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lunedì 2 giugno 2014

Viva la privacy

Proprio vero. Paese che vai, usanze che trovi. Da noi capita talvolta che chi viene sorpreso in attività illecite sia nominato con le sole iniziali (e non è necessariamente un minore) oppure addirittura in forma anonima. Un ladro si è introdotto nella cascina ... S.G. è stato sorpreso a forzare la serranda di ...

Nell’aeroporto di Delhi troneggia il ritratto impettito e severo di Vijai Tiwari. Se fossimo in un albergo lo chiameremmo l’impiegato del mese. Ma Vijai appartiene al corpo paramilitare dei CISF, che si occupano di sicurezza aeroportuale.

Con abbondanza encomiastica di dettagli, il manifesto spiega che lo scaltro ufficiale ha scovato, meglio di un cane antidroga, la bellezza di dodici chili di sostanze proibite (anche se il principio attivo lo si trova perfino nei banali decongestionanti nasali) nella borsetta di una passeggera, menzionata con tanto di nome e cognome, paese d’origine e destinazione del suo volo. Manca solo di sapere se è libera e le misure di seno, vita e fianchi, come per le pin-up.

Cara Mjoli: non ti è passato per la testa che le borse devono passare allo scanner, con qualcuno pagato per stare lì tutto il giorno davanti a un monitor a ficcanasare ai raggi ics nelle scarselle della gente? E poi: dodici chili di pasticche? In una borsetta a mano? Avevi paura che ti facessero pagare il supplemento peso bagaglio, a metterle nella valigia da stiva?

Mah. Il prode Vijai avrà avuto anche buon fiuto. Ma non credo ci volesse Sherlock Holmes per beccare una corriera della droga così sprovveduta.




giovedì 20 marzo 2014

Scoprite le differenze


Facciamo un gioco. Io vi fornisco gli elementi di confronto da una parte. La controparte ce la mettete voi, con le – spero poche – esperienze che avrete maturato di persona o per sentito dire. E poi mi direte se avete trovato delle differenze.

Singapore, ingresso del National University Hospital. Un cartello spiega il percorso del paziente dal suo arrivo in ambulanza al pronto soccorso, illustrato come se fosse un allegro gioco dell’oca, con tanto di punto di partenza indicato dalla freccina.

Ecco alcuni dettagli rimarchevoli: controllo temperatura, immediato; registrazione, immediata. Poi si prendono da due a cinque ore per una diagnosi fatta da un team medico capeggiato da un primario. Alla fine di ciò, il bivio: il paziente o viene dimesso, o viene ricoverato. A casa, oppure in reparto.

E i reparti del NUH sono immacolati, con un buon profumo di pulito ma senza l’invasivo lezzo di disinfettante, le sale d’aspetto per i parenti con la televisione accesa ma a basso volume per discrezione, ascensori lustri e dal movimento soave, giardinetti interni ben curati con una scultura informale dal benaugurante nome Hope, speranza. Per non parlare del personale, attento, garbato e professionale da lasciare a bocca aperta.

A Singapore la tecnologia è di casa. Volete partecipare ad un sondaggio sulla qualità del servizio ricevuto in ospedale? Compilate il questionario con il telefonino, leggendo l’ormai onnipresente codice QR. Temete di perdervi mentre siete alla ricerca di un parente ricoverato? Niente paura: basta scaricare la mappa interattiva che vi guiderà attraverso i reparti. Codice QR disponibile per Android e iPhone. Sembra una pubblicità. Invece è tecnologia al servizio della civiltà.

Siamo a metà del gioco. Ora tocca a voi completarlo: pensate ad un qualsiasi ospedale pubblico italiano, e scoprite le differenze. Non si vince nulla, ma magari – come diceva Benigni – ci si incazza parecchio. Come quando ti senti dire che ci vogliono sei mesi per fare un esame, che guarda caso nel centro privato si fa in pochi giorni. Basta pagare.



martedì 8 ottobre 2013

Fire escape device


Corda, due paia di guanti, maschere antifumo, martello appuntito per rompere il vetro della finestra. Era davvero tanto tempo che non trovavo in una camera d’albergo un set completo per mettersi in salvo in caso d’incendio. L’ultima volta mi era successo a Taiwan, nel 1998. Mi aveva incuriosito al punto da scrivere un raccontino.

Paese che vai...

... attrezzature che trovi. Mi era capitato di scoprire, nelle camere di albergo, le cose più sorprendenti, almeno per gli standard degli hotel nostrani. Un kit di emergenza antincendio costituito da una maschera antigas (Corea), istruzioni dettagliate su cosa fare e come non farsi prendere dal panico in caso di terremoti (Giappone e Taiwan), le paperelle di gomma sul bordo della vasca da bagno (Inghilterra), perfino i preservativi in confezione da tre (con tanto di prezzo nella lista del minibar) gaiamente proposti fra noccioline, mignon di liquore e patatine per lo spuntino notturno (Brasile, e dove altro sennò?).

Ma la scatola metallica bianca che trovo in un angolo della stanza, a Kaohsiung, supera la mia capacità di non sorprendermi più. Ascend escape device, le uniche parole leggibili in una selva di caratteri cinesi, risaltano in rosso vivo sul coperchio. Un cartello di plastica per l’uso del contenuto, privo di traduzione, ma per fortuna con disegnini esplicativi, fa bella mostra di sé sulla parete.

Possibile?, mi chiedo guardando le istruzioni. Possibile. Sollevo il coperchio, e trovo, ordinatamente disposti, un verricello, una grossa matassa di fune da alpinista, un moschettone ed un’imbragatura.

Però! E se mi venisse la voglia di usarlo per calarmi dal nono piano, in caso di emergenza? Osservo le istruzioni, considerando quanta gente troverebbe il sangue freddo necessario - magari col fuoco che incombe - per passare cento metri di fune attraverso il verricello, agganciarla correttamente al moschettone, e quest’ultimo all’imbragatura, dopodiché vestirla, e poi…. Già, e poi? Per calarsi da trenta metri occorre assicurare il verricello ad un gancio infisso nel muro, peccato che esista solo sul cartello appeso alla parete. E la finestra? Sigillata. Neppure un martelletto di quelli che vedi sulle porte sugli autobus, rompere il vetro in caso di necessità. Un appiglio dove tentare di agganciare il verricello? Nemmeno a parlarne, facciata verticale e liscia come un patinoire!

Risultato? Un’attrezzatura pensata in grande. Peccato che si sia pensato in grande, ma solo a metà!


Ma stavolta in Corea ho trovato l’anello mancante. Letteralmente. Sotto la scrivania, vicino alla finestra, ben imbullonato a terra c’era un robusto tassello a testa tonda, a cui agganciare la corda. Meno male. Hanno pensato anche a quello, oltre al martello assente a Taiwan.

Ah, a proposito di emergenze. Da qualche parte ho letto una di quelle notiziole che potrebbero un giorno tornare utili (anche se si spera di no…). Quando arrivate in un albergo, scegliete sempre – se possibile – una camera fino al settimo piano. Strane superstizioni? No: pare che le autoscale dei pompieri si estendano solo fino a quell’altezza. Quindi, in caso d’incendio, se siete più su dovete farvela a piedi per le scale. Oppure, ammesso che abbiate la corda d’emergenza in camera e il sangue freddo per agganciarla e calarla, dovete pregare che le vostre braccia vi reggano per l’intera discesa, magari mentre tutto intorno l’edificio sta bruciando… Fate voi. Se avete un fisico bestiale, liberi di scegliere il piano che più vi aggrada. Se no, ricordatevi il numero magico: sette.




sabato 30 marzo 2013

What a difference a word makes

Home. La differenza nella forza, nella potenza di un messaggio è tutta in quella breve ma fondamentale parola.

Gli australiani hanno una vera ossessione per salvare le vite degli automobilisti. Operando senza sosta per impedire agli ubriachi di far danni al volante. E tempestando i guidatori con continue campagne contro l’eccesso di velocità sulle strade.

L’ennesimo cartello troneggia su un viadotto di autostrada nei pressi di Sydney. Avrebbero potuto dire: drive safely. Guida con prudenza. Ma sarebbe stato il solito, trito, barboso ammonimento a rispettare i limiti e a non fare stupide gare tra auto.

Qualche creativo che si merita il posto di lavoro invece ha pensato bene di aggiungere una parola lì in mezzo. Drive home safely. Ossia, tornate a casa sicuri.

Potenza delle parole. Drive home safely. Perché lì c’è qualcuno che ti aspetta. Non deludere la tua famiglia. Torna a casa. Guidando con prudenza.

Grandi australiani.




sabato 23 marzo 2013

Felicità è…



...giocare con l’acqua, quando si è bambini. Ma a Perth, in pieno centro, nell’installazione artistica chiamata Labirinto d’Acqua, non solo lo si può fare con il permesso della mamma, che sorveglia, vigile ma divertita, cinecamera in mano.

Addirittura l’amministrazione comunale stessa incita il pubblico – si suppone, non solo quello in tenera età – ad interagire con l’opera d’arte. Ma nel contempo avverte, a scanso di cause legali per storte o contusioni da caduta, che ognuno gioca nel labirinto a suo rischio e pericolo.

I bambini, si sa, son di gomma. E saltano, allegri e incuranti degli avvisi, in un caldo sabato d’autunno, tra le cortine di zampilli rinfrescanti. Felicità è...



domenica 10 marzo 2013

Drive & Drink

Si sente sempre parlare di Drink & Drive. A Singapore una creativa e talentuosa pubblicità rovescia l’assioma. Tutti condannano la gente che prima beve e poi guida. Ma qui fanno sul serio. E affrontano la questione a monte del misfatto.

Non raccontiamoci storie: quando esci di casa sai già il programma della serata, e se ci saranno libagioni comunitarie inebrianti, minacciose per la capacità di guida. Nessuno, men che meno i poliziotti, abbocca alla facezia, toh, ma guarda, ero convinto di andare ad una degustazione di tè verde, e invece...

Per cui, al posto del solito non guidare dopo aver bevuto, questi geni della comunicazione sociale ti dicono, non guidare prima di bere. E non guiderai mai ubriaco.

Pensateci prima, per non pagare – e caro – dopo. Only in Singapore.




venerdì 8 marzo 2013

There’s an app for that!

Vecchio motto di Steve e della sua banda, per suggerire che il decisivo vantaggio di utilizzare uno dei loro oggetti di culto (guai a chiamarli banalmente telefonini) sta nella quantità quasi infinita di cose che puoi fare con tale aggeggio – spesso perfino telefonare.

Ma bisogna riconoscere che, in mezzo al gran pattume informatico disponibile per lo scarico gratis – o contro modestissima mercede – sui nostri sempre più gremiti dispositivi cosiddetti intelligenti, ogni tanto qualche programmatore di buon senso conia delle applicazioni seriamente utili. Come questa.

Se una donna per strada si sente importunata o minacciata, scuotendo il telefonino può non solo far scattare una lancinante sirena d’allarme, che richiami l’attenzione di qualche passante coscienzioso e magari faccia scappare il malintenzionato, ma nel frattempo invia automaticamente una mail a degli indirizzi prestabiliti, con tanto di mappa che indica la posizione esatta dove si trova la potenziale vittima. Non sarà la panacea contro tutti i mali, ma è già un passo in avanti. E se servisse ad evitare anche solo una violenza nei confronti di una donna, allora è stato tempo molto ben speso da parte dello sviluppatore.

Chiunque tu sia, anonimo scrittore di codici binari, hai tutta la mia simpatia.





lunedì 4 febbraio 2013

Buona fortuna...

Manca meno di una settimana al capodanno. Cinese, certo, non mi sono dimenticato questo racconto lì per un mese. Cosa succede nella nazione più popolosa al mondo? La solita frenesia propedeutica al grande, e spesso unico, evento conviviale. Milioni di lavoratori migranti si possono permettere di tornare al villaggio di famiglia solo una volta all’anno, e per meno di due settimane. Gli aerei sono per i ricchi, che peraltro non hanno bisogno di spostarsi da casa. Il 99% dei viaggiatori del festival di primavera sfolla in treno o in autobus. Spesso li usa entrambi, perché nelle zone più remote e montagnose le ferrovie non arrivano, tocca accontentarsi di torpedoni rattoppati e al limite del collasso. Buona fortuna...


Nel weekend appena terminato ci sono stati cinquantotto morti sulle strade della diaspora. Il numero in sé non farebbe notizia: ogni anno in Cina muoiono in incidenti stradali la bellezza di 70.000 persone (sì, avete letto bene. È la popolazione di un medio capoluogo di provincia italiano). A far sensazione è il fatto che questa piccola carneficina sia frutto di soli 5 incidenti. Pullman logori e furgoni stracarichi, magari guidati da incompetenti che si sono comprati la patente al mercatino del documento falso, precipitano giù da dirupi, prendono fuoco o schiacciano le vittime caracollando negli strapiombi. Un bollettino di guerra: 12 morti nel Guizhou, 7 nel Guangxi, 18 nel Gansu, 11 nel Sichuan. Più una pletora di feriti. Senza contare l’assurdo, spettacolare incidente nell’Henan. Sentite qua.


Ma c’era un qualcosa di legale nella sequenza di eventi che ha portato al crollo di un ponte autostradale, con conseguente tuffo nel vuoto – da 30 metri – di varie vetture? La risposta ovviamente è no. Allora, è andata così: un camion carico di fuochi d’artificio è esploso su un viadotto autostradale, ha fatto crollare un pezzo di ponte e una decina di automobilisti si sono spiaccicati nel sottostante baratro. Tanto per cominciare, gli ordigni pirotecnici erano fabbricati illegalmente. L’imballaggio per il trasporto era costituito da semplici sacchi di plastica, fuori da ogni normativa di sicurezza. L’autocarro carico di esplosivi era stato coperto alla meglio con dei teloni, e per concludere in bellezza il produttore aveva scelto un corriere non qualificato a gestire merci pericolose. Manca solo che ci dicano che il camionista si stava fumando una sigaretta col finestrino aperto. Quali erano le chances che tutto filasse liscio e che questa bomba su ruote arrivasse a destino in un pezzo solo? Fate voi. Le ineffabili autorità cinesi minimizzano: hanno avuto il coraggio di chiamare questa catena criminale una serie di errori umani. Qualcuno andrà in galera per questi errori. Ma intanto sono morte dieci persone. T.I.C.






venerdì 25 gennaio 2013

Nonne allo sbaraglio

Abituati alla giustizia torpida e lassista dei nostri lidi, fa clamore e scandalo leggere di condanne a morte comminate in Asia a trafficanti di droga. Ancor più scalpore – episodio di questi giorni - suscita il sapere che l’imputata sia una nonna inglese. Uno se le figura sempre in qualche casa in pietra scura, nella piovosa campagna britannica, dedite a crear trine all’uncinetto presso un caminetto che dispensa un tepore dolce e profumato di legna. Invece qualche intraprendente e insospettabile avola, forse stufa di sferruzzare e in cerca di emozioni forti, decide di trasportare all'estero ingenti quantità di droga in valigia. Probabilmente mal consigliata, perché ad essere beccata in dogana in certi posti dove per tali commerci non c’è clemenza, va sempre a finire malamente.

Come è capitato a Lindsay Sandiford, condannata dal tribunale di Bali alla pena capitale per esser stata sorpresa con rimpiattati nel bagaglio quasi cinque chili di eroina, che cercava di far entrare nella Rimini dell’Indonesia. Ennesima prova del fatto che le leggi draconiane di Singapore, Malaysia e Indonesia in tema di traffico di droghe son roba seria.

Dodici anni fa scrivevo un racconto, rimasto inedito. Eccolo: oggi è più che mai attuale. Dedicato a tutti gli irresponsabili – giovani e vecchi, è il caso di dire – che credono ancora alle favole.


Avviso ai naviganti

Un inglese è stato condannato a morte a Kuala Lumpur per traffico di eroina. Duecento grammi. Ha commentato la sentenza applaudendo sarcasticamente all’indirizzo del giudice, donna e – si suppone, dal nome – mussulmana.

Vorrei che questo fosse un avviso ai naviganti. Ai troppi, voglio sperare pochi, ma pur sempre troppi, giovani incoscienti che pensano che con certe leggi e certi moniti si possa scherzare. Non ai professionisti della morte, che quelli sanno bene a che cosa vanno incontro se colti sul fatto, ed in fondo una dose di rischio fa parte del gioco sporco del narcotraffico.

Parlo invece agli stupidi, sbruffoni forse, ragazzi che pensano, ma cosa vuoi che mi facciano se mi porto qualche dose, in fondo è per me. E invece no. Quando sei sull’aereo, e compili la carta d’immigrazione, che ci sia la pena di morte obbligatoria per i trafficanti di droga te lo scrivono in rosso, bello evidente (capita arrivando in Malaysia, a Singapore, nelle Filippine). Non bastasse, mezzora prima dell’atterraggio, un messaggio preregistrato ti ricorda che sei ancora in tempo a disfarti di imbarazzanti fardelli, prima che sia troppo tardi.

Pena di morte. Obbligatoria. Non sperare di incappare nel giudice che trova simpatica la tua faccia da bravo ragazzo. Qui i giudici, come la legge, non devono avere senso dell’umorismo. E se pure ne avessero, sono tenuti a non esercitarlo quando indossano la toga.

Ma più di tutto questo, se il gusto di rischiare la tua pelle non ti ha ancora abbandonato, sappi che non basta essere straniero per garantirsi l’immunità dalle leggi, implacabili contro gli spacciatori di morte. E qui ne basta veramente poca, di morte in forma di polvere bianca, per essere considerati spacciatori e non dipendenti dal vizio.

Mi è tornato in mente un vecchio film, Fuga di mezzanotte, in cui un giovane americano viene pizzicato in Turchia, e passa le sue, fino all’immancabile lieto fine. Duro quel film, bello e cattivo. Ma all’americana, con la vittima (vittima?) che alla fine torna a casa, almeno salva seppur non completamente sana.

Qui è la realtà, non la finzione filmica. E non è così. Ragazzo, lasciala a casa. Tutta. Dai retta. Oppure prova ad immaginare che effetto ti farebbe sentire dire: sei condannato ad essere riportato in prigione e da qui in un luogo dove sarai appeso per il collo finché non sopraggiunga la morte. Questa è la formula che pronuncia il giudice, ed è a te che parla. Pensaci. Molto, ma molto bene. Perché la vita non è un film, e la parola fine non scorrerebbe su di te che all’alba esci dalla prigione e ti avvii verso la libertà. Scorrerebbe sui tuoi piedi penzolanti. Ma tu i titoli di coda non li vedresti. Il buio sarebbe già sceso sui tuoi occhi, il film della tua vita concluso così.

Prima redazione : giugno 2001





venerdì 10 agosto 2012

Götterdämmerung

Il crepuscolo degli dei. Lacrime quattro anni fa. Lacrime oggi. Ma di tutt’altro sapore. Una rara ammissione di colpa, totale, senza la minima ricerca di scuse o attenuanti. Addirittura sospetta, in un mondo niente affatto abituato a gente che si assume le responsabilità dei propri errori.

L’Italia perde un atleta: quel paesino sperduto nel Trentino ritrova un uomo. L’uomo qualsiasi che Alex voleva ritornare, forse oppresso da una responsabilità più grande di lui. Non riesco a non provare simpatia per questo ragazzo costretto a vincere contro la fatica immane ed oscura, costretto ad essere un personaggio pubblico contro la sua timidezza, costretto ad una solitudine quotidiana ripagata ogni quattro anni da titoloni e osanna – ma solo se vincente. Hai fatto la cosa sbagliata, come atleta. Ma come uomo ne hai fatte varie giuste ed onorevoli, compreso il riprenderti la tua vita privata.

L’Italia – forse – sopravviverà anche senza la tua medaglia. Se destinata ad un fato avverso, di certo non sarebbe stato quel pezzo di metallo a salvarla. Tu d’ora in avanti viviti la vita normale che agognavi, Alex. Oggi, come ultimo saluto, ti voglio dedicare il mio ricordo di quando ci hai fatto emozionare quattro anni fa a Pechino. Ed un modesto, ma sentito, grazie.


Benvenuto nel club


Per le mie limitate capacità di resistenza televisiva, è umanamente impossibile trascorrere di giorno quasi quattro ore incollato davanti al teleschermo per vedere in diretta l’odissea di un gruppo di scodinzolanti atleti che percorrono cinquanta chilometri di marcia. Figuriamoci di notte, dall’una e mezza fin quasi alle sei.

Eppure ci tenevo a vederlo. Ma Morfeo era suadente e tentatore stanotte. Tra la partenza e l’arrivo ho dei vaghi ricordi di un dormiveglia pieno di visioni assortite di polpacci gonfi, di sederi dimenanti, di braccia arrancanti, di bottigliette d’acqua raccattata al volo per ingollarla o per aspergersi il corpo accalorato, di sudori veri o indotti da docce nebulizzate che tentavano di portare refrigerio a questo manipolo di folli camminatori estremi.

La marcia è questo. Esasperare il gesto quotidiano di una qualsiasi passeggiata, portandolo alla massima velocità possibile, senza mai raggiungere quella fatale fase aerea in cui entrambi i piedi, sia pur per una frazione di secondo, sono entrambi sollevati da terra. Come i trottatori che rompono il loro ordinato passo, scoppiando in un fragoroso galoppo, così il marciatore che tecnicamente corre anziché camminare viene prima richiamato e poi squalificato.

Un esercizio paradossale, se non altro per il fatto che va perpetuato, passo dopo passo, per la bellezza di cinquanta chilometri. Fate i vostri conti. Immaginate una località così distante dalla vostra, e vedetevi mentalmente raggiungerla, a piedi, ancheggiando impettiti, in meno di quattro ore. Follie.

La marcia ha sempre avuto una buona scuola in Italia. Oggi abbiamo l’ennesima conferma. Alex Schwazer parte in testa dal primo metro, si lascia dietro qualcosa come cinquantamila passi ed arriva primo. Ohh. Finalmente un oro nell’atletica leggera. Ho visto la partenza, di quelle che ti viene da pensare, ma dove vai (nemmeno dove corri, che non si può!), guarda che il traguardo è lontano, rispàrmiati, gli altri ti vengono a prendere. E invece aveva ragione lui. Tre ore e trentasette minuti dopo, eccolo di nuovo, solitario, nello stadio da cui era partito. Un ingresso da trionfatore, più di due minuti sul secondo classificato.

Ma non è la medaglia d’oro la cosa più importante oggi. Oggi vincono i sentimenti, i buoni sentimenti. Questo ragazzo di ventitré anni, che un mese fa ha perso il nonno, e che concorreva con una fascia nera sulla bretellina della canotta, è entrato in quello stadio di gloria e per prima cosa, piangendo, ha baciato la fascia sul suo petto. Poi, superato il traguardo che lo incoronava campione olimpico, si è chinato, si è messo le mani tra i capelli ed ha continuato, sommessamente, a piangere. Si avvertiva, si vedeva che quelle erano lacrime sgorganti da sentimenti misti. Gioia, incredulità, tensione finalmente scaricata, riscatto, rimpianto. Tutto insieme, in quel singhiozzare composto.

Nell’intervista a caldo, ancora grondante gocce di ginnico sudore, ha mostrato il volto umano di un giovane campione, esibendo poche ma sane, fondamentali certezze.

Ha tenuto a sottolineare che lui è pulito. E non è dichiarazione da poco – anche se, in un mondo di sport ideale, e non quello furbesco e truffaldino di oggi, dovrebbe essere la norma, non un fatto da mettere in risalto a distinguersi da altri che invece si dopano. Un giorno potrà arrivare decimo o ventesimo anziché primo, ma ci arriverà sempre solo con le sue forze. Perbacco. Ha difeso ostinatamente la propria privacy, non intendendo rivelare – nonostante l’insistenza dell’intervistatrice in cerca di un futile scoop pettegolo – la provenienza del braccialetto portafortuna ostentato alle telecamere poco prima dell’arrivo. È un messaggio pubblico ma strettamente privato, diretto solo a chi sa lui, e tale deve restare. Ha ricordato il nonno, scomparso di recente, che chissà come sarebbe stato orgoglioso del suo Alex campione, e ancora gli sono affiorate delle lacrime che scorrevano calde sul primo piano del suo viso sudato. Rallegrati, Alex. Il nonno ti vede e oggi festeggia con te. Ha voluto ricordare tutto il gran lavoro di preparazione fatto a Saluzzo con Sandro, e l’intimità del rapporto con il preparatore gli ha fatto dimenticare che non tutti gli italiani sanno che Sandro è Damilano, uno della famiglia dei fratelli marciatori protagonisti di imprese e successi di circa tre decenni fa. Ha detto, suscitando un’arguta simpatia, che il duro non sono stati i quindici giorni di preparazione a Pechino, saranno i prossimi quindici giorni di festeggiamenti a casa. E casa è un paesino minimo di trentuno abitanti, che fanno di Alex il campione olimpico proveniente dal borgo più lillipuziano del mondo.

Bellissima infine una sua dichiarazione, fonte di insegnamento per tanti supposti fuoriclasse. Stimolato dalla giornalista a confrontare la vittoria di oggi e la mala sconfitta di un anno fa ai mondiali di Osaka, ha risposto, con la pulizia e la schiettezza di un ragazzo semplice, da allora sono cresciuto molto. Del resto, non è che dalle vittorie si impari molto. Che cosa sensazionale. In un mondo di campioni boriosi, saccenti, spocchiosi, che hanno visto tutto e vinto tutto e sanno tutto, ecco un ragazzo che istintivamente, in presa diretta, ci dice che è dalle sconfitte che si impara a diventare più forti, più umili, più uomini. Bravo Alex. Benvenuto nell’esclusivo, privilegiato, semivuoto club dei campioni veri. Nonché degli uomini veri.


Prima pubblicazione : 22 agosto 2008

giovedì 21 giugno 2012

Uomo avvisato...

Chi mi legge da qualche tempo ormai conoscerà la mia fissazione per la lotta senza quartiere alla scriteriata abitudine di guidare ubriachi. Ho avuto la fortuna di non essere mai stato coinvolto in qualche incidente causato da qualcuno brillo al volante. Eppure – o forse proprio per questo, la legge dei grandi numeri – continuo a combattere la mia personale battaglia contro questo vizio, malefico perché potenzialmente letale, anche se quasi tutti quelli che lo praticano pensano sia normale, cosa vuoi che sia, è solo un goccetto in più, sono lucidissimo. Con le efficaci parole degli australiani: maledetto idiota.

Oggi scopro, tra i risvolti virtuali di un quotidiano locale, di quelli a malapena seguiti dentro la provincia Granda, una notizia curiosa ma interessante (naturalmente queste cose non le sa nessuno e poi ci si meraviglia se uno si becca una multa). Dal primo luglio, turisti e gitanti domenicali che andate in Francia, occhio. A bordo dovete avere un etilometro.


Davvero. Il Male è veramente tornato in edicola, per cui non vale nemmeno più la vecchia battuta, ma che, è uscito il Male? Ragazzi, non si scherza. Chi valica il confine sappia che senza l’apparecchietto monouso ( dal costo irrisorio, certo meno di una bottiglia di vino al supermercato, mica al ristorante) per misurare il tasso alcolico nel sangue, scatta la multa. Per me perfino troppo modesta: soli undici euro.

Perché il ragionamento è questo: invece di dotare le forze dell’ordine di costosi apparecchi (che alla fine si pagano con le tasse, anche di chi né beve né guida), ogni automobilista deve avere il suo. In caso di dubbio, quando ti fermano i gendarmi, apri la confezione ed in pochi secondi puoi andare. Oppure lasciar la macchina lì, opportunamente alleggerito di un gruzzolo di euro per guida in stato di ebbrezza.

Allora cosa conviene fare all’ubriacone di turno? Estrarre l’aggeggio che lo denuncerà, o piuttosto – per la modica mercede di 11 euri – fare lo gnorri e dire che non lo sapeva, che non lo trova, che guarda caso la farmacia era sprovvista, insomma tutta la serie di balle che gli italiani sono bravissimi ad improvvisare pur di evitare una sanzione? Ecco perché dico che la multa prevista è ridicola. Cari cugini transalpini: l’iniziativa è lodevole, ma l’ammenda è da alzare, e subito. Se no, l’avete bell’è trovato l’italiano che se lo porta appresso – specie se è in vena di gozzoviglie etiliche...

Qualcuno ora si chiederà: ma tu che parli tanto e ti inalberi per queste faccende, ce l’hai l’etilometro in maccchina? No. Non ancora, perlomeno. Ma da domani ce lo metto, anche se non devo andare in Francia. Perché a casa ne ho due, ottenuti di grazia da un simpatico poliziotto che una domenica di fiere e eventi in piazza, promuoveva nello stand della Polizia Stradale il guidare responsabilmente. Erogando, a quei rari nantes in gurgite vasto che se interessavano, un campione impacchettato. Io ne ho chiesti – e ricevuti – due, perché almeno uno dovevo aprirlo, era troppa la curiosità di vedere come era fatto. Ma l’altro è ancora lì, intatto nella sua confezione, e pronto al salvifico uso.

Signori: si buttano tanti soldi in cazzate. Spendiamo due spiccioli per garantirci la sicurezza in viaggio. Bisognerebbe che la gente non si vergognasse di usarlo e soprattutto di chiedere agli altri di farlo, quando si è passeggeri. Ma prima bisognerebbe averlo con sé.

Ci sono fior di campagne pubblicitarie che promuovono l’uso dei preservativi, contro la diffusione dell’AIDS. Ecco un nuovo strumento che altrettanto andrebbe reclamizzato e non dovrebbe mancare nella borsa, nella tasca, nella valigetta di chiunque. L’etilometro monouso. Salvate una vita. O molte. Impedite all’ennesimo ubriaco al volante di trasformarsi in un assassino. Basta una soffiata. E non vi accusano nemmeno di fare la spia.



sabato 14 aprile 2012

Niente sesso, siamo cinesi

Che cosa succedeva (almeno, prima dell’avvento di certi segnali d’avviso) nei cessi della metropolitana di Shanghai? Perdonate l’apparente volgarità del lemma. Avrei potuto usare termini più raffinati ed eufemistici. Ma questi, per igiene, pulizia generale, basilarità d’istrumentazione, forza di un tanfo che ne consente l’individuazione col solo olfatto a una distanza di almeno venti metri, e non ultimo dimensione, sono proprio dei cessi.

Spinto da improcrastinabili necessità sono stato costretto ad usarne uno. E non poca è stata la sorpresa quando mi sono trovato davanti un cartello che indicava i comportamenti vietati in tali esclusivi locali. A costo di rischiare equivoci e sguardi imbarazzanti da parte di potenziali co-fruitori della struttura, ho sfoderato la macchinetta fotografica ed ho scattato. Un po’ di fretta, per la verità, e questo spiega la qualità non impeccabile dell’immagine, peraltro inequivocabile.

Vi garantisco che non c’è alcun lavoro di Photoshop da parte mia. Né l’intervento di qualche improbabile burlone cinese armato di pennarello. Quei segnali di divieto sono stati stampati proprio così dall’autorità preposta. Serve che aggiunga altro?

venerdì 16 marzo 2012

Fantasia al potere

Oggi mi sono svegliato in vena di filosofeggiare. Che cosa spinge un produttore cinese a creare una imitazione da quattro soldi di un articolo di fama? L’ovvio desiderio di profitto, sfruttando la pavlovica tendenza della gente di restare fedeli all’uso di mercanzie, della cui immagine la pubblicità provvede a bombardarci quotidianamente il cervello, finchè non siamo – a livello di subcosciente – convinti della necessità di possedere quel bene, quale viatico alla felicità nella nostra vita.

Perfino un processo non proprio legale ha le sue regole non scritte. La scelta del marchio, per esempio. Anche i meno scafati trafficoni sanno che falsificare pedestremente un prodotto può metterli nei guai. Bisogna fare qualcosa il più possibile assomigliante, ma che ancora differisca un po’. Tanto da poter dire, in caso di necessità, no, non è mica quello. È un’altra cosa. Ma abbastanza simile da ingannare l’occhio inesperto del consumatore. Tanto la maggioranza dei fruitori, cinesi, manco sa leggerlo l’inglese. Va a occhio, un po’ come noi europei con quei simpatici ideogrammi orientali, carini da vedere ma assolutamente inintelligibili.

Così si creano capolavori come questo. Avete presente la catena francese di profumerie e prodotti di bellezza vari? Guardate un po’ cosa sono riusciti a tirare fuori degli artisti dello scimmiottamento. E nel pieno centro a Shanghai, mica in qualche sperduto borgo di campagna!

domenica 11 marzo 2012

Drogati da lavoro

L’autista che di prima mattina ci porta dalla parte opposta dell’isola di Xiamen guida peggio della media dei taxisti cinesi. Scatti repentini. Spostamenti di corsia all’ultimo minuto. Appeso al volante in una postura del tutto innaturale. Ci sono momenti che sembra quasi cadere sul parabrezza.

Visto dal sedile posteriore non è un bello spettacolo. Mi viene in mente una battuta, per cercare di sdrammatizzare l’impalpabile tensione tra i tre passeggeri – tutti italiani – del mezzo disordinato. Ma questo ha imparato a guidare sugli autoscontri? No, mi dice il collega esperto di Cina seduto accanto al guidatore. È drogato. Ah, bene, fa piacere essere in balia di un taxista drogato. Non posso dire il nome cinese, continua, se no capisce che parliamo di lui, ma si è fatto di betel. Guidano tutta la notte, e la mattina, per riuscire a continuare il turno, masticano la noce del betel. Così rimangono svegli, ma in una specie di trance drogata, che causa improvvisi risvegli di coscienza e relative reazioni al volante. Il turno medio è dodici ore, a Shanghai c’è gente che per arrivare a fine mese lavora senza mollare il volante per sedici ore. Due terzi di giornata nel caos del traffico shanghainese. Drogati da lavoro.

Tutto provato sulla nostra pelle in quei pochi chilometri che però sembrano molti di più. E poi qualcuno mi chiede ogni tanto, con tutti gli aerei che prendi, ma non hai paura di volare?

Noce di betel. Mi ricorda un vecchissimo racconto mai pubblicato, Binlang xishi, scritto a fine secolo scorso durante una visita a Taiwan.

Gli automobilisti si fermano per strada, per comprare dalle Xishi, avvenenti signorine succintamente vestite, il Binglan, l’eccitante betel. Come per i sudamericani la foglia di coca. Binglan, il chewing gum dei taiwanesi.


Binlang Xishi (檳榔西施)

Se qualche ignaro forestiero si trovasse per la prima volta nel traffico di Taipei, potrebbe sorprendersi o preoccuparsi (o magari stare male, se particolarmente sensibile), nel vedere un guidatore di camion che ha un improvviso sbocco di sangue mentre è alla guida. Niente paura. Si tratta solo del chewing-gum taiwanese. Molto diverso dal nostro concetto. È un piccolo involucro fatto con una foglia ripiegata, nel cui interno c’è una sostanza rossa, a base di calcio, che si mastica e poi si sputa (per la strada, dal finestrino), lasciando tracce indelebili ed oscene, che imbrattano il suolo – e decorano a strisce purpuree le fiancate dei camion. Al punto che un recente regolamento prevede che le venditrici del suddetto, insieme con la dose giornaliera, forniscano anche dei bicchierini di plastica per gli espettorati dei fruitori. E dose non è un termine ambiguo. Anzi. C’è gente qui che arriva a spendere anche duecentomila lire al giorno, per mantenersi il vizio del chewing-gum. Dipendenti. Peggio del fumo, peggio di una droga.

Si trova dappertutto, e chi lo vende sono fanciulle in vetrina, parcheggiate in gabbiotti ai bordi delle strade, presenti ovunque in quantità imponente. Filari di lucine colorate, quelle degli alberi di Natale, lampeggianti rossi rotanti, presi a prestito da qualche trasporto eccezionale, ed altri ingenui richiami visivi servono ad attirare i clienti. Ma il richiamo maggiore sono le gambe delle fanciulle, ostentate attraverso la vetrata che si affaccia sulla strada. Gonne microscopiche, gambe accavallate. Facile fermarsi. E non c’è neppure bisogno di scendere dalla macchina. Sollecite, le ragazze escono dal gabbiotto, esibiscono le loro scoperte grazie e forniscono il necessario. Chewing-gum, sigarette o altri generi di conforto, che talora sconfinano nella profferta di una veloce prestazione amorosa, da concordarsi sul momento, da consumarsi nel retro – attrezzato all’uopo – del box. Non c’è, probabilmente, un solo posto al mondo privo di prostitute. Mai viste, però, camuffate da venditrici di chewing-gum.


Prima redazione di Binlang Xishi : febbraio 1999

giovedì 2 febbraio 2012

Spilling the beans - 2a parte

Prosegue da ieri.


Ma salendo di un piano si scopre l’aspetto ricreativo di tale luogo. Un bar, nella penombra di luci aranciate, accoglie alcuni avventori seduti per terra a gambe incrociate. Vestiti solo di una vestaglietta verde pisello, che si rivelerà poi la divisa sociale del club, sembrano comodissimi e chiacchierano amabilmente fumando sigarette aromatiche davanti a bottiglie semivuote di sakè. La visita prosegue. C’è la sauna, altro svago prediletto dai giapponesi. Attraverso una porta a vetri vedo transitare un paio di avventori in costume adamitico. Non si fanno alcun problema per l’inopinata comparsa di questo alieno, per giunta vestito come un esploratore artico, e salutano con un consueto e formale inchino che coinvolge anche parti anatomiche che uno non si immaginava si potessero inchinare, così, a comando.

Ma non è finita. C’è una comunitaria sala tivu (deserta) le cui pareti sono tappezzate da una sterminata collezione di DVD con film il cui genere mi è del tutto sconosciuto. Qualche sospetto tuttavia mi è venuto quando mi sono state mostrate parecchie microscopiche salette, opportunamente chiudibili a chiave dal di dentro, ognuna con un computer e connessione – gratuita, come sottolinea con enfasi il giovane anfitrione – ad internet. Non ho voluto far domande, ci sono cose che è meglio rimangano ignote.

C’è chi ai presumibili piaceri solitari preferisce ancora la tradizionale corrispondenza d’amorosi sensi in carne e ossa. Ed ecco l’ultima – e più provocante – parte del percorso, tenuta ad arte in fondo, come un dessert che conclude una cena dal menù succulento. Le sale massaggio, dove solerti fanciulle sono pronte ad alleviare le stanche membra (sì, ho usato il femminile, perché?) di uomini bisognosi di rilassarsi dopo una dura giornata passata in ufficio. Tutto nella legalità, per carità, massaggi terapeutici. Ma certo. Guarda caso, quelli più cari sono quelli tailandesi - per i non iniziati, una delle caratteristiche è che le massaggiatrici invece di usare le mani usano i piedi, camminando sulla schiena del cliente. Talvolta invece dei piedi usano direttamente il loro corpo, opportunamente oleato, per massaggiare. Solitamente i problemi insorgono (absit iniuria verbo) quando il cliente, finito il lato schiena, si gira dall’altra parte.

Facciamo due conti? La capsula costa da trenta a quaranta euro (e non mi è chiara la distinzione, visto che sono tutte uguali. Forse dipende dalla vicinanza all’origine dell’effluvio di gorgonzola). La sauna, altri quindici o venti. Massaggio, dipende dalla durata e dallo stile. Si parte da sessanta e si superano i cento (senza contare le mance, praticamente obbligatorie). E non abbiamo parlato del bar, dove una bottiglia di sakè di sicuro non te la regalano. Poi c’è il solito, immancabile, odioso acronimo: trattamento VIP. Centosessanta euri forse per essere riveriti più del consueto – e magari è compresa una soffiata sul numero di telefono di quella massaggiatrice così caruccia...

Ovviamente, proibito fotografare qualsiasi cosa. Quindi non mi resta che accontentarmi di un paio di scatti fuori dal pregevole stabilimento del benessere maschile. Uno, in un inglese approssimativo, comunica indirettamente che questo è un luogo dalle buone frequentazioni, in cui entrare sereni: infatti nella cultura giapponese c’è una forte identificazione tra il tatuaggio e l’appartenenza alla yakuza, la mafia locale. L’altro, il manifesto pubblicitario, mostra l’aspetto più ufficiale del capsule hotel. Quello che manca, ve l’ho raccontato io. Sayonara, baby.


mercoledì 1 febbraio 2012

Spilling the beans

In inglese, diffondere un segreto, rivelare ciò che doveva rimanere nascosto.

Ieri sera, colto da un attacco acuto di curiosità piccionesca, sono andato a ficcare il naso in un capsule hotel in una grande città del sud del Giappone.

Avevo sempre immaginato che fosse l’ultima spiaggia di salariati disperati, il rifugio minimo per chi, perso l’ultimo metrò notturno per tornare a casa e non disponendo delle ingenti somme necessarie ad affrontare un’ora di taxi in Giappone, ricorreva a questi famigerati loculi in cui smaltire – si spera senza inopportune e accidentali fuoruscite di fluidi precedentemente ingeriti – le sbornie necessarie per conquistare galloni nella lenta scalata alla gerarchia aziendale. Me li immaginavo come luoghi dove torme di dannati danteschi vengono condotti al proprio oblò da un arcigno portiere di notte, poco propenso all’indulgenza verso questi ubriaconi tiratardi, manco capaci di guardare l’orologio a tempo per tornarsene dalla famigliola, invece di doversi accontentare di questi succedanei di alberghi, il grado più basso della catena alimentare del riposo del sarariman.

Niente di più erroneo e di lontano dalla realtà. Mi sbagliavo grossolanamente. Altro che ubriaconi odorosi di alcool e di profumo femminile dozzinale. Altro che povere anime ondeggianti nei corridoi in preda ai fumi etilici. Altro che portieri arcigni e schizzi di vomito sugli oblò.

Mi si è aperto un universo di piaceri sibaritici quando, tolte opportunamente le scarpe come è buon costume fare in qualsiasi casa giapponese, sono stato guidato (che gentili, ad accontentare la curiosità di un gaijin di passaggio!) da un cortesissimo e quasi efebico imberbe cicerone attraverso due piani di recondite voluttà. Si scende, non si sale. Tutto ben isolato dal mondo esterno, nemmeno una finestra per sbaglio. Atmosfere ovattate, corridoi moquettati, profumi discreti di oriente (con un’eccezione).

Le famose capsule ci sono, è vero. Vuote, vista l’ora ancora presta. Sono nel piano più sotterraneo, a cui si accede tramite un ascensore dalle dimensioni claustrofobiche. Un persistente e poco invitante sentore di calzini non proprio di bucato consiglia di limitare il tempo della visita al minimo necessario. Una teoria di loculi in termoformato plastico, tutti identici, con una porta-finestra che mostra lo spartano allestimento. Niente materasso, giusto un finissimo tatami. Un micro-cuscino e una copertina striminzita, ripiegata con cura. Una tivù incastrata nel soffitto. Un ripianetto sufficiente per quattro oggettini personali e il telecomando. Ecco qui una capsula.


Continua, domani, con la parte più... indiscreta.

lunedì 2 gennaio 2012

… e mostri di oggi (2)

Non c’è bisogno di andare in giro per il mondo (anche se aiuta) per trovarsi con degli interrogativi irrisolti. Quante volte vi è capitato di incrociare qualcuno per strada, magari fissarlo un attimo di troppo, fino a suscitare la sua risentita attenzione, mentre vi state chiedendo: ma chi mi ricorda questo? Lo conosco o assomiglia solo a qualcuno di mia conoscenza?

Mi è successo proprio di recente, sotto i portici di Cuneo, per Santo Stefano, mentre annusavo l’aria frizzante prediletta da Giorgio Bocca. Per un po’ ho camminato accanto ad una signora minuta, di carnagione appena bruna, forse sudamericana, che mi ha attivato il processo mentale di identificazione: ma chi è?

Solo dopo qualche istante ho deciso che non la conoscevo. Apparteneva a quella tormentata specie di esseri umani che, ad un certo punto della loro vita, forse scontenti di se stessi, certo con qualche condizione più da lettino dello strizza che da bisturi, decidono di iniziare un irreversibile (e talora ossessivo) processo di chirurgia estetica facciale.

Con le parole del grande Michele Serra, quando narrava degli americani e della loro mania per la chirurgia estetica: ci sono dei vecchi che sono bellissimi (sottinteso: al naturale). E questi vecchi sono belli perché portano scritto in faccia tutto quello che hanno passato nella loro vita. Un viso come un atlante da leggere.

L’incapacità di accettare il trascorrere del tempo porta tanta, troppa gente a voler assomigliare ad un se stesso che fatalmente non c’è più. Quanti Dorian Grey ci sono al mondo? A me incontrare un vecchio con il volto rugoso dà sensazioni di conoscenza, di esperienza, di vita vissuta appieno, mentre mi inquieta sommamente imbattermi in donne che spianano brutalmente ogni asperità, ogni segno, ogni riga del viso a colpi di botox o con iniezioni di silicone. Droga per i fissati dell’immagine, altrettanto venefica e pericolosa di quelle che si iniettano in vena e regalano paradisi artificiali, pronti a svanire al termine del viaggio, lasciando il posto a desolanti realtà da rinnegare con la prossima dose.

Mi chiedo, senza trovar risposte: ma si piacciono queste persone? Davvero si ritengono migliori, più belle, con quelle facce omologamente e innaturalmente gonfiate, con quegli occhi strizzati e quegli zigomi prominenti? E che dire di quei labbroni che vorrebbero esser sensuali ed invece – mio parere, per carità – cadono spesso nel ridicolo? C’è mai qualcuno, nei circoli frequentati da questi adepti del bisturi, che ha la franchezza, l’ardire, l’onestà di dirgli in faccia quello che pensa, invece di cinguettar loro ipocritamente, ma come stai bene, sembri vent’anni più giovane, ehhh, proprio soldi ben spesi...

Preferisco la mia bruttezza, originale perché unica, le rughe, le imperfezioni di una pelle che ha affrontato e resistito a ormai più di cinque decenni, alla omogenea bellezza artificiale, anonima perché ripetuta all’infinito, sempre con gli stessi orripilanti risultati estetici. I McDonald’s delle espressioni: dovunque tu sia, sono sempre uguali a se stesse.

Signore – e signori – specchiodipendenti: imparate ad accettarvi. Perché se no siete destinati al club degli omologhi, dalla stessa identica, finta, plastificata faccia da senza età. Per non parlare del cervello.


Prossime puntate della serie (ma non so quando usciranno!):
- Il riporto.
- Gli eterni abbronzati.


giovedì 6 ottobre 2011

Dacci oggi la nostra radiazione quotidiana

La fissazione giapponese per la precisione tocca livelli tragicomici nella ossessionante presenza quotidiana, a pagina tre del giornale, della mappa circostanziata del livello di radiazioni rilevate in un raggio di quattrocento chilometri circa intorno alla centrale di Fukushima. Come se fosse:

- ben chiaro quale è il livello accettabile di radiazioni a cui un corpo umano può sottoporsi senza beccarsi leucemie e cancheri assortiti.
- evitabile, per i milioni di abitanti nella zona più popolosa del Giappone, di farsi bombardare ogni giorno da plutonï e cesï e stronzï (l’elemento chimico, si intende) che svolazzano liberamente nell’atmosfera.
- confortante il sapere che le radiazioni oggi sono scese di qualche millesimo di microsievert all’ora rispetto a tre giorni fa, nella località dove mi trovo.

Siamo a 0,039 invece che 0,040 μSv/h. Ben un miliardesimo di sievert in meno. Ahhh. Mi sento già meglio.

mercoledì 14 settembre 2011

Cronache marziane - 2a parte

Il racconto prosegue da ieri. La prima parte la trovate qui.

Riflessioni sparse, affiorate durante quelle lunghe ore in un luogo che a malapena evocava la sofferenza. Stimolanti visioni, talvolta addirittura entusiasmanti, veri tesori per l’occhio del viaggiatore curioso ed affamato di conoscenza.

Già al momento dell’arrivo, in auto, la prima sorpresa. Cartello: block parking. Simbolo di fiducia quasi illimitata. Il lotto è pieno? Non importa. Parcheggi la macchina in seconda fila, con le chiavi nel cruscotto ed il finestrino abbassato. Quando qualcuno deve andarsene ma è bloccato dai nuovi arrivati, degli inservienti spostano la vettura esterna e poi la posteggiano nel vano lasciato libero. E avanti così. Tutto basato sulla fiducia che nessuno tocchi nulla. Da noi? Impensabile.

SGH. Potrebbe essere un centro ricreativo. Giardinetti con aiuole colorite di fiori e allegri cartelli a forma di cuore che ringraziano le infermiere per la loro dedizione. Panchine dove i visitatori leggono il giornale, chiacchierano, riposano in attesa dell’ora di passaggio. Perfino delle variopinte bancarelle nei viali, zeppe di mercanzia varia, borse, orologi, magliette, sciarpe, fermagli per capelli, pelouches.

Una corte delle cibarie (lo so, è un neologismo orrendo, ma come altro tradurre l’inglese food court, simbolo di ristorazione ad ampio spettro del Sud Est Asiatico?) dove le varie etnie trovano i propri cibi per far colazione, pranzo, cena, senza un’apparente soluzione di continuità. Sempre piena a tutte le ore, l’ansia e il dolore vinte dall’esigenza primordiale di rifocillarsi. Lunghe e rispettose code di persone si dipanano tra i tavoli, ad indicare i chioschi che offrono le migliori refezioni. Nasi lemak malesi, jiao zi cinesi, curry di pollo indiani. Niente alcol, ma solo grandi spremute di frutta fresca. Tutto genuino e saporito. E per pochi dollari, idoneo alle tasche di tutti.

E i malati? Anche loro trattati come ospiti di un albergo. Di rango. Dopo il pranzo arriva una cordiale infermiera dotata di una rivista. Domanda, dolce ed espansiva, cosa vogliamo mangiare domani? E illustra ai degenti le pagine, piene di foto a colori delle pietanze disponibili tutta la settimana. C’è ovviamente scelta. Cinque menù diversi: cucina occidentale; cinese; halal, per i malesi mussulmani; indiana, vegetariana o con carne. Robe che vien l’acquolina in bocca solo a guardare le figure.

Ascolta i bisogni dei nostri pazienti, ammonisce da un muro un gran manifesto. Scegli parole che fanno bene al malato. Sorridi, usa gli occhi per comunicare partecipazione. Usa il tono giusto e parla con sincerità. Presta attenzione a ciò che ti viene detto e comprendi le preoccupazioni. Ricordare tutto questo evidentemente fa bene, perché dottori e infermiere ogni giorno sono davvero così, come i ritratti di questo poster.

Chi è Rosie Kwan? La superstar. Non di qualche vacuo programma televisivo pieno di beceri sfaccendati. È la finalista, vincitrice del concorso annuale per il miglior dipendente dell’ospedale. Scelta tra più di mille persone, tutte premiate per l’eccellente stato di servizio. Di quali straordinarie sollecitudini si sarà resa protagonista, considerando l’inarrivabile livello di efficienza unita alla premura che caratterizza tutto il personale con cui sono venuto in contatto? Fatto sta che si è meritata una gigantografia all’ingresso di uno dei corridoi al pian terreno. È bello sapere che esisti, Rosie.

Mi ha commosso tutta questa inusitata ostensione di impegno, di dedizione, di scrupolosità, di voglia di dare (agli altri, ai bisognosi) prima che ricevere (lo stipendio, comunque ben più meritato rispetto ai nostri scafati professionisti dell’assenteismo retribuito).

Rieccomi a casa: apro un qualsiasi giornale italico, leggo l’ennesima vergogna. Il morto di giornata da malasanità. E m’intristisco, riflettendo: il terzo mondo siamo noi.

Prima pubblicazione : 27 settembre 2009

martedì 13 settembre 2011

Cronache marziane - 1a parte

Malasanità. Episodi scandalosi. Gente che muore perché la sala operatoria era chiusa. O perché sballottata da un ospedale a un altro alla ricerca di un letto o di un dottore che ci capisca qualcosa. Gente che resta sotto i ferri, togliendosi tonsille o poco più. O che se ne va per criminali errori, scambi di sacche emostatiche, iniezioni sbagliate, diagnosi superficiali o grossolanamente fallaci. Arnesi e garze dimenticati nelle pance come se i pazienti fossero dei panni lenci da imbottire di cotone.

Torno in Italia e ritrovo il solito stillicidio di eventi vergognosi. E ripenso all’abissale differenza tra i troppi nosocomi nostrani trasformati in sconce topaie dove curarsi è diventata una lotteria, ed un luogo – che sommo contrasto! – da indicare ad universale esempio di dedizione al malato.

SGH. Entro in questo ospedale per visitare una persona d’età, lì per un’operazione complessa e delicata. La prima cosa che mi colpisce è l’assoluta mancanza di quel lezzo tipico di clinica, tanfo di disinfettante aggressivo misto agli afrori di umanità varia, sofferente o in visita. Eppure ogni superficie riluce di pulizia estrema, ogni pavimento è lindo e privo del benchè minimo detrito, ogni parete sembra imbiancata di fresco ieri l’altro. Macchinari corruschi ed efficienti. Ascensori politi e solleciti. È un policlinico o la NASA?

Poi scopro che tutti i visitatori si devono registrare, lasciando i propri dati a delle volonterose signorine che lavorano senza sosta al computer. Etichetta sulla maglia, valida solo per il reparto del malato che si visita. Controllo a portale della febbre. Mascherina, fornita gratuitamente ad ogni ingresso. Ammissione solo negli orari di passo, che peraltro sono ampi, due ore sul mezzogiorno e addirittura tre e mezzo il pomeriggio.

Salgo ai piani. Ci sono infermiere di una gentilezza disarmante. Dotate di un sorriso che intuisci dagli occhi, visto che la mascherina è obbligatoria non solo per i visitatori ma anche per lo staff. Si muovono e lavorano con serenità, spostando senza sforzo malati appena operati, adagiati su barelle motorizzate ma silenziosissime, che scorrono nei corridoi senza un cigolio, senza un’incertezza. Entrano ed escono dalla zona di rianimazione. Colgono la trepidazione di parenti in attesa di notizie, ansiosi di vedere un proprio caro seppur solo al di là di un vetro. Il lento respirare incosciente del coma indotto è già motivo di sollievo. Rispetto, silenzio, garbo.

I dottori visitano. Non tronfi e importanziosi, circondati da codazzi di giovani tirapiedi, non le divinità la cui epifanizzazione in corsia provoca perentori richiami da parte di infermiere sbirre: tutti fuori, presto, che c’è il Dottore. Qui il chirurgo visita alla presenza dei parenti, sorride confortante e incoraggia la malata che già dà segni di ripresa. La privacy è rispettata, una tenda gira tondo tondo attorno al letto e nasconde il sollecito, efficiente consulto. Il medico si sposta al paziente successivo e a quello dopo ancora. Tre ospiti, tre idiomi differenti. Il dottore li padroneggia tutti. Un ultimo sorriso e se ne va, altra stanza, altre anime da consolare e motivare.

Ovunque ci sono moniti all’igiene. Mani pulite, vera ossessione. Ogni dieci metri c’è un flaconcino che dispensa alcool, per disinfettarsele. Nei bagni, lindi e luccicanti come specchiere di cristallo, risuona discreta della musica classica. Operistica. Puccini, il mio favorito. E non è una clinica privatissima, per milionari che possono pagare rette da grandhotel. È il Singapore General Hospital.

Una città, uno stato si giudicano anche dalla cura che dedicano ai propri cittadini quando sono malati. Se questo è un parametro sufficiente, Singapore è tra i luoghi più civili al mondo. Ho visitato il SGH per dieci giorni di fila. E riuscivo sempre a meravigliarmi per qualcosa di nuovo, di inaspettato, di sorprendente.

Se vi è piaciuta la prima parte del racconto, tornate a trovarmi domani, per la seconda parte delle Cronache marziane...

Prima pubblicazione : 26 settembre 2009