
Gli dei sono permalosi. Una splendida citazione che amo e che rubo, chiedendogli scusa, ad Alessandro Baricco, che parecchi anni fa ha raccontato, fortunato lui ad esserci stato, l’impresa in terra di Francia degli All Blacks di quando imperava Jonah Lomu.
Tanto mi lascia indifferente il calcio, con i suoi sordidi stratosferici interessi, con i suoi striminziti punteggi, con le sue pastette e le sue manfrine da tuffatori in area, con i suoi pareggi a reti inviolate, con le simulate violenze in campo e quelle autentiche sugli spalti, quanto, per sommo contrasto, mi accende, mi entusiasma, mi scalda il cuore una partita di rugby. E massimamente se a giocarla sono dei campioni.
Schierato come tutti i tifosi, illogico come tutti gli appassionati, ho sempre nutrito un’ammirata devozione nei confronti di quell’ammasso di travolgente potenza che sono gli All Blacks.
Saranno quei visi da antichi guerrieri Maori, bellissimi ed orgogliosi, il coraggio tatuato sulla faccia. Sarà l’Haka, Ka mate, ka mate, ka ora, ka ora. È la morte, è la vita. Danza di guerra per presentarsi, per incutere soggezione e rispetto negli avversari. Sarà quel minaccioso, lugubre completo corvino con il quale scendono nell’arena dell’ardimento, a macinare sudati metri e lombi degli oppositori e zolle di terra grosse come badili. Sarà quella fama planetaria che li accompagna ovunque, mista ad un non altrettanto stellare palmares nelle competizioni che contano davvero.
Ma quando vedo quei quindici fenomeni arrembare verso i due pali che sono il desiderio di ogni rugbista, vengo rapito e nulla è più importante fino alla fine del match. Non ho mai avuto la fortuna di assistere dal vivo al derby per antonomasia. Ero sempre lì nel weekend sbagliato, oppure nella città sbagliata, quando giocavano Australia e Nuova Zelanda. Ho rischiato l’incidente diplomatico, dichiarando la mia passione per i Kiwi ad amici australiani. Certe relazioni hanno vacillato. Sono stato rimbrottato da un doganiere, all’arrivo a Brisbane da Auckland, che mi ha guardato storto e mi ha detto wrong hat!, ammiccando per nulla divertito al mio cappellino nero con la felce degli All Blacks, inopportuna provocazione ad un poliziotto presunto fan dei Wallabies.
Anche questa volta mi sono accontentato di vederli in televisione, con un commentatore australiano smaccatamente di parte, che non mi ha tolto nulla dal piacere dello spettacolo.
Tre Nazioni. Si gioca ad Auckland, All Blacks contro Wallabies. La furia nera in casa è travolgente. Combattono, mordono ogni pallone. Dopo i primi quaranta minuti di mischie furibonde, di arieti che si incornano per conquistare un metro, di scarti da ballerino eseguiti da montagne di muscoli, di spazi sanguinosamente guadagnati sfondando muraglie umane che ti si avvinghiano addosso come piovre, gli All Blacks hanno saldamente in pugno la partita, 21 a 10.
Ma è nel secondo tempo che si vedono scendere in campo quindici tigri. Due mete di Nonu e Kaino e dei calci piazzati portano il punteggio a 34 contro 10 quando mancano dieci minuti alla fine. Dei Wallabies nemmeno l’ombra, inchiodati su quei dieci vergognosi punti racimolati nella prima parte del match con una misera meta ed una punizione da tre. Una débâcle.
Ed è a questo punto che si scopre l’anima vera del rugby. Nel calcio, sul corrispondente 4 a 0, si farebbe melina da una parte, tanto per fare arrivare il novantesimo senza danni alle pregiate caviglie, e dall’altra si assisterebbe a qualche annoiato tentativo di segnare almeno il gol della bandiera, giusto per dire c’eravamo anche noi. Fischi e cachinni del pubblico pagante.
Nell’autentico, siderale rugby no. Gli australiani estraggono da qualche parte una dose nascosta di orgoglio e lottano finalmente come leoni per condurre quella maledetta saponetta ovale in meta, come se quindici punti invece che dieci facessero la differenza. Niente da fare. La testuggine neozelandese non cede un metro. Gli dei sono permalosi. Avete giocato male? Sarete puniti. Non meritate questa meta.
Mancano sette secondi all’ottantesimo. Un’inezia. Dall’ennesimo gruppo laocoonteo sbuca una palla che piove tra le braccia possenti di Ma’a Nonu. Dopo ottanta minuti mozzafiato parte ancora come un cavallo da corsa, punta diritto all’angolo sinistro del campo, lontano dalle insidie degli avversari. Sembra che nulla al mondo possa fermare quel volo libero e selvaggio di energia, ma una locomotiva australiana è in rotta di collisione con lui, lo intercetta, gli si infrange contro schiantandolo contro il paletto d’angolo del campo, che beneficamente si flette sotto l’urto dei due bisonti avvinghiati.

Nonu è a terra. Travolto. Ha perso il pallone. Sconfitto? Mai. La sua mano si allunga, si percepisce tutta la sua forza che si sta trasferendo in quelle dita protese, in un’esasperante, infinita frazione di secondo, verso quell’ovale bianco così irraggiungibile. I corpi affranti sono lontani, ma le dita di una mano, da sole, fanno il miracolo. Si abbarbicano al pallone fuggitivo, lo addomesticano, lo convincono a farsi dolcemente, delicatamente depositare sull’erba rilucente nella notte invernale neozelandese. Meta? Chissà.
Talmente fulmineo, talmente inumano da richiedere la prova televisiva. L’arbitro si consulta con la regia, ascolta l’auricolare, parlotta, poi riceve e trasmette il verdetto.
Try. L’ultima meta. Pubblico in visibilio. Altri cinque punti, e che importa se il calcio piazzato a seguire, da un angolo impossibile, va fuori, il fischio finale fotografa un 39 a 10 per gli All Blacks che parla non di una sconfitta ma di una disfatta australiana.
L’anima bella, pura, onesta del rugby è tutta nell’immagine finale. Lottare fino all’ultimo secondo, ed oltre ancora, non importa se si sta già stravincendo, o straperdendo. Dare tutto, e anche di più. E poi, alla fine, una inusitata cavalleria densa di rispetto, che suggella una partita stratosferica. Le due squadre si complimentano e si fanno ala a vicenda, ricevendo l’applauso corale degli avversari, all’uscita dal campo. Signori, giù il cappello. Questo sì che è sport.
Prima pubblicazione : 9 agosto 2008