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venerdì 15 marzo 2013

Cani al volante

Guidi come un cane. Non si potrà più dire. Non nel senso offensivo con cui lo si usa, perlomeno. Perchè in Nuova Zelanda hanno trovato la maniera di farli guidare, i cani. Davvero, non è un pesce d’aprile in anticipo.

Si tratta di bestiole di canile, animali abbandonati, o salvati da padroni violenti, o semplicemente randagi raccolti per strada.

I volontari dell’associazione per la protezione degli animali hanno avuto un’idea speciale. Insegnare a tre di loro, su degli improvvisati simulacri di cruscotti, a compiere le manovre fondamentali. Curvare, frenare e perfino parcheggiare. Poi, su delle Mini adattate per l’evenienza, dopo due mesi di corso, questi volonterosi allievi hanno dimostrato in pista di essere capaci di condurre una vettura. Da soli, con l’istruttrice che li guidava alla voce, da fuori. Due su tre hanno passato il test. C’è gente che ci mette di più a prendere la patente, pur avendo la parola e un cervello che – forse a torto – riteniamo superiore a quello degli animali.

Hanno scelto apposta dei cani rifiutati, per sconfessare quel brutto preconcetto che l’ospite di un canile sia un essere di serie b, una bestia da scegliere solo se non si ha un’alternativa migliore, un’incognita da mettersi in casa con cautela.

Il motto di questa eccentrica iniziativa? Cani così intelligenti si meritano una casa.

Ma domandiamoci, piuttosto: noi boriosi e arroganti umani, siamo sicuri di essere degni di meritarci delle creature così?





giovedì 16 agosto 2012

Hooker’s corner

Boccaccio non avrebbe saputo fare di meglio. C’è più scorrettezza politica in questa notizia di quanto un giornale americano riesca a mettere insieme in un anno di pubblicazioni.

La storia arriva dagli antipodi. Auckland, Nuova Zelanda: l’amministrazione comunale è sul piede di guerra con le prostitute che danneggiano il patrimonio comune. Come? Esibendosi in volteggi adescatori sui pali dei segnali stradali. E siccome evidentemente non tutte sono delle libellule, ne hanno piegati o troncati già un buon numero, nei mesi recenti. Allora, ragazze: o la smettete di abbuffarvi come delle maiale e vi rimettete un po’ in linea, oppure la piantate di usare gli stop come pali da lap-dance.

Mi viene in mente il grande De Andrè e la sua Bocca di rosa. Le contromisure fino a quel punto, si limitavano all’invettiva. Le abitanti del quartiere sono imbufalite, come sempre accade quando la tentazione viene portata proprio a domicilio, mettendo a repentaglio la fedeltà dei maritini. Una dichiara: il mio indirizzo è Hunters Corner, ma siamo talmente pieni di prostitute che su un pacco per me hanno scritto Hooker’s Corner, e mi è stato recapitato lo stesso.

Tutto da ridere: l’angolo delle mignotte, già accreditato perfino dai postini. Ora non ci resta altro che aspettarsi un esposto dell’associazione delle peripatetiche neozelandesi nei confronti dell’amministrazione pubblica, per aver usato materiali scadenti nei pali dei cartelli. Gli infortuni sul lavoro sono una cosa seria, e poi queste sono imprenditrici in proprio, non si possono permettere di stare a casa con la schiena a pezzi o una gamba rotta. La concorrenza impietosa incalza, e un palo che cede sotto lo slancio ginnico di una lucciola giunonica può causare imponenti perdite di reddito. Per non parlare del danno d’immagine. Da sexy a ridicola nel breve istante in cui il palo cede e si affloscia come burro fuso. Robe da far causa.

Fossi nei panni dell’assessore all’urbanistica di Auckland, consulterei un avvocato di grido. Non sia mai che la mia fantasia divenga realtà, e per maggior scorno qualche giudice in vena di estrosità leguleie non dia alla fine ragione alle professioniste dell’amore – ma dilettanti della palestra. Costringendo la città a cambiare tutto l’arredo urbano. E magari imponendo pure una lautamente pagata consulenza della Technogym, giusto per esser sicuri che i volteggi delle squillo siano tutelati da solide basi tecniche e strumenti adeguati.

Non vedo l’ora di andare in Australia, per sentire quante nuove barzellette hanno coniato gli aussies sul tema. Gli amati-odiati cugini kiwi sono il loro bersaglio preferito, vuoi non approfittare di una storia così gustosa? Basterà buttare lì le paroline magiche hooker’s corner, tra una birra e l’altra, e aver pronto il taccuino. E un fazzoletto, per asciugarsi le lacrime dal ridere.



domenica 23 ottobre 2011

Quale allegria (2)

Sarebbe potuta (e dovuta) essere una domenica di festa. Di celebrazioni, almeno da una parte. Dopo sei settimane di battaglie, Francia e Nuova Zelanda si affrontavano ad Auckland, nella tana degli All Blacks, per decidere chi avrebbe sollevato la Coppa del Mondo di Rubgy.

Per la cronaca, hanno vinto gli All Blacks, con un risicatissimo punteggio di 8 a 7. Una meta per parte, un solo punticino di distacco, che fa un mondo di differenza.

Ma proprio mentre agli antipodi si battevano i rugbisti, a Sepang, in Malaysia, Marco Simoncelli perdeva la sua giovane vita in un incidente, al primo giro del Gran Premio di motociclismo. Difficile trovare le parole. Perfino i solitamente caciaroni commentatori televisivi alternavano momenti di silenzio a frasi gravi e imbarazzate. Un’ora di incertezze e di agitazione. Quelle immagini, riproposte più volte, inquietanti, evocavano ricordi di altri scontri, di altri investimenti, purtroppo finiti tragicamente. L’aria era pesante, non faceva presagire nulla di buono. Fino all’annuncio ufficiale, in diretta: Marco Simoncelli is dead.

Non ci si pensa mai che un ragazzo ventiquattrenne, famoso, guascone, spassoso, possa andarsene così, in un’istante maledetto, per di più davanti agli occhi di un padre frastornato da un evento troppo madornale per farsene una ragione.

Addio, Marco. Forse un giorno saresti diventato un campione del mondo, come già lo eri stato nella classe 250. Vai a far compagnia a quella stirpe di combattenti che hanno acceso la fantasia dei tifosi degli sport motoristici e che, come te, sono morti troppo presto. Ma la loro leggenda rimane: Gilles Villeneuve, Ayrton Senna, Jarno Saarinen, Daijiro Kato. Da oggi, lassù, c’è un asso in più.


domenica 9 ottobre 2011

Man of the match

Non ha portato neppure una palla in meta, e del resto non era il suo compito. Ma con uno score perfetto di calci di punizione, sette su sette, ha regalato agli All Blacks più di metà dei punti fatti contro l’Argentina. Ed il passaggio alla semifinale di domenica prossima: il più classico dei derby, contro i Wallabies.

Onore al merito, Piri Weepu. Ka mate, ka mate, ka ora, ka ora. Questa volta l’Haka ha cantato per te. È la vita, per la Nuova Zelanda, è la morte – delle speranze – per i combattivi Pumas argentini.


lunedì 3 ottobre 2011

Fratelli d'Italia

Per un tempo abbiamo creduto tutti al miracolo. Poi il sogno si è infranto contro l’Irlanda dominante dei secondi quaranta.

Ma non abbiamo mai smesso di sperare, né di lottare. Fino all’ultimo. Il copioso sangue sul viso di capitan Parisse, la sua intervista a partita appena finita, parole rubate da un giornalista a chi soffocava a fatica le lacrime, in un misto di rabbia, dolore, delusione, ne sono la prova.

C’è modo e modo di uscire da una Coppa del Mondo. Noi ne usciamo sudati, maculati, sanguinanti, battuti: ma non umiliati. Grazie, ragazzi.

mercoledì 21 settembre 2011

The spoiler

Non parlo del posticcio alettone applicato a una modesta e affannata berlina per farla sembrare brillante e sportiva. Si tratta di altro: devo avere appiccicata un’antica maledizione che mi tira addosso i guastafeste. Ovvero: cronaca di una vittoria annunciata.

Dopocena in un albergo vicino a Melbourne. La televisione, con una marginale differita, mostra le immagini di Italia Russia. Secondo incontro del nostro quindici, dopo la batosta contro gli australiani. Siamo già ad un bivio. Occorre vincere, e bene. È la Coppa del Mondo di Rugby, mica il torneo rionale.

Gli spettatori locali all’inizio osservano con una certa sufficienza queste squadrette di minor rango, una delle quali hanno già provveduto a bastonare a dovere pochi giorni fa. Ma i primi quaranta minuti li fanno ricredere: sono un vero piacere per gli occhi. Punti su punti, calci piazzati facili come rigori a porta vuota, e quanto son belli certi voli in meta. Un godereccio, perentorio trentotto a sette. Italia stellare.

All’inizio del secondo tempo, dopo un’ulteriore meta che ci porta a 43 punti, una debordante signora di taglia americana extralarge che fino a quel momento, affranta su un sofà e indifferente agli eventi, aveva giocherellato con un telefonino di un peculiare color pervinca, decide di rovinarmi la serata. Chiedendo ad alta voce, mentre ammicca al televisore: è la partita che è finita 57 a 7? La osservo con una malcelata espressione di odio. Grazie. Aspettavo proprio qualcuno che mi svelasse il finale del giallo. Perché non hai continuato ad importunarci con le lagnose suonerie del tuo telefono? Avrei preferito. E non importa se il vaticinio si rivela fallace, perché subito la Russia scende in meta con quel furetto sgusciante di Yanyushkin. Dodici, non sette.

Segue l’ennesima meta italiana, non siamo abituati a questa messe di punti in campo internazionale, ho perso quasi il conto dall’emozione. Fatica in testa più che nelle gambe, manca la caparbietà, la voglia di lottare su ogni pallone del primo tempo. E i russi replicano, azione su azione. Siamo quarantotto a diciassette. Con ammirevole impegno i piedi buoni (o no?) continuano da ambo i lati a sbagliare le trasformazioni da due. La balena si avvicina al bancone del bar, la sento cianciare alle mie spalle, ma la ignoro totalmente e alla fine se ne va, transumando fiaccamente verso l’ascensore.

Giusto il tempo di godermi l’ultima prepotente meta, realizzata da Zanni sfondando di pura forza la difesa avversaria, gettando fisico e pallone oltre l’ostacolo. All’ottantesimo – 53 a 17 – un tripudio di tricolori, strette di mano leali con i russi e abbracci gioiosi di giocatori che quasi non ci credono. Nove mete. Robe da segnarlo sul calendario. Bravi azzurri.

L’inopportuno cetaceo è andato via, se no glielo avrei detto, tra una improvvisata celebrazione ed i piacevoli complimenti dei fans australiani ad un’Italia finalmente vincente e bella da vedere: no, non era questa la partita che finiva 57 a 7. Ma grazie per avermi sciupato la suspense.

mercoledì 4 maggio 2011

La voce della Terra

Il mio primo viaggio in Nuova Zelanda, quattordici anni fa. Un racconto inedito, dedicato al luogo che considero forse il più affascinante del mondo.


Gli antipodi. Terra bellissima. Da bambini si disegnava sulla palla della Terra quella gente con la testa all’ingiù, come facevano a stare così, non gli andava tutto il sangue alla testa? Terra remota, lontana da tutto, terra che non ci passi per caso, ci devi proprio volere andare per capitarci. Terra di contrasti, con panorami diversissimi.

I dolci declivi di certa Inghilterra, verdi, verdissime colline su cui sembra che un seminatore celeste abbia sparso, con ampio gesto, pecore a perdita d’occhio. Le asperrime cime di vulcani spenti e attivi, dalle colate che aprono, scavano, spaccano e riformano la terra, dandole surreali tonalità da tavolozza cubista. Isolette incantevoli, un mare cristallino che fa da specchio a spiagge sabbiose contornate da prati smeraldini, ti viene da chiederti come facciano ad avere quei colori, ma la salsedine non li brucia? E nell’isola meridionale, quella più fredda, montagne spettacolari, Alps, proprio così, chiamate esattamente come le nostre Alpi, e ancora vulcani.

E poi ancora, per la natura instabile del cuore su cui appoggia questa terra, zone geotermiche con fanghi bollenti, e geyser che si innalzano nel cielo, lanciando a ritmi regolari le loro altissime fumate bianche di vapore. Ma non è neppure l’occhio quello colpito di più da questo spettacolo naturale. No. È l’orecchio. È il rumore, la voce della Terra. Terra viva, Terra creatura. Le cui viscere calde e irrequiete emettono i loro umori. Terra che si lamenta, geme, cerca di sfogarsi, infine trova la sua via e soffia fuori il suo calore con un suono sordo, cupo, rabbioso, indimenticabile. È la Terra che mostra quanto sia forte, indomabile, incontenibile. È la Terra che ci ricorda le proporzioni.

Prima redazione : aprile 1997

sabato 2 ottobre 2010

L’ultima meta

Gli dei sono permalosi. Una splendida citazione che amo e che rubo, chiedendogli scusa, ad Alessandro Baricco, che parecchi anni fa ha raccontato, fortunato lui ad esserci stato, l’impresa in terra di Francia degli All Blacks di quando imperava Jonah Lomu.

Tanto mi lascia indifferente il calcio, con i suoi sordidi stratosferici interessi, con i suoi striminziti punteggi, con le sue pastette e le sue manfrine da tuffatori in area, con i suoi pareggi a reti inviolate, con le simulate violenze in campo e quelle autentiche sugli spalti, quanto, per sommo contrasto, mi accende, mi entusiasma, mi scalda il cuore una partita di rugby. E massimamente se a giocarla sono dei campioni.

Schierato come tutti i tifosi, illogico come tutti gli appassionati, ho sempre nutrito un’ammirata devozione nei confronti di quell’ammasso di travolgente potenza che sono gli All Blacks.

Saranno quei visi da antichi guerrieri Maori, bellissimi ed orgogliosi, il coraggio tatuato sulla faccia. Sarà l’Haka, Ka mate, ka mate, ka ora, ka ora. È la morte, è la vita. Danza di guerra per presentarsi, per incutere soggezione e rispetto negli avversari. Sarà quel minaccioso, lugubre completo corvino con il quale scendono nell’arena dell’ardimento, a macinare sudati metri e lombi degli oppositori e zolle di terra grosse come badili. Sarà quella fama planetaria che li accompagna ovunque, mista ad un non altrettanto stellare palmares nelle competizioni che contano davvero.

Ma quando vedo quei quindici fenomeni arrembare verso i due pali che sono il desiderio di ogni rugbista, vengo rapito e nulla è più importante fino alla fine del match. Non ho mai avuto la fortuna di assistere dal vivo al derby per antonomasia. Ero sempre lì nel weekend sbagliato, oppure nella città sbagliata, quando giocavano Australia e Nuova Zelanda. Ho rischiato l’incidente diplomatico, dichiarando la mia passione per i Kiwi ad amici australiani. Certe relazioni hanno vacillato. Sono stato rimbrottato da un doganiere, all’arrivo a Brisbane da Auckland, che mi ha guardato storto e mi ha detto wrong hat!, ammiccando per nulla divertito al mio cappellino nero con la felce degli All Blacks, inopportuna provocazione ad un poliziotto presunto fan dei Wallabies.

Anche questa volta mi sono accontentato di vederli in televisione, con un commentatore australiano smaccatamente di parte, che non mi ha tolto nulla dal piacere dello spettacolo.

Tre Nazioni. Si gioca ad Auckland, All Blacks contro Wallabies. La furia nera in casa è travolgente. Combattono, mordono ogni pallone. Dopo i primi quaranta minuti di mischie furibonde, di arieti che si incornano per conquistare un metro, di scarti da ballerino eseguiti da montagne di muscoli, di spazi sanguinosamente guadagnati sfondando muraglie umane che ti si avvinghiano addosso come piovre, gli All Blacks hanno saldamente in pugno la partita, 21 a 10.

Ma è nel secondo tempo che si vedono scendere in campo quindici tigri. Due mete di Nonu e Kaino e dei calci piazzati portano il punteggio a 34 contro 10 quando mancano dieci minuti alla fine. Dei Wallabies nemmeno l’ombra, inchiodati su quei dieci vergognosi punti racimolati nella prima parte del match con una misera meta ed una punizione da tre. Una débâcle.

Ed è a questo punto che si scopre l’anima vera del rugby. Nel calcio, sul corrispondente 4 a 0, si farebbe melina da una parte, tanto per fare arrivare il novantesimo senza danni alle pregiate caviglie, e dall’altra si assisterebbe a qualche annoiato tentativo di segnare almeno il gol della bandiera, giusto per dire c’eravamo anche noi. Fischi e cachinni del pubblico pagante.

Nell’autentico, siderale rugby no. Gli australiani estraggono da qualche parte una dose nascosta di orgoglio e lottano finalmente come leoni per condurre quella maledetta saponetta ovale in meta, come se quindici punti invece che dieci facessero la differenza. Niente da fare. La testuggine neozelandese non cede un metro. Gli dei sono permalosi. Avete giocato male? Sarete puniti. Non meritate questa meta.

Mancano sette secondi all’ottantesimo. Un’inezia. Dall’ennesimo gruppo laocoonteo sbuca una palla che piove tra le braccia possenti di Ma’a Nonu. Dopo ottanta minuti mozzafiato parte ancora come un cavallo da corsa, punta diritto all’angolo sinistro del campo, lontano dalle insidie degli avversari. Sembra che nulla al mondo possa fermare quel volo libero e selvaggio di energia, ma una locomotiva australiana è in rotta di collisione con lui, lo intercetta, gli si infrange contro schiantandolo contro il paletto d’angolo del campo, che beneficamente si flette sotto l’urto dei due bisonti avvinghiati.

Nonu è a terra. Travolto. Ha perso il pallone. Sconfitto? Mai. La sua mano si allunga, si percepisce tutta la sua forza che si sta trasferendo in quelle dita protese, in un’esasperante, infinita frazione di secondo, verso quell’ovale bianco così irraggiungibile. I corpi affranti sono lontani, ma le dita di una mano, da sole, fanno il miracolo. Si abbarbicano al pallone fuggitivo, lo addomesticano, lo convincono a farsi dolcemente, delicatamente depositare sull’erba rilucente nella notte invernale neozelandese. Meta? Chissà.

Talmente fulmineo, talmente inumano da richiedere la prova televisiva. L’arbitro si consulta con la regia, ascolta l’auricolare, parlotta, poi riceve e trasmette il verdetto.

Try. L’ultima meta. Pubblico in visibilio. Altri cinque punti, e che importa se il calcio piazzato a seguire, da un angolo impossibile, va fuori, il fischio finale fotografa un 39 a 10 per gli All Blacks che parla non di una sconfitta ma di una disfatta australiana.

L’anima bella, pura, onesta del rugby è tutta nell’immagine finale. Lottare fino all’ultimo secondo, ed oltre ancora, non importa se si sta già stravincendo, o straperdendo. Dare tutto, e anche di più. E poi, alla fine, una inusitata cavalleria densa di rispetto, che suggella una partita stratosferica. Le due squadre si complimentano e si fanno ala a vicenda, ricevendo l’applauso corale degli avversari, all’uscita dal campo. Signori, giù il cappello. Questo sì che è sport.

Prima pubblicazione : 9 agosto 2008

sabato 4 settembre 2010

Carpe diem

Una vecchia regola del giornalismo dice che la distanza dell’evento deve essere direttamente proporzionale al numero di morti, per fare notizia. E siccome pare che miracolosamente, nonostante un sisma del settimo grado Richter abbia scosso la scorsa notte la città di Christchurch, di morto non ce ne sia stato neppure uno, ma solo dei gran danni materiali, allora la cosa sui giornali italiani si merita giusto un posticino nelle rubriche fotografiche, tra pettegolezzi internazionali, attricette in passerella e caschi motociclistici di decisiva importanza.

Mando un ansioso messaggio ad un amico locale. Non sai mai cosa fare in queste circostanze. Chiamare? Le linee saranno già intasate da parenti angosciati. Meglio non disturbare. Un messaggio arriva e lascia tempo alle cose più importanti. Per fortuna lui mi risponde subito, dicendomi che in famiglia stanno tutti bene, anche se casa e officina sono state lese dalla scossa. Osservo le foto dei crolli, facciate inesistenti, muri sbriciolati, automobili sventrate. Penso a quanto ho trovato bella Christchurch, e a quanto sia fragile l’equilibrio instabile nel quale viviamo tutti. Senza certezze. Di nulla. Quello che abbiamo oggi domani potrebbe non esistere più. Perfino la nostra vita. Per questo occorre cercare di godersela ogni giorno.

Oggi Christchurch è così.


Ma solo ieri era così: la cattedrale ed il centro.


La galleria d’arte.


L’università.


La natura intorno: fiori rosa e cigni neri.


Carpe diem.