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lunedì 23 marzo 2015

venerdì 5 dicembre 2014

Ho visto un re


Oggi è festa nazionale in Tailandia. Si celebra il compleanno di re Bhumibol, il monarca in carica col primato dell'insediamento più lungo. L'immagine del re da settimane campeggia in ogni dove. Perfino sugli schermi dei telefoni pubblici in aeroporto.

Mi associo alle celebrazioni, ripubblicando un pezzo scritto sette anni fa, quando re Bhumibol compiva ottant'anni.

Ho visto un re

Non di persona. Ma dappertutto. Bangkok è tappezzata di foto, manifesti, gigantografie. Si sta per celebrare l’ottantesimo compleanno di re Bhumibol. Ieri sera passeggio per le strade del centro e incontro una spropositata quantità di persone che indossa alcune varianti su un tema fisso: una polo color giallo brillante con sulla tasca lo stemma simbolo del regno.

Oggi, diretto in aeroporto, ho la rara fortuna di trovare un autista che comunica civilmente in inglese. Ha voglia di parlare. La classica domanda per rompere il ghiaccio, di dove sei. Appreso che sono italiano, ottengo l’associazione mentale che sboccia invariabilmente sulla bocca della totalità dei tassisti asiatici: football. Con la gustosa recente aggiunta, pronunciata con tono ammirato, campioni del mondo. Mi dice che tra Francia, Germania, Brasile e Italia, i più forti siamo noi. Annuisco. Mi parla di Maldini, il miglior difensore del mondo. Ora mi sembra veramente brutto deludere le sue aspettative, rivelandogli che ha caricato un italiano anomalo che se ne impippa totalmente del calcio.

Allora provo a cambiare cautamente discorso. Cosa sono tutte quelle maglie gialle che ho visto ieri sera? Eccoci. Un fiume in piena mi investe. Sono l’omaggio del popolo tailandese al re. Ogni lunedì (il giorno in cui è nato il monarca) la gente si veste di giallo, colore celebrativo, per comunicare visivamente la propria partecipazione alla gioia per il raggiungimento il prossimo 5 dicembre di un bel traguardo, gli ottant’anni dell’amato sovrano. Proprio così. Non è una frase fatta.

È raro percepire un tale genuino, profondo rispetto ed affetto per un leader. Ma re Bhumibol deve essere una persona speciale, per suscitare un simile consenso plebiscitario. Questo giovane tassista dice my king, che bello, il mio re. Il re è di tutti e quindi è anche suo. Ci si sente l’orgoglio in quella dichiarazione. Ci si sente la stima di cui questo sovrano gode presso la sua gente. Ogniqualvolta lo cita, si batte il pugno serrato sul petto, sul cuore, a manifestare un senso di appartenenza reciproco. Roba d’altri tempi. Il mio re.

Una figura magra, quasi fragile, che ispira calma e fiducia, vedendolo non nei ritratti ufficiali ammantato di pesanti broccati dorati ma nelle foto non protocollari, più belle e più autentiche, in semplice giacca e cravatta, dove dimostra di essere persona che sa uscire dallo scrigno prezioso del palazzo reale e scendere tra la sua gente, tra i suoi sudditi, per regalare un’apparizione in un ospedale, una visita in aree difficili, insomma una sincera attenzione per il suo popolo. Uno sguardo vivo e attento dietro alle lenti degli occhiali che indossa. Espressioni intense, partecipi. Non il lontano, ieratico distacco dalle terrene cose di altre maestà fuori dal mondo.

Un curioso vezzo che me lo rende particolarmente simpatico è il fatto di farsi talvolta ritrarre con una macchina fotografica al collo. Come un normale turista. Mi accentua quella sensazione di re della gente comune che i tailandesi percepiscono e apprezzano. Mi piace pensare che, nonostante gli ottant’anni, malgrado il fatto di essere pur sempre un monarca, che potrebbe permettersi cento fotografi pronti a inquadrare e scattare per lui, abbia ancora voglia e passione per fotografare un panorama, un gruppo di persone, un tramonto sul mare. È il re, è tutta roba sua. E con questi comportamenti mostra una grande considerazione per le sue proprietà.

Come dicono innumerevoli cartelli, in giro per Bangkok: lunga vita al re.




Prima pubblicazione : 20 novembre 2007

giovedì 27 novembre 2014

Mariano


Un taxi mi porta a Guarulhos, aeroporto internazionale di São Paulo. Ci sono volte che non amo viaggiare sul sedile posteriore, così mi siedo accanto ad un nero di aspetto interessante, che guida una scalcagnata Fiat Uno.

Leggo, incuriosito, un adesivo applicato sul lunotto di una macchina che ci precede. Mi vergogno degli assessori di São Paulo. Chiedo spiegazioni sul significato, e si avvia un colloquio che si protrarrà fino alla fine del viaggio. Si tratta di una campagna contro la corruzione (che novità!) della gente detentrice del potere.

Il Brasile, mi dice, è una terra benedetta da Dio: niente terremoti, niente uragani, niente grandine. La compensazione che Dio ci ha dato, prosegue, è che ci ha lasciato questi ladroni. L’argomento mi interessa, mi piace ascoltare quello che la gente normale pensa. La disamina del taxista è di una lucidità e di una competenza insospettate: mi parla di deputati che hanno ammazzato gente con la motosega, incriminati solo perché qualcuno li ha filmati all’opera, di cameramen investiti dall’autista di un politico che non gradiva di essere ripreso dalla telecamera di una certa emittente, e di ulteriori atrocità (usa proprio questo termine, che trovo adattissimo) commesse da pazzi che vestono la divisa di rappresentanti del popolo.

Il dibattito è aperto, non mi limito ad ascoltare, voglio stimolarlo nella sua capacità di giudizio, non solo di critica. Mi viene spontaneo domandargli, ma scusa, quella gente non ce l’avete messa voi, lì? Noi siamo colpevoli, ammette con prontezza, ma anche quelli che dimostrano le migliori intenzioni, quando arrivano al potere diventano tutti così! Tutti?, chiedo io. Tutti. E chiosa l’affermazione lapidaria con una frase ad effetto: ogni uomo ha il suo prezzo. E allora, non c’è una soluzione? Forse la soluzione sarebbe emendare la Costituzione. Ma ci rendiamo conto? Un taxista che parla di emendare la Costituzione? E questo lo chiamano il terzo mondo?

Ma non mi basta. Lo stimolo a spiegare cosa farebbe lui per emendarla. Altra frase bellissima: bisogna dare più rispetto al valore della vita. Ossia? Fammi degli esempi. E lui, derivando gli stessi – con originale arbitrio – dal suo mestiere: se io investo un animale protetto, vado nei guai; se perdo i venti punti della mia patente, per un anno non guido, e come campo? Mentre se uno gira armato (e quanti ce ne sono!) e ammazza qualcuno, ha buone possibilità di passarla liscia. Soprattutto se ha i soldi.

Hai ragione, Mariano. Bisognerebbe ristabilire delle priorità. Ma per fare questo, occorrerebbe innanzitutto che quella famosa scritta che incombe nei tribunali, la legge è uguale per tutti, non avesse il sapore di un’amara barzelletta.

Si è fatto tardi, Mariano. Una parola via l’altra, siamo arrivati all’aeroporto. Peccato. L’unica volta che avrei voluto trovare un taxista che ti imbroglia, facendo la strada più lunga, per parlare ancora un poco. Vieni almeno a bere una birretta con me? Non posso, devo lavorare. Un’altra volta. Va bene, un’altra volta. Mi dà un suo bigliettino, se torni chiamami sul cellulare, ti tratterò bene e possiamo parlare ancora. Leggo il nome, Mariano, che coincidenza, come un mio caro amico. Di dove sei, Mariano? Di Salvador, Bahia. Toh, proprio lì sto andando. Allora salutamela. Lo farò, stai certo; ciao, bahiano. Ciao, italiano. Un abbraccio.



Prima pubblicazione : 18 luglio 2007

domenica 27 luglio 2014

Semplicità


Un po’ di nervosismo ma è normale. Le prime, primissime parole a caldo, appena sceso di bicicletta, di Vincenzo Nibali. Dopo aver vinto il Tour de France.

Quattro anni fa il Giro ha fatto tappa a Cuneo. Ho avuto la ventura di fotografarlo, elegante, armonioso e al tempo stesso potente, a conclusione della cronometro a squadre che lo vide indossare la maglia rosa. Premonizione di ben altri successi. Senza per questo perdere umiltà e semplicità. Ce ne fossero tanti, di atleti come te. Bravo Vincenzo.






sabato 17 maggio 2014

Un miliardo di voti

Narendra Modi. Ricordatevi questo nome. Perchè ne sentiremo parlare parecchio d'ora in avanti. Con una valanga di consensi ha spazzato via la vecchia coalizione del congresso e conquistato il potere assoluto in India. Potrà legiferare senza bisogno di metter d'accordo i tanti, troppi partitini che prima potevano influenzare o bloccare qualsiasi azione legislativa.

Mi basteranno dieci anni per cambiare l'India, questa la sua prima dichiarazione programmatica. E non scherza. Quando era ministro del Gujarat ha risolto con le maniere forti il conflitto interreligioso tra indú e mussulmani. Duro ma efficace. Questo gli era valso il farsi negare il visto per entrare negli Stati Uniti, con l’accusa di violazione dei diritti umani (senti chi parla). Oggi Obama, visto il travolgente successo elettorale, si è affrettato ad invitarlo a Washington. Vedi come improvvisamente cambiano gli atteggiamenti quando si diventa potenti.

Il quieto e poco propenso ai bagni di folla Primo Ministro uscente, Manmohan Singh, esce di scena pronunciando il discorso di commiato. La dinastia dei Ghandi rischia di non avere nemmeno un rappresentante nel governo.

A Mumbai sono magicamente già comparsi i manifesti di ringraziamento al popolo per la plebiscitaria vittoria ottenuta dal suo partito, il BJP.

La democrazia più grande della Terra ha scelto il suo nuovo capo. Non è uno che prende le cose alla leggera. Il mondo è avvertito.




giovedì 9 gennaio 2014

Applausi 3

Che cos’è il genio? È fantasia, intuizione, decisione e rapidità di esecuzione. Famosa citazione del cult movie Amici Miei.

Metti che tu sia su un aereo tedesco che ti porta da Torino a Francoforte. La puntualità è sempre vitale, quando hai poco più di un’ora per prendere l’aereo successivo. Salvo che abbiano ottime ragioni per farlo, gli aerei grossi non aspettano quelli piccoli.

Metti che l’aereo sia pieno di italiani pronti a partire per le vacanze.

Metti che una coppia di mezza età decida di sedersi nell’ultima fila della business – e qui gli scenari possibili sono molteplici. Infingardia – o incapacità da mancanza di pratica – nel cercarsi i propri reali posti, da qualche parte in economy? Autonoma scelta di sedersi vicini (magari i loro posti erano separati, essendo l’aeroplanino piuttosto pieno)? O, volendo pensare peggio, furbesco ma ingenuo desiderio di approfittare dei servigi della classe superiore (furbesco perché a degli italiani ho visto fare anche di peggio, ingenuo perché chi ha un minimo di consuetudine col volare sa che l’equipaggio ha la mappatura completa dei posti, con tanto di nomi dei passeggeri).

Metti che un giovane steward, di bell’aspetto e di sorriso pronto, con una inusuale scintillante pelata a caratterizzarlo, approcci i due occupanti abusivi con aria interrogativa ed un foglio in mano, e che riceva desolati scuotimenti di capo alle sue sequenziali domande se parlassero tedesco o almeno inglese.

Ora, il novantanove per cento del personale viaggiante avrebbe ingaggiato un’estenuante battaglia lessicale (magari con l’aiuto di qualche volontario che facesse da traduttore), per fare estrarre ai due le carte d’imbarco, rivelando i posti a loro assegnati al check-in. Quindi si sarebbe trattato – in un aereo strapieno – di farli spostare con i relativi bagagli a mano, che per la legge di Murphy sarebbero stati di dimensioni elefantesche e non avrebbero trovato posto in nessuna delle cappelliere vicine ai loro sedili, causando aperture e chiusure a ripetizione degli strabuzzanti vani, e possibili cadute di oggetti in precarissimo equilibrio instabile. Sempre che i loro posti non fossero stati nel frattempo occupati da altri passeggeri che prendono l’aereo per un bus, e quindi scelgono da sé il primo posto libero, per sedersi di finestrino, o accanto all’amico, o sul corridoio perché soffrono di ansie se qualcuno blocca loro la via all’evacuazione in caso di emergenza. In tal caso i su descritti traslochi si sarebbero trasformati in una bagarre ingestibile negli angusti spazi di un piccolo bireattore da rotte regionali.

Quanto tempo avrebbe richiesto tale routine? Probabilmente a sufficienza da perdere lo slot di decollo (e passi, siamo a Caselle, mica a Hong Kong), ma soprattutto quello di atterraggio (a Francoforte perdere lo slot di atterraggio può voler dire girare in tondo sull’aeroporto in attesa dell’autorizzazione dalla torre di controllo altri dieci o quindici minuti, talvolta essenziali per chiudere una coincidenza). Le mie chances di prendere il volo successivo si sarebbero affievolite. Già immaginavo di dover trascorrere la notte a Francoforte, e partire ventiquattr’ore dopo (sono vacanze, certo, ma perché dover sprecare un giorno a causa di due che non sanno – o non vogliono – sedersi al loro posto in aereo?).

Il nostro Kojak in divisa Lufthansa ha dimostrato la sagacia propria dell’ispettore dalla crapa pelata. Appartenente a quel raro uno per cento di autentici problem solvers, ha intuito le potenziali disastrose conseguenze di seguire la prassi e far traslocare i due dall’ultima fila di business. Poi, visto che gli altri due posti simmetrici della stessa fila erano vuoti, ha inventato ed eseguito al volo la soluzione più creativa. Sganciando e spostando una fila più avanti, con due semplici gesti, le tendine che separavano la zona business dall’economy. L’economy cominciava dalla fila sei? Ora comincia dalla fila cinque, dicevano i suoi occhi soddisfatti, mentre si guardava intorno per verificare che tutto il resto fosse a posto e si potesse partire senza indugi.


Che cos’è il genio? È fare prendere a tutti i passeggeri la loro coincidenza, trovando la soluzione più semplice e rapida al problema. Siccome non avevi la targhetta con il nome, ho deciso che ti chiamerò come il brillante ispettore dei telefilm. Grazie, Kojak. Sei stato davvero grande. Tu sì che ti meriti un applauso.




lunedì 17 settembre 2012

Bello come un dio greco – Due (2a parte)

Segue da ieri.


Due giorni dopo l’operazione chiede che al letto vengano fissati degli elastici, per ricominciare a esercitare la gamba ed il braccio superstiti. E vuole un computer. Gli uomini non son bravi ad esternare i propri sentimenti, a parlare, a trovare conforto nella presenza di parenti e compagni d’arme. Più che conversare, Paul vuole leggere e documentarsi. Vuole capire come hanno fatto gli altri a vivere con le stesse mutilazioni.

C’è luce in fondo al tunnel. La prima gioia dopo tanto dolore. Allora ho un futuro! Potrò rifare le stesse cose. Magari un po’ più lentamente. Magari con un bel po’ di ferraglia addosso. Una frase australiana, la cui potenza espressiva è intraducibile, riassume il suo pensiero: it’s gonna be alright.

Sì. Attraverso il percorso di riabilitazione e idroterapia Paul fa progressi quotidiani. Tre mesi dopo l’incidente, stufo di piscine e gente che lo guarda come un miracolato, chiede e ottiene di tornare nel suo elemento. Spiaggia di Sydney, una nuotata nell’oceano. Non fa paura. Non più, e mai più, dopo quello che ha passato.

Uno alla volta, supera i piccoli e medi obiettivi che si pone. Sono le piccole cose, quelle a cui non pensiamo mai perché sono processi e maccanismi automatici, le più frustranti da affrontare. Come allacciarsi una scarpa. Scrivere con la sinistra. Guidare la macchina.

La negatività non fa parte del suo carattere. Paul si motiva con un pensiero costante e bellissimo: non lasciare che le cose che non puoi fare ti impediscano di fare quelle che puoi.

Per tornare ad essere se stesso ha bisogno di sentirsi libero. Libero da quel coacervo di medicinali che lo hanno aiutato, ma che ora offuscano la mente e disturbano il corpo: antidepressivi; antidolorifici; cicatrizzanti; ricostituenti. Basta con questi farmaci!

Ripulito dentro, è l’ora di tornare al lavoro. La Marina lo attende a braccia aperte. Sentire di avere un ruolo, il senso di appartenenza, motivare gli altri e dare un esempio riempiono la vita. Ma per una persona che si descrive, con straordinario senso dello humour, metà uomo e metà mountain-bike, non è facile accettare i limiti imposti dalla nuova condizione. Perfino i compagni d’arme, seppur per spirito di protezione, lo fanno sentire disabile, attento a questo, bada lì, quello è meglio di no. Insomma, più riunioni e chiacchierate in poltrona che operatività. Non è quello che voleva.

Positività e motivazioni vanno conquistati, non sono merce di facile disponibilità. Come molte altre vittime di attacchi di squali, Paul non porta dentro di sé rancore per l’animale che lo ha menomato. Anzi. Considera una grande fortuna aver potuto parlare a New York, alle Nazioni Unite, sostenendo una campagna per proteggere questo grande, primordiale predatore, alla vetta della catena alimentare. Cento milioni di squali vengono uccisi ogni anno per le loro pinne. Senza questa specie, gli equilibri del mare saranno compromessi per sempre. Ammirevole, per uno che a causa di un esemplare che ora sta difendendo ha dovuto affrontare un’odissea di sofferenza e patimenti.

Paul, dopo aver parlato per un’ora ad un auditorio ammutolito e affascinato, si accommiata con un breve video che racconta il suo percorso. Incluse le scene, confuse ma inequivocabili e drammatiche, dell’attacco, filmate dai suoi commilitoni sulla barca d’appoggio. E mentre scorrono queste immagini tremende, Paul chiude gli occhi, e chissà quali mille pensieri gli affollano la mente. Tutti riassunti in un motto: never give up. Mai rinunciare – a lottare, a fare cose, al proprio diritto ad avere una vita.


La musica sfuma. Applausi. Scende dal palco con un sorriso sincero, con quell’allegria contagiosa che solo un sopravvissuto sa trasmettere.

Lo incontro, gli parlo, ed è una bella persona, non solo sul palcoscenico ma anche nel colloquio diretto. Mi dice che è stato di recente in Italia, da vero aussie mi chiama mate, ma soprattutto mi offre la destra, quella artificiale, per una stretta di mano indimenticabile. I muscoli del braccio trasmettono impulsi all’arto bionico, che contrae le dita, oppone il pollice, impugna oggetti con una delicatezza e precisione insospettabili. C’è più calore umano in quella mano sintetica di tante in carne e ossa che ho stretto in vita mia.

Ho conosciuto una specie di robocop. Ma immediatamente simpatico e affabile come solo certi australiani sanno essere. E bello come un dio greco.




domenica 16 settembre 2012

Bello come un dio greco – Due

Sì, due. Perché Alex Zanardi era il protagonista del primo racconto così chiamato. Ma Paul de Gelder merita appieno lo stesso titolo. Incontrare Paul ti cambia la vita. Come la sua, che è cambiata mille volte.

Ex giovane scapestrato. Amicizie sbagliate, bevute scriteriate, droga. Spogliarellista da nightclub. Poi una nuova vita nata quasi per scommessa. La Marina Militare, il training duro, le forma fisica perfetta, un lavoro pericoloso ma stimolante come sommozzatore militare. Una missione a Timor Est, il contatto con villaggi che vivono ancora in maniera atavica: un’esperienza che insegna umiltà e apprezzamento per quanto si ha e spesso si dà per scontato. Al ritorno, un addestramento di mesi in vista dell’Iraq. Per sentirsi dire, all’ultimo, che non sarebbe partito. Come prepararsi per la finale e scoprire mentre si entra in campo che si resterà in panchina. Ma la svolta che cambierà ancora – e radicalmente – la sua vita arriva l’undici febbraio del 2009.

Baia di Sydney, un’immersione di routine, come tante. Finchè un grande occhio nero lo fissa da vicino. Troppo vicino. Uno squalo. Un urto violento. Non c’è dolore. L’addestramento militare subentra istintivo. Colpirlo a pugni sul muso. Ma la muta finisce all’altezza dell’avambraccio destro. Mentre la bestia strattona e trascina sotto, nel suo elemento, in un impari gioco di vita e di morte. Una rapida riemersione, una furente boccata d’ossigeno, e poi di nuovo in balia del pescecane. Un pensiero: è finita. Game over. Ma non è così. Liberato dalla morsa dei denti laceranti, ora occorre portarsi in salvo. Adrenalina a mille. La più lunga nuotata della vita, con la sola parte sinistra del corpo, verso il canotto dove i commilitoni lo soccorreranno. Issato a bordo. Una preoccupante sfilza di improperi del collega gli fanno capire che la situazione è grave, molto grave. Finalmente, sdraiato sull’assito della barca, sviene. Mentre l’amico – che dirà, poi, non lo rifarò mai più in vita mia – gli infila la mano nelle carni aperte della coscia, afferrando e stringendo le arterie recise per fermare l’imponente emorragia. Senza quello, Paul, davvero game over.

Quattro dosi di morfina, sull’ambulanza che corre verso l’ospedale, annullano ogni sensazione. Ma gli danno una terribile crisi respiratoria – manca perfino la forza per riempire i polmoni d’aria. Per la seconda volta il pensiero game over affiora alla mente sconvolta. Ma l’istinto di sopravvivenza vince ancora. Niente panico. Conserva l’energia, o è finita.

Due giorni di coma indotto, il risveglio. La prima visione è confortante. La gamba destra. Gonfia, martoriata, fasciata. Ma il piede è ancora lì. Sembra morto, non lo sente, ma vede che c’è. Bene. Pazienza per la mano, ma almeno tornerò a camminare.

Una settimana dall’assalto dello squalo. Il dottore affronta – serenamente ma obiettivamente – un soldato addestrato a confrontarsi con rischi e pericoli. Anche mortali. Paul, sarò chiaro: il morso ti ha portato via buona parte del polpaccio, e venti centimetri di nervo sciatico. Ora hai due scelte. Tentare di ricostruire il possibile, per alimentare un brandello di gamba privo di vita ed evitare la cancrena. O tagliare. Sotto il femore, via tutto. In dodici mesi, con una protesi, camminerai di nuovo.

La vita è fatta di scelte. Talvolta difficili. Paul vuole vivere, non sopravvivere. E sceglie la seconda.

Il risveglio è il momento più terribile. Altro che la lotta con la bestia. Altro che la nuotata monca verso la salvezza. Altro che la crisi respiratoria in ambulanza. Venti ore di dolore continuo, lancinante, disumano. Insopportabile. L’unico punto, del suo tragitto di sofferenza, in cui Paul avrebbe preferito che lo squalo lo avesse ucciso. In quelle ore disperate arriva a dire alla madre che lo assiste: vammi a comprare una pistola che mi sparo.

Ma anche il più intollerabile dei dolori alla fine recede. Lucido e determinato come sempre, Paul sa di essere davanti ad un’altra delle scelte che questo evento estremo comporta: come affrontare la menomazione. Eccolo qui, in un letto d’ospedale: un uomo senza avambraccio e gamba destri. Essere triste, commiserarsi per la sfortuna, rimpiangere ciò che ha perso per sempre? O reagire, affrontare la vita col coltello fra i denti, accettare e vincere le nuove sfide? Paul è un soldato coraggioso: facile intuire cosa farà.


Continua domani, con la seconda parte.

domenica 12 agosto 2012

Un bel gioco dura poco

Nomen omen

La felicità. Scritta non solo sul viso ma perfino sul petto. Duecento metri d’oro per l’americana.

Maestri cantori

La scherma non delude mai. Occhi chiusi e inno in gola per i nostri fiorettisti d’oro.

Il cuore oltre l’ostacolo

Tutto il resto del corpo invece è rimasto lì, prima della prima barriera. Liu Xiang, l’eterno favorito sempre rotto al momento sbagliato.

Jump

Quando salti ti cade la maschera, diceva Halsman. Ci doveva essere un suo allievo in campo, per fissare così le campionesse statunitensi di calcio.

Ingiustizie

Le olimpiadi non sono peggio della vita – né meglio. Dovunque ci sia uno che ti giudica, l’errore ci può stare. O anche peggio. Come ha imparato sulla sua pelle la schermitrice coreana Shin. Inconsolabile e irriducibile insieme, ha tenuto la pista occupata per un’ora, nella speranza – vana – che le fosse resa giustizia.

Mascheroni

Va bene che sia uno sport televisivo per eccellenza. Ma c’è proprio bisogno di trasformare le nuotatrici sincronizzate in personaggi dei fumetti giapponesi?

E a me?

Lui si becca la medaglia d’oro. Io invece della coccarda preferirei un po’ d’erba bella fresca, al posto dei soliti fioccati dietetici di cereali. Per favore. Ihihihhhhh.

L’uomo lampo

Con un nome così, non poteva che finire a frantumare record e avversari. Usain Bolt.



venerdì 10 agosto 2012

Götterdämmerung

Il crepuscolo degli dei. Lacrime quattro anni fa. Lacrime oggi. Ma di tutt’altro sapore. Una rara ammissione di colpa, totale, senza la minima ricerca di scuse o attenuanti. Addirittura sospetta, in un mondo niente affatto abituato a gente che si assume le responsabilità dei propri errori.

L’Italia perde un atleta: quel paesino sperduto nel Trentino ritrova un uomo. L’uomo qualsiasi che Alex voleva ritornare, forse oppresso da una responsabilità più grande di lui. Non riesco a non provare simpatia per questo ragazzo costretto a vincere contro la fatica immane ed oscura, costretto ad essere un personaggio pubblico contro la sua timidezza, costretto ad una solitudine quotidiana ripagata ogni quattro anni da titoloni e osanna – ma solo se vincente. Hai fatto la cosa sbagliata, come atleta. Ma come uomo ne hai fatte varie giuste ed onorevoli, compreso il riprenderti la tua vita privata.

L’Italia – forse – sopravviverà anche senza la tua medaglia. Se destinata ad un fato avverso, di certo non sarebbe stato quel pezzo di metallo a salvarla. Tu d’ora in avanti viviti la vita normale che agognavi, Alex. Oggi, come ultimo saluto, ti voglio dedicare il mio ricordo di quando ci hai fatto emozionare quattro anni fa a Pechino. Ed un modesto, ma sentito, grazie.


Benvenuto nel club


Per le mie limitate capacità di resistenza televisiva, è umanamente impossibile trascorrere di giorno quasi quattro ore incollato davanti al teleschermo per vedere in diretta l’odissea di un gruppo di scodinzolanti atleti che percorrono cinquanta chilometri di marcia. Figuriamoci di notte, dall’una e mezza fin quasi alle sei.

Eppure ci tenevo a vederlo. Ma Morfeo era suadente e tentatore stanotte. Tra la partenza e l’arrivo ho dei vaghi ricordi di un dormiveglia pieno di visioni assortite di polpacci gonfi, di sederi dimenanti, di braccia arrancanti, di bottigliette d’acqua raccattata al volo per ingollarla o per aspergersi il corpo accalorato, di sudori veri o indotti da docce nebulizzate che tentavano di portare refrigerio a questo manipolo di folli camminatori estremi.

La marcia è questo. Esasperare il gesto quotidiano di una qualsiasi passeggiata, portandolo alla massima velocità possibile, senza mai raggiungere quella fatale fase aerea in cui entrambi i piedi, sia pur per una frazione di secondo, sono entrambi sollevati da terra. Come i trottatori che rompono il loro ordinato passo, scoppiando in un fragoroso galoppo, così il marciatore che tecnicamente corre anziché camminare viene prima richiamato e poi squalificato.

Un esercizio paradossale, se non altro per il fatto che va perpetuato, passo dopo passo, per la bellezza di cinquanta chilometri. Fate i vostri conti. Immaginate una località così distante dalla vostra, e vedetevi mentalmente raggiungerla, a piedi, ancheggiando impettiti, in meno di quattro ore. Follie.

La marcia ha sempre avuto una buona scuola in Italia. Oggi abbiamo l’ennesima conferma. Alex Schwazer parte in testa dal primo metro, si lascia dietro qualcosa come cinquantamila passi ed arriva primo. Ohh. Finalmente un oro nell’atletica leggera. Ho visto la partenza, di quelle che ti viene da pensare, ma dove vai (nemmeno dove corri, che non si può!), guarda che il traguardo è lontano, rispàrmiati, gli altri ti vengono a prendere. E invece aveva ragione lui. Tre ore e trentasette minuti dopo, eccolo di nuovo, solitario, nello stadio da cui era partito. Un ingresso da trionfatore, più di due minuti sul secondo classificato.

Ma non è la medaglia d’oro la cosa più importante oggi. Oggi vincono i sentimenti, i buoni sentimenti. Questo ragazzo di ventitré anni, che un mese fa ha perso il nonno, e che concorreva con una fascia nera sulla bretellina della canotta, è entrato in quello stadio di gloria e per prima cosa, piangendo, ha baciato la fascia sul suo petto. Poi, superato il traguardo che lo incoronava campione olimpico, si è chinato, si è messo le mani tra i capelli ed ha continuato, sommessamente, a piangere. Si avvertiva, si vedeva che quelle erano lacrime sgorganti da sentimenti misti. Gioia, incredulità, tensione finalmente scaricata, riscatto, rimpianto. Tutto insieme, in quel singhiozzare composto.

Nell’intervista a caldo, ancora grondante gocce di ginnico sudore, ha mostrato il volto umano di un giovane campione, esibendo poche ma sane, fondamentali certezze.

Ha tenuto a sottolineare che lui è pulito. E non è dichiarazione da poco – anche se, in un mondo di sport ideale, e non quello furbesco e truffaldino di oggi, dovrebbe essere la norma, non un fatto da mettere in risalto a distinguersi da altri che invece si dopano. Un giorno potrà arrivare decimo o ventesimo anziché primo, ma ci arriverà sempre solo con le sue forze. Perbacco. Ha difeso ostinatamente la propria privacy, non intendendo rivelare – nonostante l’insistenza dell’intervistatrice in cerca di un futile scoop pettegolo – la provenienza del braccialetto portafortuna ostentato alle telecamere poco prima dell’arrivo. È un messaggio pubblico ma strettamente privato, diretto solo a chi sa lui, e tale deve restare. Ha ricordato il nonno, scomparso di recente, che chissà come sarebbe stato orgoglioso del suo Alex campione, e ancora gli sono affiorate delle lacrime che scorrevano calde sul primo piano del suo viso sudato. Rallegrati, Alex. Il nonno ti vede e oggi festeggia con te. Ha voluto ricordare tutto il gran lavoro di preparazione fatto a Saluzzo con Sandro, e l’intimità del rapporto con il preparatore gli ha fatto dimenticare che non tutti gli italiani sanno che Sandro è Damilano, uno della famiglia dei fratelli marciatori protagonisti di imprese e successi di circa tre decenni fa. Ha detto, suscitando un’arguta simpatia, che il duro non sono stati i quindici giorni di preparazione a Pechino, saranno i prossimi quindici giorni di festeggiamenti a casa. E casa è un paesino minimo di trentuno abitanti, che fanno di Alex il campione olimpico proveniente dal borgo più lillipuziano del mondo.

Bellissima infine una sua dichiarazione, fonte di insegnamento per tanti supposti fuoriclasse. Stimolato dalla giornalista a confrontare la vittoria di oggi e la mala sconfitta di un anno fa ai mondiali di Osaka, ha risposto, con la pulizia e la schiettezza di un ragazzo semplice, da allora sono cresciuto molto. Del resto, non è che dalle vittorie si impari molto. Che cosa sensazionale. In un mondo di campioni boriosi, saccenti, spocchiosi, che hanno visto tutto e vinto tutto e sanno tutto, ecco un ragazzo che istintivamente, in presa diretta, ci dice che è dalle sconfitte che si impara a diventare più forti, più umili, più uomini. Bravo Alex. Benvenuto nell’esclusivo, privilegiato, semivuoto club dei campioni veri. Nonché degli uomini veri.


Prima pubblicazione : 22 agosto 2008

martedì 8 maggio 2012

L’aviatore

Trent’anni oggi dalla morte di Gilles Villeneuve. Lo voglio ricordare con un racconto maturato durante un gran premio vissuto in diretta, nella lontana Malaysia. Ma con il cuore a Maranello.

Storie di passione (e di interesse)

Mattinata a Sepang, torrida anteprima di un Gran Premio in bilico sui capricci atmosferici. Una coda esorbitante di umanità eterogenea, pronta a farsi arrostire per più di un’ora sotto un sole implacabile, malamente schermata da bandiere nazionali usate come mantelli, ombrelli multicolori, stendardi delle squadre. Un’arcobaleno di maglie rosso Ferrari, verde Lotus, argento Mercedes, blu Red Bull. Tutti in ordinata e mite attesa del momento di gloria. L’autografo del pilota. Finalmente, salutati da un’ondeggiare di folla assiepata attorno alle transenne, e da un simultaneo levarsi al cielo di mille macchinette fotografiche alla ricerca dello scatto memorabile – tipica conversazione, di ritorno a casa: Guarda qui! Chi è? Ma come, è un pilota di Formula Uno!! Ahhh… – approdano dei pulmini neri dai quali saltano fuori prima dei truci guardiani dalla camicia alonata, e poi quattro giovani piloti. Mormorio della torma fotografante, con qualche accenno di urletti da fans di rockstar.

Tra i quattro, giovani reclute dello sparuto plotone di superveloci funamboli della pista, anche un italiano: Vitantonio Liuzzi, al soldo della Force India. Anto’, mi verrebbe da chiamarlo, per offrirgli un sentore di casa, di Italia, di strapaese. Perché l’espressione è disorientata, tesa quasi, si guarda intorno con gli occhi sgranati, come alla ricerca di un suo posto dove rifugiarsi da quella anonima schiera osannante. Nemmeno un vago sorriso.

Poi arriva un altro mezzo, e si scatena il putiferio. Dopo i pesci piccoli, ecco i pezzi da novanta. Folla in delirio, braccia alzate e bandiere agitate: Michael Schumacher e Nico Rosberg. Osservare così da vicino – e insieme distaccatamente – questi divi ultraterreni porta a considerazioni curiose. Nico si muove rilassato, allegro, e ne ha ben donde: giovane, bello, biondo, figlio di campione e campione in fieri, padrone di varie lingue con equanime proprietà. A volergli proprio trovare un difetto (ma è questione personale, derivante da una lancinante antipatia nei confronti del soggetto, certo a causa di interpretazioni di passati filmacci), una contenuta rassomiglianza con il bambolotto Di Caprio dei tempi del Titanic. Auguri a Nico di una bella carriera, che lo porti, come il padre Keke, a vincere un titolo mondiale. Magari su una Ferrari.

E che dire del personaggio Schumi dal vivo? Appena sceso dal furgone esibisce subito un sorriso soddisfatto, un’aria di orgoglio e di assoluta sicurezza di se stesso, portamento marziale a petto in fuori. Il linguaggio del corpo comunica, senza aprir bocca, rieccomi, sì, sono io, quello che ha vinto tutto e ha vinto più di tutti, e allora? Un quarantunenne, dall’aspetto sorprendentemente fresco e quasi imberbe, che compete con i ventenni appena approdati al circo, di cui Michael potrebbe essere il babbo.

Nonostante gli evidenti sforzi dei tuoi PR, non sei mai stato un campione di simpatia, Michael. E questa tua adesione al partito avversario è dura da digerire per un vecchio fan di Maranello. Specie dopo tutta la manfrina a base di improvvisi mal di schiena della fine di stagione appena trascorsa, quando si trattava di sostituire Massa per poche corse. Ma tant’è. La Formula Uno, si sa, si fonda sugli Euro (a milioni) e non sui sentimenti. Ovviamente la Mercedes ha spalancato il suo dovizioso borsellino per averti, oltre che come pilota, come testimonial delle sue vetture.

A noi tifosi ferraristi non resta che renderti il giusto merito per averci fatto vincere una straordinaria cinquina di titoli all’inizio del millennio. Era dai tempi di Scheckter (1979) che non si vedeva il cavallino rampante campione del mondo.

Al Drake – che il dio dei motori lo riposi in pace – questo non sarebbe piaciuto. Lui, abituato a portare degli sconosciuti in scuderia e a trasformarli in campioni, senza mai offuscare la macchina. Era la Ferrari la protagonista, allora. Ma questa è un’altra storia: di passioni, di amori e di umori.

E per raccontarla bastano le immortali parole di Enzo, incise su un monumento celebrativo all’interno dell’autodromo di Imola, toccante epitaffio dedicato da un burbero vecchio ad un giovane impavido che se ne andò troppo presto per non lasciare un vuoto doloroso nel cuore di tanti appassionati: Gilles Villeneuve.


Sì, c'è stato chi lo ha definito "aviatore" e chi lo valutava "svitato".

Il giorno che lo assunsi, prelevandolo dalle motoslitte, si sollevò un plebiscito di critiche e quando l'ho paragonato a Nuvolari c'è stato chi mi ha rimbeccato.

Gilles? con la sua generosità, con il suo ardimento, con la capacità "distruttiva" che aveva nel pilotare le macchine, macinando semiassi, cambi di velocità, frizioni, freni, ci insegnava cosa bisognava fare perchè un pilota potesse difendersi in un momento imprevedibile, in uno stato di necessità.

E' stato campione di combattività ha regalato ed ha aggiunto tanta notorietà alla Ferrari.

Io gli volevo bene.

Enzo Ferrari



Prima pubblicazione : 5 aprile 2010


lunedì 30 aprile 2012

Tornare bambini

L’uomo ragno ti dà il benvenuto, sospeso in alto nell’androne del Museo del Fumetto di Lucca.

Chi si ricorda di Tiramolla? È una piacevole sorpresa ritrovare personaggi dei fumetti di gioventù, come l’eccentrico ed esile omino o il signor Bonaventura ed il suo – allora favoloso – milione di lire.

Andrea Pazienza, come tutti i miti, se ne va giovane. Lasciandoci personaggi come Pentothal o il cattivo Zanardi, detto lo Zanna. Eccolo in un fumetto a grandezza naturale e in tre dimensioni.

Un tenero Pinocchio viaggiatore, sulle ali di una colomba bianca, in un cielo blu orlato di nuvole. Non so perché, ma questa tavola mi piace particolarmente. Forse sono io che volo e osservo il mondo da lassù.

Lo sbigottito stupore negli occhi di un bambino emigrante nella New York del secolo scorso. Un acquerello luminoso ed eloquente più di tante fotografie.



giovedì 1 marzo 2012

Quale allegria

Di recente ho riascoltato per caso alla radio uno dei pezzi più magicamente tristi di Lucio Dalla. Mi ha riportato indietro nel tempo, ho rivissuto per un attimo sospeso dei momenti di quasi trent'anni fa. Subbuglio interiore. Ci sono canzoni che non si rimuovono da dentro. Ci sono frasi che ti fanno d'improvviso avvertire che hai un cuore. Lo senti muoversi. Pulsare forte, imperioso. Tolgono il fiato, e capisci che non potresti aggiungere altro, nemmeno con un milione di parole a disposizione, a quella perfetta armonia malinconica. Allora oggi lascio che il maestro Lucio ci racconti ancora una volta la sua poesia antica ma sempre attuale:

Quale allegria
se ti ho cercato per una vita senza trovarti
senza nemmeno avere la soddisfazione di averti
per vederti andare via

quale allegria,
se non riesco neanche più a immaginarti
senza sapere se strisciare se volare
insomma, non so più dove cercarti

quale allegria,
senza far finta di dormire
con la tua faccia sulla mia
saper invece che domani ciao come stai
una pacca sulla spalla e via...
quale allegria,

quale allegria,
cambiar faccia cento volte per far finta di essere un bambino
con un sorriso ospitale ridere cantare far casino
insomma far finta che sia sempre un carnevale…
Sempre un carnevale.

Senza allegria
uscire presto la mattina
la testa piena di pensieri
scansare macchine, giornali
tornare in fretta a casa
tanto oggi è come ieri

senza allegria
anche sui tram e gli aeroplani
o sopra un palco illuminato
fare un inchino a quelli che ti son davanti
e son in tanti e ti battono le mani.

Senza allegria
a letto insieme senza pace
senza più niente da inventare.
Esser costretti a farsi anche del male
per potersi con dolcezza perdonare
e continuare.

Con allegria
far finta che in fondo in tutto il mondo
c'è gente con gli stessi tuoi problemi
e poi fondare un circolo serale
per pazzi sprassolati e un poco scemi

facendo finta che la gara sia
arrivare in salute al gran finale.
Mentre è già pronto Andrea
con un bastone e cento denti
che ti chiede di pagare

per i suoi pasti mal mangiati
i sonni derubati i furti obbligati
per essere stato ucciso
quindici volte in fondo a un viale
per quindici anni la sera di Natale...


domenica 12 febbraio 2012

The greatest love of all

Non si dovrebbe mai stare svegli fino a tarda notte. Perché quando finalmente trovi la maniera di andare a dormire, scopri un’ultima notizia che ti fa dire, no, non è vero. È uno scherzo. Invece, mentre in Italia i giornali dormono e le notizie languono, basta cercare sui siti esteri e sai che è proprio così.

Una delle più grandi voci al mondo tace per sempre. Non è stata capace di applicare nella sua vita quello che cantava agli inizi della carriera, quando era bellissima ed io – raro, ma può capitare, specie quando fai il disc-jockey, e la musica è la tua professione – sognavo di incontrarla. Di sentirla cantare. Di poterle parlare, per capire come ci si sentisse quando si è dotati di un dono straordinario. Carlos Santana al contrario: lui usa la chitarra come una voce. Whitney Houston, la voce come uno strumento, ora sassofono, ora violino, ora organo. Suadente. Divina. Capace di cantare a cappella senza che si sentisse il bisogno di uno strumento musicale.

Learning to love yourself, it is the greatest love of all. Ma non è vero, come cantavi, che è facile da ottenere. Ti voglio ricordare, salutandoti per l’ultima volta, non con il pezzo che tutti conoscono. Ma con quello che adoro. Perché il Peter Pan in me vorrebbe – anche se la vita non te lo concede – che tu fossi sempre rimasta quella fanciulla dalla voce prodigiosa, dagli occhi sognanti di cerbiatta, dal sorriso troppo candido e troppo felice per sopravvivere alla spietatezza dello show business.

Farewell, Whitney.

martedì 24 gennaio 2012

Gianni Agnelli, nove anni dopo

Ripubblico un pezzo scritto tre anni fa, aggiornando solo le distanze temporali. Perché quello che pensavo allora lo penso ancora oggi.

Gianni Agnelli, sei anni dopo

Cercare qualcosa di originale da dire sull’Avvocato per antonomasia è impossibile. Su di lui è stato detto tutto. Ammiratori, adoratori e adulatori hanno versato fiumi di inchiostro e di saliva scrivendo e parlando di lui. Detrattori, critici e nemici di classe hanno fatto altrettanto, solo che gli schizzi di saliva sono pieni di livoroso veleno.

Di un’eleganza istintiva, naturale, non seguiva la moda ma la creava. A lui si perdonava tutto, e tutto diventava immediatamente di tendenza, con stuoli di tristi cloni che si illudevano di assomigliargli, portando l’orologio sul polsino e la cravatta sul golfino.

Grande appassionato dei piaceri della vita. Viaggi. Isole. Frequentazioni di presidenti e papi. Elicotteri per spostarsi anche dalla villa collinare a corso Ferrucci a Torino. Il pallino del calcio e della Ferrari. Una vita vissuta sulla corsia di sorpasso.

Aveva tutto, e non deve essere facile trovare delle motivazioni quando si è così oltraggiosamente ricchi. Forse conduceva un’esistenza meno sfrenata e più monastica di quanto la gente si immaginasse nelle sue frustrate fantasie. Ma anche. Il destino di due incidenti automobilistici che lo lasceranno claudicante. Il bastone portato come uno scettro reale, con autorità e stile. Una storia familiare costellata di tragedie e di dolore, come se il fato esigesse un crudele contrappasso per quell’opulenza oltre l’ammissibile. Orfano di padre da adolescente, perde la madre a ventiquattro anni. Negli anni della senilità vede morire suicida il figlio Edoardo e un cancro gli ruba l’adorato e adorabile nipote Giovannino, già da lui incoronato futuro capitano d’industria della famiglia.

Aforista. Opinionista. Capitalista. Sciatore. Navigatore. Conduttore. Elegante. Affascinante. Importante. Inimitabile. Imprevedibile. Indimenticabile.

Di Agnelli, nonostante la sua ubiquitaria presenza ed il peso ingente sulla società italiana, non si ottenevano se non gli scatti che lui accettava fossero presi. Quelli ufficiali, contributo alla creazione dell’iconografia pubblica. L’Agnelli privato, familiare, intimo, veniva gelosamente tenuto nascosto, in perfetto stile subalpino, lontano dalle insidie del gossip da negozio di parrucchiera e tivu spazzatura.

Nel sesto anniversario della sua scomparsa la Juventus ricorderà il presidente che la accudiva e la coccolava come una bella amante, le chiavi dei cui bramati, intimi sacelli appartenevano in esclusiva a lui. Orgoglioso, critico, appassionato e viscerale come tutti gli tifosi, coniava definizioni che diventavano soprannomi, tagliava giudizi che rimanevano incollati alla persona per il resto dei suoi giorni. Pinturicchio. Il coniglio bagnato. Bello di notte. I giornalisti sportivi dei suoi tempi non avevano bisogno di immaginazione, solo di buone orecchie.

È stato un grande. Un personaggio certamente ingombrante. Forse troppo, per quel piccolo stivale che non ha mai fornito grandissimi protagonisti della scena mondiale. Uno dei pochi italiani ad ottenere una copertina – elogiativa – di Time. L’unico altro che ricordo è Giorgio Armani. Forse Pavarotti.


Il valente Marcello Marchesi lo definì con geniale sintesi. In due parole appena seppe riassumere il suo ruolo nell’Italia degli ultimi cinquanta anni: Fiat dux.

L’ultimo vero condottiero della Fiat se n’è andato sei anni fa, in silenzio, in punta di piedi, con quella discrezione e quella signorilità che lo avevano sempre contraddistinto. Da allora sono in molti a sentire la mancanza di una figura di potere di quello spessore, eppure così garbata e raffinata. Buon riposo, Avvocato. Dopo tutto quello che ha fatto nella sua vita, se lo merita.


Prima pubblicazione : 24 gennaio 2009

venerdì 20 gennaio 2012

Una voce fuori dal coro

Shinjuku, quartiere denso di ristorantini da tempura e sushi-bar. E’ l’ora del passeggio del dopo cena. La macchina della polizia gracida alcuni ordini dal suo altoparlante esterno, che permette agli agenti di impartire disposizioni senza scendere dalla vettura. La grossa limousine bianca fermatasi in seconda fila, oggetto del richiamo, scarica senza fretta un personaggio, la cui comparsa sulla strada viene riverita con profondi inchini dal suo scagnozzo, sceso di corsa ad aprirgli la porta. Poi lo stesso continua la sua pantomima a beneficio dei poliziotti, quasi a scusarsi di avere causato un problema alla viabilità con la sua fermata.

Do you speak english?, ci apostrofa un ometto un po’ male in arnese che ha voglia di attaccare bottone. Sì che parliamo inglese, la cosa strana è che sia lui a parlarlo, date le sue fattezze giapponesi. Ci chiede se sappiamo chi è quello che è sceso dalla macchina oggetto della nostra curiosità. Mafia dice, proprio così, non usa neppure il termine che designa la mafia giapponese, la Yakuza. Potenza delle parole. E non sa neppure che siamo italiani, forse avrebbe usato un’altra parola. Ci prende per australiani. Poi, appresa la nostra nazionalità, il ghiaccio è rotto.

E da sotto il ghiaccio emerge un fiume impetuoso di parole, certo non benevole nei confronti della sua razza. Una critica serrata all’intero popolo giapponese, dipinto come insensibile, senza opinioni proprie nè quindi capacità critica, senza senso del contatto umano, dei robot insomma. Non meglio sono considerate le donne, descritte senza mezzi termini come senza cervello. Forse un po’ riduttivo o generalizzante? Di certo non deve avere avuto delle belle esperienze, visto che, arrivato ai circa cinquant’anni che ci dichiara, non si è ancora sposato. E ingenuamente ci interroga, per sapere se secondo noi farà ancora in tempo a trovare l’anima gemella.

E le regole che scandiscono la vita? I giapponesi sono trattati come bambini di sette anni (testuale!), troppi automatismi ad esempio sono parlanti, e non fanno altro che ringraziare continuamente i fruitori, nonché ripetere banalità evidenti anche ad un babbuino, come un ascensore che ti dice “premi il pulsante, ora saliamo, ora scendiamo, grazie di avermi usato” oppure un treno od una metropolitana che ti avverte “stiamo partendo, stiamo per fermarci” e via discorrendo.

Trattate le regole formali, critiche piovono anche sulla capacità di fare rispettare la legge. La Yakuza è troppo potente, nessuno fa nulla per combatterla, non come da voi che se non altro cercate di opporvi alla mafia – anche se poi i giudici saltano per aria, avrei voglia di aggiungere, ma lasciamolo nella sua illusione.

E che dire dei rapporti interpersonali? L’amicizia, come la intendiamo noi, pare non esista. Puoi conoscere da vent’anni un amico, e questo difficilmente ti inviterà a casa sua, ti presenterà la moglie, ti parlerà dei figli. Robots, come a più riprese sottolinea.

Deve essere veramente dura la vita in Giappone per un emarginato. Dopo un periodo di vita negli Stati Uniti, dove ha studiato e poi ha fatto il giornalista e lo scrittore, non è riuscito a riadattarsi allo stile giapponese, forse non gli è neppure stata data l’opportunità di farlo.

Ha cercato, con discrezione, quasi con pudore, di venderci una copia di un suo romanzetto pubblicato a Los Angeles, direi di spunto autobiografico, dove si raccontano gli Stati Uniti visti dagli occhi di un giovane giapponese bloccato da un guasto alla macchina nel Nebraska.

Ci ha raccontato di come sia difficile fare capire un libro ad un giapponese, e che lui parla preferibilmente con gli stranieri perché lo ascoltano, anche se non lo conoscono, ed alla fine qualcuno gli compra anche una copia. Ci ha detto come sia brutto essere cacciati da un ristorante a pedate, perché si disturbano gli ospiti.

Aveva probabilmente ancora voglia ed argomenti per parlare chissà quanto, ma si era fatto tardi. Eravamo in due, gli abbiamo comprato una copia a testa. Sperando che lo aiuti a continuare i suoi viaggi. Ci ha detto che avrebbe il desiderio di andare a vedere l’Africa.

Coraggio, Hideo. Il mondo non è tutto così brutto come lo vedi tu con gli occhi di un giapponese non integrato, rifiutato dalla sua stessa gente, popolo senza pietà né compassione. Parole pesanti come pietre, dettate dalla delusione di una vita errabonda. Ti auguro di trovare, nel tuo peregrinare, altra gente, disposta a offrirti un po’ dell’umanità che non riesci ad ottenere a casa tua. E grazie per averci fatto sentire una voce fuori dal coro.


Prima pubblicazione : 18 settembre 2007

martedì 17 gennaio 2012

Conigli nazionali - e non

Innanzi tutto chiedo scusa a Emanuele Filiberto. Che c’entra con i conigli nazionali? Nulla. Infatti gli chiedo scusa. Perché in un momento di conigliaggine diffusa, ha dimostrato di aver il coraggio di farsi ritrarre con un’idrovora in mano, vestito da operatore ecologico (versione politically correct del più volgare fognaiolo), alla faccia dell’ascendenza regale da cui proviene. Probabilmente si saranno avvertiti leggeri moti sussultori sia nei pressi della Basilica di Superga, sia vicino al Pantheon a Roma. Niente paura: erano soltanto gli avi del principino che si rivoltavano nelle auguste tombe. Ma la temerarietà sfrontata dell’ultimo erede di Casa Savoia fa da straordinario contrasto con alcuni episodi di estrema viltà, di cui si parla proprio in questi giorni.

Conigli 1.
Torino. Sono stati – finalmente – catturati i due assassini di Alessandro Sgrò, sette anni, travolto e ammazzato sulle strisce a dicembre, davanti a dei genitori impotenti e sconvolti da tanta efferatezza. Alessandro Cadeddu e Francesco Grauso, di Aosta. Dopo l’investimento, stando alle loro stesse dichiarazioni, sono andati a comprare eroina dal pusher. Ci è voluto più di un mese per trovarli. Assassini di un bambino: speravate di passarla liscia? Di vivere tranquillamente con un peso del genere il resto della vostra vita, riuscendo a dormire ogni notte? La parola coscienza vi dice nulla? Avreste fatto meglio ad assumervi le vostre responsabilità. A presentarvi spontaneamente, invece di nascondervi come conigli. Ora spero che pagherete il giusto. Non servirà a riportare ai genitori Alessandro. Ma che sia almeno di monito a tutti i potenziali assassini al volante.

Conigli 2.
Roma. È stato trovato impiccato (e forse avvelenato, si aspettano gli esiti dell’autopsia) Mohamed Nasiri, uno dei due marocchini che due settimane fa, durante un tentativo di rapina, ha sparato a Zhou Zheng e alla figlioletta di nove mesi. Suicidio, dicono le fonti ufficiali.

Confesso che il primo pensiero, all’udire la notizia, è stato: lo hanno trovato prima loro. Sono in buona compagnia, a quanto pare. Nonostante le smentite dei portavoce della comunità cinese, in parecchi nel quartiere di Torpignattara credono ad un atto di giustizia sommaria da parte della mafia cinese.

Se l’assassino si è veramente ammazzato in preda agli atroci rimorsi per quanto ha compiuto, pace all’anima sua. Se invece – come ventilano certe ipotesi – l’informazione sul suo nascondiglio è stata venduta a chi voleva applicare la legge del taglione, occhio per occhio, morto per morto, allora avrebbe fatto molto meglio a non cercare di scappare: le galere italiane sono sempre un’alternativa migliore alla giustizia sommaria di chi arriva da un paese che per legge ha la pena di morte per un’ampia gamma di delitti, e la applica senza risparmiarsi, figuriamoci quelli che sono fuorilegge.

Ora speriamo che i nostri investigatori acchiappino almeno il complice. Così ci sarà una parvenza di giustizia – all’italiana – in questo delitto che ha toccato molte corde sensibili. Tra un quattro o cinque annetti forse si avrà una prima sentenza. Che potrà esser ribaltata in appello. Indulti e amnistie. Correità con uno che non si può difendere perché regolarmente defunto, con conseguenze comodo scarico di responsabilità sul morto. Dieci anni di gattabuia a dir tanto.

Allora, coniglio in fuga: meglio costituirsi o farsi trovare da chi è abituato che i processi durano quindici giorni – in tribunale – e venti minuti se il P.M. è un boss di una triade?

Conigli 3.
Isola del Giglio. Vada a bordo cazzo. Diventerà un tormentone. La voce autorevole, forte, irrefutabile del Comandante De Falco (questo sì meritevole del grado, e con la ci maiuscola) che intima, da vero militare, al conigliante Schettino di fare il suo dovere, ossia tornare subito a bordo della nave che indegnamente presiedeva e che ha abbandonato al suo destino quando era ancora piena di passeggeri. Che disgusto. Una volta i veri comandanti affondavano con la nave. Forse era retorica patriottarda, forse non sempre gli eroismi saranno stati autentici e volontari, ma solo causati dall’impossibilità di salvarsi. Ma allora c’erano davvero stirpi di uomini per cui l’onore valeva più della propria stessa vita. Capitani coraggiosi.

Invece oggi ci rendiamo tristemente conto che la vigliaccheria, il prima io poi gli altri se ce la fanno, e se no che crepino, l’abuso di titolo e di credulità popolare imperano. Di parole ne sono state spese sin troppe, nei confronti di questo ignobile marinaio con molto meno coraggio di certi suoi subalterni che hanno invece dimostrato valore, abnegazione e sprezzo del pericolo, restando a bordo finché c’erano dei passeggeri e dei colleghi da salvare.

Basta parlare di conigli: io voglio fare un plauso al Comandante De Falco. So che non è possibile, ma se mai un giorno decidessi di fare una crociera, o anche solo di prendere un traghetto, mi piacerebbe che al timone ci fosse Lei. O almeno uno che da Lei ha preso il cipiglio, le certezze e il senso del dovere. Cazzo.


giovedì 5 gennaio 2012

Il principe (seconda puntata)

Due anni fa avevo scritto una pubblica missiva a Emanuele Filiberto di Savoia, quando le sue incombenze si limitavano a pubblicizzare dei prodotti, e non era ancora apparso in spettacoli di canzonette né – tanto peggio – in reality di dubbio gusto. Notizia di oggi, il rampollo della Casa Reale si è presentato a Jesolo, per un imminente programma intitolato “Principianti”, travestito da operatore ecologico, per aspirare liquami dalle fogne. Usque tandem, E.F.?

Prìncipe, e i princìpi?

Mi ha procurato una sensazione strana e quasi indefinibile vedere l’immagine di Emanuele Filiberto esibita in un centro commerciale. Perché al polso, ben in vista, sfoggiava un orologio, inequivocabile soggetto della campagna pubblicitaria e ragione della presenza del principesco volto in tale incongruo contesto.

Questo apparentemente insignificante episodio mi ha continuato a girare nella testa per qualche giorno. Allora mi sono detto, se è così, fermati e riflettici su. La marca in questione mi era fino a quel momento totalmente sconosciuta: necessitava di un nome illustre per essere lanciata? Mi sono chiesto: cosa spinge una persona come Lei a prestarsi a tali plebee incombenze? Perché non lascia queste ostensioni da poster sui viali o da pagina sulle riviste a calciatori, veline, subrettine, mezze calzette televisive e altra fauna assimilata, la cui faccia da video vende perché è il pubblico drogato di televisione quello che poi compra le merci reclamizzate dai propri beniamini?

Che ci fa lì Lei, accordo di Stradivario in mezzo ad una stonatissima cacofonia di ritornelli burini e sguaiati?

E mi sono domandato ancora, di che cosa vive un principe senza trono? È dalle pubblicità che trae i proventi per la sua esistenza, certo non da metalmeccanico? È questa comparsata un bisogno, o uno sfizio, o una regale, magnanima cortesia ad un amico imprenditore in cerca di un viso speciale?

Che Le piaccia o no, Lei fa parte della Storia. È l’ultimo erede di Casa Savoia e, se gli italiani avessero votato appena un po’ differentemente una sessantina di anni fa, Lei oggi studierebbe da Re. Davvero ritiene che l’apparire in televisione in trasmissioni danzerine e fare da testimonial ad una marca di segnatempo La facciano diventare magicamente “una persona normale”? Uno che si incontra per la strada e gli si dice, dai, andiamo a bere qualcosa insieme?

Emanuele Filiberto: Lei è una persona inconsueta, già a partire dal nome. Un nome che evoca battaglie, sciabole sguainate e ringuainate, guerre e paci, conquiste ed armistizi, parlar francese di corte e sposalizi con altre nobiltà europee. Le statue dei Suoi padri troneggiano su piazze e incroci a Torino ed altre città d’Italia. Accetti questo fatto: non è un giovane qualsiasi, né lo sarà mai.

L’ho vista qualche tempo fa in televisione, non ricordo in quale dibattito, e mi è piaciuto molto, ma molto davvero, il Suo atteggiamento intransigente nei confronti di un giornalista che cercava di buttare sullo scandalistico i gusti del suo augusto nonno, il Re di Maggio Umberto II. Bravo, ho pensato. Non accetti provocazioni, in un momento in cui lo schiamazzo, il ludibrio, la ricerca della corruzione non risparmia neppure chi avrebbe diritto al silenzioso rispetto dovuto ai morti. Anzi, difenda la memoria di un Signore, di quei rari tali che meritano la esse maiuscola.

Ora La ritrovo su quel manifesto, senza dubbio ben studiato, nulla di pacchiano, per carità, ma con un esplicito intento affaristico. E – senza pretesa alcuna di dar lezioni di morale a chicchessia, e men che meno a Lei – mi interrogo: è questo un segno dei tempi? È dunque normale che un principe si dedichi alla pubblicità, al pari di un qualsiasi anonimo indossatore pescato in un catalogo di visi fotogenici da qualche agenzia – notoriamente non alla ricerca di teste pensanti, ma solo di facce che vendano i prodotti dei suoi committenti? Dobbiamo rassegnarci al fatto di vederLa canticchiare a Sanremo, ballare in televisione, offrire il Suo polso a oggetti da reclamizzare?

E se infine, in un’inopinata pulsione di democraticità, decidesse mai che vuole spendere un po’ del Suo tempo per rispondere ad un ordinario cittadino che ha avuto l’ardire di indirizzarLe una missiva con delle domande, sappia che non sono io, comune italiano, a porGliele. Sono tre generazioni della mia famiglia: un bisnonno che combattè a Curtatone e Montanara con in testa il sogno di fare l’Italia, un nonno che fu in Libia nel ’12 e poi comandò le nostre truppe contro gli austriaci nella Grande Guerra, e da questa uscì ferito, un padre che, giovanissimo ufficiale, combattè la stessa Grande Guerra e poi entrò in Addis Abeba nel ’36, alla guida degli Ascari e del suo reggimento di artiglieria. Questa gente giurò fedeltà alla famiglia dei Suoi avi, spronò soldati al grido Savoia!, si battè per un’Italia la cui bandiera recava lo stemma della Sua casata, ebbe medaglie per l’ardimento dimostrato sul campo di battaglia.

Dunque non sono io che Le pongo, spero con rispetto, quelle domande. Sono loro.


Prima pubblicazione : 22 gennaio 2010