuto una specie di robocop. Ma immediatamente simpatico e affabile come solo certi australiani sanno essere. E bello come un dio greco.




domenica 16 settembre 2012

Bello come un dio greco – Due

Sì, due. Perché Alex Zanardi era il protagonista del primo racconto così chiamato. Ma Paul de Gelder merita appieno lo stesso titolo. Incontrare Paul ti cambia la vita. Come la sua, che è cambiata mille volte.

Ex giovane scapestrato. Amicizie sbagliate, bevute scriteriate, droga. Spogliarellista da nightclub. Poi una nuova vita nata quasi per scommessa. La Marina Militare, il training duro, le forma fisica perfetta, un lavoro pericoloso ma stimolante come sommozzatore militare. Una missione a Timor Est, il contatto con villaggi che vivono ancora in maniera atavica: un’esperienza che insegna umiltà e apprezzamento per quanto si ha e spesso si dà per scontato. Al ritorno, un addestramento di mesi in vista dell’Iraq. Per sentirsi dire, all’ultimo, che non sarebbe partito. Come prepararsi per la finale e scoprire mentre si entra in campo che si resterà in panchina. Ma la svolta che cambierà ancora – e radicalmente – la sua vita arriva l’undici febbraio del 2009.

Baia di Sydney, un’immersione di routine, come tante. Finchè un grande occhio nero lo fissa da vicino. Troppo vicino. Uno squalo. Un urto violento. Non c’è dolore. L’addestramento militare subentra istintivo. Colpirlo a pugni sul muso. Ma la muta finisce all’altezza dell’avambraccio destro. Mentre la bestia strattona e trascina sotto, nel suo elemento, in un impari gioco di vita e di morte. Una rapida riemersione, una furente boccata d’ossigeno, e poi di nuovo in balia del pescecane. Un pensiero: è finita. Game over. Ma non è così. Liberato dalla morsa dei denti laceranti, ora occorre portarsi in salvo. Adrenalina a mille. La più lunga nuotata della vita, con la sola parte sinistra del corpo, verso il canotto dove i commilitoni lo soccorreranno. Issato a bordo. Una preoccupante sfilza di improperi del collega gli fanno capire che la situazione è grave, molto grave. Finalmente, sdraiato sull’assito della barca, sviene. Mentre l’amico – che dirà, poi, non lo rifarò mai più in vita mia – gli infila la mano nelle carni aperte della coscia, afferrando e stringendo le arterie recise per fermare l’imponente emorragia. Senza quello, Paul, davvero game over.

Quattro dosi di morfina, sull’ambulanza che corre verso l’ospedale, annullano ogni sensazione. Ma gli danno una terribile crisi respiratoria – manca perfino la forza per riempire i polmoni d’aria. Per la seconda volta il pensiero game over affiora alla mente sconvolta. Ma l’istinto di sopravvivenza vince ancora. Niente panico. Conserva l’energia, o è finita.

Due giorni di coma indotto, il risveglio. La prima visione è confortante. La gamba destra. Gonfia, martoriata, fasciata. Ma il piede è ancora lì. Sembra morto, non lo sente, ma vede che c’è. Bene. Pazienza per la mano, ma almeno tornerò a camminare.

Una settimana dall’assalto dello squalo. Il dottore affronta – serenamente ma obiettivamente – un soldato addestrato a confrontarsi con rischi e pericoli. Anche mortali. Paul, sarò chiaro: il morso ti ha portato via buona parte del polpaccio, e venti centimetri di nervo sciatico. Ora hai due scelte. Tentare di ricostruire il possibile, per alimentare un brandello di gamba privo di vita ed evitare la cancrena. O tagliare. Sotto il femore, via tutto. In dodici mesi, con una protesi, camminerai di nuovo.

La vita è fatta di scelte. Talvolta difficili. Paul vuole vivere, non sopravvivere. E sceglie la seconda.

Il risveglio è il momento più terribile. Altro che la lotta con la bestia. Altro che la nuotata monca verso la salvezza. Altro che la crisi respiratoria in ambulanza. Venti ore di dolore continuo, lancinante, disumano. Insopportabile. L’unico punto, del suo tragitto di sofferenza, in cui Paul avrebbe preferito che lo squalo lo avesse ucciso. In quelle ore disperate arriva a dire alla madre che lo assiste: vammi a comprare una pistola che mi sparo.

Ma anche il più intollerabile dei dolori alla fine recede. Lucido e determinato come sempre, Paul sa di essere davanti ad un’altra delle scelte che questo evento estremo comporta: come affrontare la menomazione. Eccolo qui, in un letto d’ospedale: un uomo senza avambraccio e gamba destri. Essere triste, commiserarsi per la sfortuna, rimpiangere ciò che ha perso per sempre? O reagire, affrontare la vita col coltello fra i denti, accettare e vincere le nuove sfide? Paul è un soldato coraggioso: facile intuire cosa farà.


Continua domani, con la seconda parte.

mercoledì 4 aprile 2012

Cave canem

Se vi siete stupiti per la pizza da sedici euro, preparatevi a trasalire. Ho in serbo un paio di sorprese che vi faranno domandare: ma quanto guadagna un giapponese?

Negozio di cuccioli in centro a Osaka. È sera, dopocena con shopping (magari per parecchie coppiette di fidanzatini è quello che gli inglesi chiamano window-shopping, ossia guardare le vetrine e non comprare nulla). Una sequela di adorabili cuccioletti, ognuno chiuso nella sua superaccessoriata celletta con porta-finestra. Gattini accoccolati che pisolano pigri. Qualche estroso furetto, una gabbia con delle scimmiette formato pollicino.

C’è un barboncino che ispira un’istantanea tenerezza e simpatia. Voglia di coccolarlo. Poi mi cade l’occhio sul ben visibile cartellino del prezzo. Faccio una rapida conversione. Ho letto bene? Sì, ho proprio letto bene. Tremila e duecento euri. Più IVA (per fortuna al 5%, beati loro).

Mi fermo qui, senza commenti. La prossima puntata vi racconterò del vestito più caro che abbia mai visto.



giovedì 29 dicembre 2011

Addio, dolce amico

Dedicato a tutti quelli che credono i cinesi capaci di mangiarli soltanto, i cani. Un soldato, Fan Yaozong, alla fine del periodo di ferma si accomiata dal cane poliziotto che ha accudito finora. Novembre e dicembre sono i mesi del congedo dei veterani, che tornano a casa dopo aver assolto il servizio militare. Un addio pieno di affetto e di tristezza. Ancora una volta l’immagine vince sulle parole. Quelle mani, quello sguardo, non mentono. Né saprebbe farlo il cane, che elargisce confidenza ed amore solo a chi sa conquistarli. Chi ha avuto un cane – e lo ha perduto – sa di cosa parlo.


Prima pubblicazione : 26 novembre 2009

domenica 11 dicembre 2011

Macellai in guanti bianchi

I miei più vecchi lettori (temporalmente, non d’età) sanno che ho poche, ma ricorrenti fissazioni. Una è la lotta senza quartiere all’idiozia umana che porta a bere alcolici e poi a guidare una macchina (e purtroppo spesso ad ammazzare degli innocenti). Un’altra è la condanna senza mezzi termini della ripugnante sconcezza chiamata pedofilia. Poi c’è la passione per certi sport minori (almeno, da noi sono tali), tipo il rugby, e l’idiosincrasia per l’osannato pallone (sferico).

Infine c’è Sea Shepherd. Le sue lotte contro la dissennata caccia alle balene e ai delfini. Contro l’incongruenza di un sistema che formalmente proibisce tali stragi, salvo offrire la comoda scappatoia della “ricerca scientifica”. Contro chi, forte di potere economico e carico di arroganza, pratica una caccia illegale ed in territori marini protetti, santuari di riproduzione violati degli arpioni esplosivi della flotta mercantile nipponica.

Se non puoi sconfiggerli faccia a faccia, devono aver pensato i cinici responsabili di tali stragi, attaccali al fianco, quello scoperto e potenzialmente debole, con un espediente che si chiama citazione in tribunale. Così la Kyodo Senpaku Kaisha, armatrice (in più di un senso) delle navi baleniere, insieme con l’Istituto per la Ricerca sui (o dei?) Cetacei – che nome pomposo, vero, per una macelleria formato gigante – hanno chiamato in giudizio negli Stati Uniti la Sea Shepherd Conservation Society ed il suo fondatore e uomo simbolo Paul Watson, per cercare di far proibire la loro interferenza nelle consuete attività di caccia alle balene.

Queste bestie devono proprio valere un bel gruzzolo, se i succitati signori hanno potuto investire qualcosa come trenta milioni di dollari in una guerra legale contro chi si prodiga – e con successo – per impedir loro di razziare, stagione dopo stagione, i Mari del Sud. Sea Shepherd afferma che tali ingenti capitali sono stati stornati dai fondi governativi giapponesi allocati per la ricostruzione post-tsunami. Sarebbe interessante sapere quanti senzatetto della prefettura di Miyagi preferiscano un bel filettino fresco di balena ad una nuova casa.

Capitan Watson sa che questo attacco è strumentale, mirato a distrarre risorse, morali e finanziarie, dall’unico obiettivo di disturbare e prevenire la prossima strage nell’oceano australe. Critiche, burocrazia, processi, politici collusi con il potere economico non lo spaventano.

Lo spaventa invece la prospettiva di un mondo spopolato dai grandi cetacei. E per questo continua a lottare, giorno dopo giorno, con l’entusiasmo di un ventenne, contro i nuovi predoni.

Il crimine non è impedire alle navi Nisshin Maru e le varie Yushin Maru di eseguire la loro mattanza. È di continuare a lasciargliela fare, e per di più ipocritamente mascherata da ricerca scientifica. Speriamo che il tribunale statunitense se ne renda conto. E sentenzi coerentemente.

mercoledì 7 dicembre 2011

Capitani coraggiosi

Quattro anni che seguo Sea Shepherd. Ecco il racconto di quando li ho scoperti.

Ci sono quelli che sfilano con gli striscioni. Ci sono quelli che dicono non compriamo giapponese. Ci sono quelli che si iscrivono al WWF, nella speranza che. E poi c’è Paul Watson.

È partita l’altro ieri dal porto di Melbourne l’ultima nave pirata, sulla cui prora sventola orgogliosamente la bandiera nera con il teschio e le tibie incrociate. Per chi si immagina un veliero con le bombarde che occhieggiano dalle fiancate e un equipaggio di filibustieri rattoppati con uncini e gambe di legno, spiacente di deludervi.

La nave in questione, di solido acciaio, minacciosamente dipinta di nero opaco, finora si chiamava Robert Hunter. Nomen omen. Nonostante le superstizioni della marineria, che vogliono il gesto di cambiare nome a un natante foriero di sfortune massime, da questo viaggio è stata ribattezzata Steve Irwin, in memoria del discusso istrione animalista che abbracciava coccodrilli, baciava serpenti e ruzzava con squali e plantigradi, finchè lo scorso anno durante un’immersione una grande manta lo ho trafitto al cuore con il suo pungiglione caudale velenoso, mandandolo al creatore di tutte le razze animali da lui stropicciate con intenti pedagogici.

La Steve Irwin salpa per una missione speciale nel Pacifico del Sud. Intercettare la flotta giapponese che si è mossa di recente verso quelle acque, con il dichiarato intento di fare razzia di balene di vario tipo, per una contabilità totale prevista di mille esemplari pescati – ovviamente a scopi scientifici.

Dell’equipaggio fanno parte anche ragazzi poco più che ventenni che dicono: non sarà una crociera. Arrivati da tutta l’Australia, sono consci, e lo dichiarano serenamente, che è un viaggio in cui si rischia la pelle.

Perché il bucaniere cacciatore degli eredi di Achab non va lì per esibire patetici striscioni di protesta, di cui i destinatari si fanno beffe, né per scandire vacui slogan da fighetti universitari contestatori. Va lì, come ha già fatto in passato, per attaccare la flotta, speronare qualche nave, se possibile affondarla con il suo puntuto e temibile rostro di prua da rompighiaccio, affilato come un apriscatole. Va lì per fare capire a tutti che non si viene a fare i propri comodi in casa degli australiani. Che si incazzano come delle iene, se qualcuno si permette. Giù le mani dalle nostre balene. Me lo vedo, sul ponte di comando, suonare la carica contro l’invasore giallo, al grido di No bloody way, mate!!

Paul Watson, viso rubizzo onusto dalla salsedine e una testa di capelli bianchi ribelli, è un agguerrito animalista radicale, e gli girano particolarmente le scatole che nessuno vada oltre le risibili e sterili note di protesta ufficiali, le solite frasi di circostanza dei politici, le meschine affermazioni che giustificano l’ignavia sul tema con l’argomentazione pensiamo agli uomini prima che ai cetacei. Massimamente lo infastidisce che i giapponesi abbiano l’impudenza di spingersi fino all’emisfero australe, nelle acque territoriali limitrofe a casa sua, per perpetrare la peggiore strage di balene degli ultimi anni.

Dirigerà, novello don Chisciotte, la sua nave truce e nera come un corvo nella notte contro la flotta del sol levante. Si prepara una nuova battaglia del Pacifico, minima riedizione di ben più sanguinari scontri di oltre sessanta anni fa.

Riuscirà il nostro capitano coraggioso a impedire la mattanza? Ne dubito. Ma con un gesto così eclatante sta lanciando un segnale forte ai nuovi governanti australiani, la coalizione progressista che ha appena vinto le elezioni spodestando Howard, il locale cortigiano di Bush. Tra i punti programmatici c’era la lotta alle incursioni nipponiche a caccia di cetacei. I politici, si sa, sono tutti bravi a parlare. Specie quando si è in campagna elettorale e le promesse populiste fanno voti. Ma capitan uncino non ha pazienza. E nemmeno voglia di aspettare che si decida qualcosa, al parlamento di Canberra, quando nel frattempo le cambuse della flotta mercantile imperiale saranno già piene di sushi e sashimi di balena. Scientifico, naturalmente.

E così è salpato da Melbourne, con l’occhio benevolo dell’autentico crocodile dundee che lo accompagnava e gli augurava bene da lassù, e con il suo equipaggio di coraggiosi e pugnaci sognatori. Auguri, capitan Watson.

Australiani. L’ho sempre detto. Gente seria. Gente con le palle. E ora datemi del politicamente scorretto, se volete. Che volete farci? Lo sono. E me ne vanto pure.


Prima pubblicazione : 7 dicembre 2007

mercoledì 7 settembre 2011

Goodbye, little rascal

You flew somewhere this morning. Wherever you are now, I wish you a good trip. As good as the life you had. Happy, fierce, confident dog. Bye, Teddy. You will be missed.

sabato 30 luglio 2011

Cicale in città

Non so se siano un piacevole sintomo di una città non inquinata. So solo che da noi quel lontano, alto frinire di cicale si ode solo lassù, tra le fronde degli allampanati pini mediterranei, e mai è dato vedere il rumoroso insetto all’opera, mentre modula la sua melodia stridula. Vi è mai capitato di vederne una da presso, a tu per tu? A me, finora, no.

Invece in Giappone le cicale le trovi sugli alberelli nani che costeggiano le vie cittadine, e se segui quel suono – che da vicino quasi trapana i timpani – riesci a scovarne l’origine ed ammirare quella minuscola, chiassosa meraviglia della natura in azione. Vibra tutta mentre emette la sua voce addominale. La pancia ondeggia, variando la tonalità, come una fisarmonica abilmente manovrata da un mastro di Castelfidardo.

Ma d’improvviso sembra innervosita da questa inopportuna presenza, il suo gracidio si fa inquieto, quasi arrabbiato. Percepisce di essere spiata. E nel regno animale esser spiati non è mai presagio di eventi buoni. Dopo pochi istanti, appena il tempo di ritrarla, smette di cantare, fulminea dispiega le ali e migra su un altro albero, lasciando nell’aria la scia di un distinguibile ronzio.

La Fontaine ne ha fatto il simbolo della superficiale imprevidenza. Credo che, con quelle ali venate, le zampe acquattate, i grandi occhi neri protrudenti dalla testa, e quel corpo inquietante, massiccio e flessuoso insieme, potrebbe fornire ispirazione ai creatori di mostri antropomorfi di certi film horror.

La cicala: non bella, ma affascinante. Come molti piccoli prodigi della natura.


sabato 2 luglio 2011

Uno per tutti

Due passi in una sera pioviginosa in centro a Bangalore, dove il buio cela pietoso le miserie ma anche assassino tende trappole ai pedoni costretti ad arrancare in marciapiedi dissestati al punto che è un eufemismo chiamarli tali.

C’è un cane accucciato contro un muretto. Gli occhi si sollevano per un attimo. Incrociamo uno sguardo. Avessi saputo come fare lo avrei portato con me. Aveva un’espressione indescrivibile: un misto di quieta pazienza, di fatica profonda, eppure di illogica fiducia in un mondo ingeneroso.

Dedicato ai milioni di randagi che ho visto in giro per l’Asia in quasi vent’anni di frequentazioni. Uno per tutti. Un’immagine che ho – ancora una volta – esitato a rubare. Alla fine ho deciso, dal cuore commosso: ecco questo anonimo, universale cane.


E con essa, un racconto inedito scritto nel lontano 1995, in Tailandia. In tutti questi anni non è cambiato nulla. Sono – e saranno – sempre così.

Cani, cani ovunque, tutti imparentati fra di loro e dunque rassomiglianti. Omologamente scarni: qui di ciccia ce n’è poca anche per gli umani, figuriamoci cosa resta ai cani. Hanno lo sguardo altero ma non cattivo, come rassegnati da atavica sofferenza a vivere di stenti. Poi, osservandoli bene, ti accorgi che lo sguardo non è perso nel vuoto. Scruta distante, attento a scoprire qualcosa da mangiare, come se già sapessero di non poterne trovare vicino. Cani.

sabato 25 giugno 2011

Castigat ridendo mores

Sono i sorrisi le armi di comunicazione più forti di questo drappello di ragazze (ma c’è anche qualche ragazzo) che un solatio sabato mattina di fine luglio presidiano un incrocio importante di Torino, di quelli nei quali si va ad imbottigliare un buon numero di auto che arrivano dall’autostrada e vogliono raggiungere il centro.

Volontarie che hanno scelto una maniera differente per trascorrere un giorno del weekend, quando la gran parte delle loro coetanee sono già al mare a rosolarsi, o al massimo si stanno sorbendo code apocalittiche, nonostante le varie onde radio ed i loro notiziari calamitosi, nel tentativo di approdare finalmente nelle agognate spiagge liguri, o toscane, o romagnole, o fors’anche francesi.

Distribuiscono locandine agli automobilisti, con una lena che ricordo solo nelle liceali mie coetanee (evi geologici fa quindi) che volantinavano selvaggiamente appena fuori dall’istituto, con la foga e il trasporto della passione politica di gioventù. Il loro messaggio è accompagnato da un sorriso, quasi un ringraziamento a chi si dà la pena di rinunciare per un momento al conforto dell’aria condizionata per abbassare un vetro e vedere cosa hanno da dare – e da dire – queste fanciulle vestite di arancione. È un messaggio geniale, fatto apposta per richiamare l’attenzione, politicamente scorretto e malizioso quanto basta. Chi abbandona un animale ce l’ha piccolo. Il cervello.

Brave. Dunque manifestano contro la vigliacca, disgustosa, stagionale abitudine dell’abbandono degli animali. Che puntualmente ogni stagione fa contare un triste bollettino di guerra di morti innocenti, prima voluti dai vili umani per un capriccio, e poi scartati come un fardello inutile quando è tempo di godersi le sacrosante vacanze. Sembra di sentirli, quegli infami. Fermati e scarica, che non ci vede nessuno. E se poi il cane muore, chi se ne frega. Al massimo a settembre se ne prende un altro, se il bimbo frigna.

Tre corsie di macchine sono schierate davanti al semaforo rosso. Due delle ragazze sono pronte ad un defilé senza tacchi e senza abito lungo. Sfilano davanti agli automobilisti immobili, esibendo un lungo striscione lodevolmente eloquente. Il bastardo sei tu che lo abbandoni.

Mi sono fermato, colpito da tanto fervore ben indirizzato, ed ho voluto spendere qualche minuto con questo gruppo di volontari paladini degli amici a quattro zampe. Si sono fatte fotografare volentieri, anzi sono state felici di sapere che ne avrei raccontato le encomiabili gesta. Una di loro, Elisa, è corsa a prendere una cartelletta della LAV, ricca di notizie utili sul tema animali randagi ed abbandonati. Quella corsa è l’immagine di una contagiosa dedizione unita all’ardore giovanile. Tutto il contrario di quelle corsette da palcoscenico degli show all’americana, dove corrono sempre tutti per dimostrare dinamismo efficiente ed entusiastico, falso come quei sorrisi ipocriti che esibiscono mentre stanno meditando la maniera migliore per mettertelo nel ciocco.

Passione ed allegria. Elisa mi ha consegnato quel plico con la solennità con cui si affida qualcosa di importante, di sacro, a chi può diffondere un messaggio, a chi allungherà la catena. Ma il suo viso sorrideva contento. Mi piacciono le persone che spendono la propria energia in qualcosa così poco di moda di questi tempi come un ideale. Specie se lo fanno con un genuino sorriso sulle labbra. Per questo mi sono soffermato a parlare con loro, e ora, con gran piacere, ne rendo testimonianza. Perché se il mondo fosse più pieno di Elise e delle sue compagne dalle magliette arancioni, sarebbe un posto un po’ meno brutto dove vivere. I cani ringraziano.

Prima pubblicazione : 26 luglio 2008

martedì 17 maggio 2011

Segnali di civiltà 2

Civiltà: noi siamo purtroppo ben lontani da questo impegnativo concetto. Vicini, adiacenti, devoti a tale credo, sono invece gli australiani. Spesso il rispetto delle altre creature si dimostra nei piccoli gesti. Ma di significato straordinario. Come il cartello fotografato al volo in un sobborgo di Sydney.

Ogni tanto qualche paperotto di nidiata, percorrendo accodato a mamma anatra un viale che divide due parchi, veniva investito da una macchina. Allora hanno messo un segnale stradale, forse unico nel suo genere. Attraversamento papere.

Mi piace pensare che la gente rallenti quando lo vede. Solo in Australia.

mercoledì 11 maggio 2011

L’elicottero della natura

Punta del Este, Uruguay. Un fulmineo frullio d’ali, ed un oggetto improvvisamente immobile davanti ad un fiore. Così si presenta, davanti ad un cespuglio macchiato di fiori arancioni, una delle piccole meraviglie della natura: un colibrì. Tanto maggiore la sorpresa, lo stupore, nel trovarlo in un giardino qualsiasi, libero e normale come da noi potrebbe svolazzare un passerotto. Piccolo, piccolissimo, si fa fatica a crederlo un uccello. Pare un grosso insetto colorato. Ed invece, con quella grazia nervosa che lo contraddistingue, passa instancabile da un fiore ad un altro, suggendo polline col becco affilato e curvo come una lama di sciabola. Non mi sembra vero. Non vola, non come siamo abituati a vedere gli altri uccelli, perlomeno. Il suo muoversi è fatto di salti, evoluzioni, manovre incredibili. Una macchina che sa stare ferma per aria e volare all’indietro, con quelle ali che nessun occhio umano riesce a vedere, tanto frenetico è il loro ritmo, tanto elevata è la frequenza del loro sbattere. Un miracolo della natura. Minuscolo e apparentemente fragile come una miniatura di Capodimonte, ma agile e ratto al punto da sembrare inafferrabile.


venerdì 22 aprile 2011

Dog day afternoon

Un pomeriggio di un giorno da cani. Nel senso che i cani – e i loro amici umani – hanno molto da celebrare. Le cose stanno lentamente cambiando in Cina. Fino a qualche anno fa nessuno si meravigliava della tradizione culinaria di mangiare il cane. Né a qualcuno sarebbe passato per la testa di opporsi a tali commerci. In fondo i cinesi sono sempre stati abituati a non ribellarsi. Si comincia sempre da qualcosa di modesto, poi ci si fa la bocca e, parla oggi e vocia domani, si rischia di arrivare a protestare contro le istituzioni. Che non avrebbero apprezzato. Meglio evitare.

Invece. Un camion carico di cani è stato fermato da un’agguerrito manipolo di circa duecento manifestanti. Un audace automobilista ha bloccato l’autocarro chiudendolo con la propria vettura, poi ha dato l’allarme ad altri attivisti per la protezione degli animali, convocandoli sul posto. Col passaparola una folla si è presto radunata sull’autostrada nei dintorni di Pechino, bloccando la circolazione e impedendo di fatto che il carro bestiame continuasse il suo viaggio verso il nord, dove i cani erano destinati ad essere venduti a dei ristoranti. E non per far la guardia.

Dopo quindici ore di confronto a muso duro – e di paralisi del traffico – i difensori degli animali l’hanno avuta vinta. Hanno comprato l’intero carico, salvando i cani dal finire in pentola. Molti di essi avevano ancora collari e medagliette, segno che erano stati rubati ai legittimi proprietari. Sporchi e affamati, sono stati presi in cura del gruppo di amanti delle bestie, che hanno provveduto a ripulirli e offrir loro del cibo.

Due Cine si scontrano oggi. Quella delle consuetudini secolari, che vedono cani e gatti come pietanze, e quella della recentemente scoperta passione per gli animali da compagnia. Nelle edicole si trovano riviste con foto di cani agghindati in copertina. I giornalai hanno capito, e per fortuna non le mettono nel settore dedicato alla gastronomia. Signore, e perfino signori, portano a spasso i loro amici a quattro zampe la mattina presto, in alternativa o come complemento al tai-chi. L’ultima moda, un po’ kitsch ma sintomatica di un’attenzione differente verso le bestiole, è quella di vestire i propri piccoli beniamini con abitini buffi. Vien da pensare che i cani ricoprano la suppletiva funzione di quei secondi figli che il governo non permette ai cittadini medi.

Intanto i cani stanno cambiando ruolo, e soprattutto ambiente, nelle case cinesi. Dalla cucina sono passati al salotto. E – scodinzolando – ringraziano.