Malasanità. Episodi scandalosi. Gente che muore perché la sala operatoria era chiusa. O perché sballottata da un ospedale a un altro alla ricerca di un letto o di un dottore che ci capisca qualcosa. Gente che resta sotto i ferri, togliendosi tonsille o poco più. O che se ne va per criminali errori, scambi di sacche emostatiche, iniezioni sbagliate, diagnosi superficiali o grossolanamente fallaci. Arnesi e garze dimenticati nelle pance come se i pazienti fossero dei panni lenci da imbottire di cotone.
Torno in Italia e ritrovo il solito stillicidio di eventi vergognosi. E ripenso all’abissale differenza tra i troppi nosocomi nostrani trasformati in sconce topaie dove curarsi è diventata una lotteria, ed un luogo – che sommo contrasto! – da indicare ad universale esempio di dedizione al malato.
SGH. Entro in questo ospedale per visitare una persona d’età, lì per un’operazione complessa e delicata. La prima cosa che mi colpisce è l’assoluta mancanza di quel lezzo tipico di clinica, tanfo di disinfettante aggressivo misto agli afrori di umanità varia, sofferente o in visita. Eppure ogni superficie riluce di pulizia estrema, ogni pavimento è lindo e privo del benchè minimo detrito, ogni parete sembra imbiancata di fresco ieri l’altro. Macchinari corruschi ed efficienti. Ascensori politi e solleciti. È un policlinico o la NASA?
Poi scopro che tutti i visitatori si devono registrare, lasciando i propri dati a delle volonterose signorine che lavorano senza sosta al computer. Etichetta sulla maglia, valida solo per il reparto del malato che si visita. Controllo a portale della febbre. Mascherina, fornita gratuitamente ad ogni ingresso. Ammissione solo negli orari di passo, che peraltro sono ampi, due ore sul mezzogiorno e addirittura tre e mezzo il pomeriggio.
Salgo ai piani. Ci sono infermiere di una gentilezza disarmante. Dotate di un sorriso che intuisci dagli occhi, visto che la mascherina è obbligatoria non solo per i visitatori ma anche per lo staff. Si muovono e lavorano con serenità, spostando senza sforzo malati appena operati, adagiati su barelle motorizzate ma silenziosissime, che scorrono nei corridoi senza un cigolio, senza un’incertezza. Entrano ed escono dalla zona di rianimazione. Colgono la trepidazione di parenti in attesa di notizie, ansiosi di vedere un proprio caro seppur solo al di là di un vetro. Il lento respirare incosciente del coma indotto è già motivo di sollievo. Rispetto, silenzio, garbo.
I dottori visitano. Non tronfi e importanziosi, circondati da codazzi di giovani tirapiedi, non le divinità la cui epifanizzazione in corsia provoca perentori richiami da parte di infermiere sbirre: tutti fuori, presto, che c’è il Dottore. Qui il chirurgo visita alla presenza dei parenti, sorride confortante e incoraggia la malata che già dà segni di ripresa. La privacy è rispettata, una tenda gira tondo tondo attorno al letto e nasconde il sollecito, efficiente consulto. Il medico si sposta al paziente successivo e a quello dopo ancora. Tre ospiti, tre idiomi differenti. Il dottore li padroneggia tutti. Un ultimo sorriso e se ne va, altra stanza, altre anime da consolare e motivare.
Ovunque ci sono moniti all’igiene. Mani pulite, vera ossessione. Ogni dieci metri c’è un flaconcino che dispensa alcool, per disinfettarsele. Nei bagni, lindi e luccicanti come specchiere di cristallo, risuona discreta della musica classica. Operistica. Puccini, il mio favorito. E non è una clinica privatissima, per milionari che possono pagare rette da grandhotel. È il Singapore General Hospital.
Una città, uno stato si giudicano anche dalla cura che dedicano ai propri cittadini quando sono malati. Se questo è un parametro sufficiente, Singapore è tra i luoghi più civili al mondo. Ho visitato il SGH per dieci giorni di fila. E riuscivo sempre a meravigliarmi per qualcosa di nuovo, di inaspettato, di sorprendente.
Se vi è piaciuta la prima parte del racconto, tornate a trovarmi domani, per la seconda parte delle Cronache marziane...
Prima pubblicazione : 26 settembre 2009
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