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domenica 8 giugno 2014

Paradossi


Riyadh, Arabia Saudita. Non credo ci sia un posto al mondo dove il carburante costa così poco. Credevo che "l'acqua costa più della benzina" fosse un paradosso o una battuta. Finchè non mi sono fermato a un distributore.

Quarantacinque centesimi di Riyal al litro. Al cambio, sono circa nove centesimi nostri. Il pieno a una macchina di media cilindrata si fa con 5 euro. In compenso l'acqua viene dalla desalinizzazione dell'acqua di mare, ed è la vera risorsa che il reame islamico non si può permettere di sprecare. Chi ti offre una bottiglia d'acqua fa un gesto la cui valenza non va trascurata.

Allora per un attimo ho pensato alle nostre fontanelle dalla testa di toro che buttano in continuazione acqua potabile e ho provato vari sentimenti contrastanti. Vedi come siamo fortunati: perché la vera ricchezza è l'acqua. Senza petrolio si vivrebbe certamente un po' peggio - si tornerebbe all'esistenza frugale dei bisnonni. Ma senza acqua si muore. Vedi quanto siamo spreconi: un bene così prezioso noi spensierate cicale lo facciamo scorrere inutilmente, a metri cubi, verso le fogne, senza che nessuno ne benefici, se non qualche sporadico cane o piccione all'abbeverata. Sarebbe come se gli sceicchi facessero sgorgare il petrolio da sottoterra e poi gli dessero fuoco, tanto chi se frega, sai quanto ne abbiamo ancora là sotto...

I catastrofisti dicono che se le ultime guerre del secolo scorso sono state combattute per il petrolio, la prima del nuovo secolo sarà combattuta per l'acqua. Cominciamo intanto a preoccuparci di non sprecarla. Almeno toglieremo ai guerrafondai una buona scusa per scatenare questo conflitto prossimo venturo.




sabato 12 maggio 2012

È tutto finito

Quattro anni fa, il terremoto nel Sichuan, Cina. Circa settantamila morti. Tante tragedie. Ricordiamone una, per commemorarle tutte.

È tutto finito

Sono queste le uniche parole che evoca l’immagine di un padre, con una smorfia di indescrivibile dolore sul viso, che stringe disperatamente la mano spettrale e coperta di polvere del figlio morto, appena estratto dal nulla che resta di una scuola di Juyuan.

Una scena di insopportabile strazio, che si ripete all’infinito, crudelmente uguale a se stessa, con una torma di genitori sgomenti che vagano inebetiti alla ricerca di un figlio o una figlia, tutto quello che la società cinese gli ha concesso di procreare. E quando lo trovano tra le vittime, la perdita è totale.

Madri affrante che non si capacitano, e parlano al figlio morto usando il presente, disperatamente gettate come stracci logori su quei corpi freddi e insanguinati che fino a due giorni fa erano la loro gioia, la loro speranza, il loro futuro. Sei un ragazzo così brillante. È roba da impazzirci, a pensarci.

Una teoria di corpi adagiati su delle assi di legno, il viso pietosamente coperto da dei panni o da dei libri sgualciti e macchiati di sangue, quelle divise tutte uguali ad indicare l’appartenenza alla stessa scuola, dei tragici burattini irrigiditi nel deforme gesto finale in cui sono stati sorpresi dalla morte venuta da dentro alla Terra.

Un dramma, una sofferenza inenarrabile, un crollo di impossibili illusioni che si ripete ogni volta che viene estratto un cadavere da quelle macerie contorte. Genitori costretti a identificare la propria creatura dalle unghie, o dal colore delle calze, o magari dal tipo di scarpe, e a subire il tormento estremo di vedere che scempio ha fatto il terremoto dei suoi lineamenti, spesso deturpati fino a renderli irriconoscibili.

Affiora il corpo di un altro studente dalle rovine. Un urlo. Due cuori che sprofondano, gambe che non reggono più. Lacrime. Prostrazione.

Due genitori si fondono in un abbraccio disperato, cercando la forza di sopravvivere a quello spettacolo osceno, la capacità di andare avanti, le motivazioni per non crollare di fronte a quel tragico, immobile, straziato figlio morto che giace lì, su quel tavolaccio polveroso e imbrattato di sangue. È tutto finito.

Prima pubblicazione : 14 maggio 2008

giovedì 6 ottobre 2011

Dacci oggi la nostra radiazione quotidiana

La fissazione giapponese per la precisione tocca livelli tragicomici nella ossessionante presenza quotidiana, a pagina tre del giornale, della mappa circostanziata del livello di radiazioni rilevate in un raggio di quattrocento chilometri circa intorno alla centrale di Fukushima. Come se fosse:

- ben chiaro quale è il livello accettabile di radiazioni a cui un corpo umano può sottoporsi senza beccarsi leucemie e cancheri assortiti.
- evitabile, per i milioni di abitanti nella zona più popolosa del Giappone, di farsi bombardare ogni giorno da plutonï e cesï e stronzï (l’elemento chimico, si intende) che svolazzano liberamente nell’atmosfera.
- confortante il sapere che le radiazioni oggi sono scese di qualche millesimo di microsievert all’ora rispetto a tre giorni fa, nella località dove mi trovo.

Siamo a 0,039 invece che 0,040 μSv/h. Ben un miliardesimo di sievert in meno. Ahhh. Mi sento già meglio.

giovedì 19 maggio 2011

Bloody terrific

Uluru, nella lingua degli aborigeni, è il nome di un enorme monolito rosso che si trova nel centro geografico dell’Australia. Ed attorno a questa colossale pietra che sorge solitaria nel deserto è stata costruita una specie di industria del turismo. Non c’è neppure un paese qui, solo una serie di alberghi che attirano come mosche frotte di turisti, soprattutto giapponesi.

Mosche. A proposito. Una presenza costante, un tormento continuo. Mai fare l’errore di mettersi profumo o dopobarba. Ti svolazzano in faccia, negli orecchi, sul collo. Al punto da trasformare i camminatori che percorrono gli otto chilometri del perimetro dell’Uluru in specie di apicoltori, il viso riparato da veletti che si suppone facciano parte del business locale. Una passeggiata sorprendente, una vista mozzafiato su vertiginosi muri verticali di pietra rossa.

L’incontro del giorno è con Les, australiano di Sydney, attivo e allegro come un ragazzino nonostante i suoi 74 anni. Percorriamo insieme il tracciato, dopo esserci incontrati sul pulmino che porta fin qui dagli alberghi. Un by-pass coronarico alle spalle, non ha paura né del caldo orrendo né delle mosche. Si arma di un fuscello fronzuto che strappa dagli arbusti, e per tutto il tempo si percuote con regolarità il collo e le spalle per cacciare i fastidiosi insetti.

E non smette mai di parlare, colorando i discorsi con vivaci espressioni tipicamente australiane. Mi chiama Fernando dieci volte al minuto, facendomi notare quanto siano “bloody terrific” - qualcosa come “maledettamente grandiosi” - certi scorci di questo luogo. E poi si fa fare delle fotografie, per portarsi a casa il ricordo di questo viaggio. Nei posti dove è consentito, perché alcuni, secondo le credenze - o la religione - degli Anangu, gli aborigeni Mala padroni naturali della roccia, sono luoghi sacri di culto, e non è permesso né fotografarli né accedervi.

Una piacevole passeggiata attorno ad un luogo di grande suggestività, arricchita dalla presenza di questo gioviale nonnetto, che saluta come se si conoscessero da sempre un paio di aborigeni che incrociamo, e trova una parola per qualsiasi persona con cui entra in contatto. Voglia di fare, voglia di vivere. Lezioni di vita. A poco prezzo. I quindici dollari dell’ingresso al parco - parco? - che vanno al fondo per il sostentamento degli aborigeni. Non è molto, in cambio di un incontro che ti mostra quanto sia importante godere appieno della vita. Ogni giorno. Diem carpere, e di sicuro senza avere letto Orazio.

martedì 4 gennaio 2011

Segnali di civiltà

In una nazione abituata ad eccellere, in cui la qualità della vita non è sempre affidata alle buone maniere di qualcun altro (ottima ricetta per fallire, vedi l’imperante inciviltà italiana, nella quale il bel gesto è purtroppo motivo di meraviglia e di citazione) ma è fatta del contributo individuale di ogni cittadino, sensibilizzato fin da piccolo a comportarsi con creanza e rispetto, è naturale trovare dei cartelli che fanno sbalordire per la loro attenzione al dettaglio, per l’efficacia motivazionale, per la loro funzione civilizzatrice.

Sto – ovviamente – parlando di Singapore. Dove, all’aeroporto di Changi, votato non a caso il migliore al mondo, in una toilette si trova uno schermo sul quale dare la propria valutazione dello stato di manutenzione della stessa. Con tanto di foto dell’addetto, citato per nome e cognome, scopettone in mano, ed era proprio lì, non una presenza virtuale tanto per dire che ogni due ore qualcuno passa a dare una ramazzata e una deodorata. Inutile precisare che il luogo era lindo e scintillante, assolutamente privo di alcun sentore, nemmeno quell’invadente e fastidioso alito di deodorante canforato, forte al punto da bruciare gli occhi. Robe da pubblicità del brillacciaio, in quel lavandino ci potreste mangiare dentro. Ogni lavoro a Singapore è preso come una missione, come una cosa da fare seriamente. Cosa potevo votare, se non eccellente?

Sempre all’aeroporto, il riciclaggio si propone in modo divertente, con una punta di – giusta – autocelebrazione. Dicono che per ogni tonnellata di carta riciclata si salvino 17 alberi. Non so se sia vero, ma mi piace crederci, e soprattutto mi piace leggere che l’anno scorso, grazie a giornali e cartoni rimessi al macero, l’aeroporto di Singapore abbia salvato più di 1.800 piante. Bene. Il bidone della carta mascherato da testata di giornale istruisce, mentre chiede a tutti di non sprecare la carta usata, ma di riciclarla correttamente. E accanto a quello, la lattina e la bottiglia formato gigante mettono allegria, invogliano a riempire i due vivaci contenitori con tanta plastica, con l’alluminio delle bevande. Ogni cosa al suo posto.

Una nazione si giudica dal rispetto che mostra verso i disabili, e non solo a parole. Davanti ai loro parcheggi c’è un cartello inequivocabile. Palese – e sanamente scoraggiante, circa 250 Euro – l’importo della multa per l’infrazione di uso abusivo di tale posto, e sotto un numero verde da chiamare in caso di violazione. Chiunque può telefonare. E state tranquilli che non deve arrivare un disabile per farlo, qualcuno con il senso della giustizia c’è sempre a Singapore. Se uno chiama cosa succede? Non lo so, perché non mi è ancora capitato di vedere un posto occupato illecitamente. Ma mi assicurano che nel giro di poco arriva un addetto per multare l’incivile ed un carro attrezzi per rimuovere il mezzo. Questione di minuti, non di ore – quando va bene – come succederebbe da noi. Civiltà in azione.

Troppo perfetto per essere vero? Dai, troviamo qualcosa di buffo, per fare capire che a Singapore non sono degli alieni. Passeggiata in bicicletta nei curatissimi parchi, mai una cartaccia per terra, un mozzicone di sigaretta, una cacca di cane trascurata da un padrone infingardo. Corsie per le biciclette ed i pattinatori, con tanto di riga divisoria in mezzo. Leggo l’immancabile cartello: sii cortese, stai nella corsia di destra. Obbedisco volentieri, anche se oggi non c’è nessuno sulla pista ciclabile. Mi vengono dei dubbi quando vedo in lontananza altri ciclisti che puntano direttamente su di me. Stay on the right track? Illuminazione. Non volevano dire sulla corsia di destra, ma su quella giusta! Che è quella di sinistra. Amici cartellonisti: non presupponete che tutti – specie gli stranieri che non vengono dalla Gran Bretagna – sappiano che sulle piste ciclabili la corsia giusta è quella di sinistra. La prossima volta, o fate delle frecce per terra, oppure scrivete: Stay on the LEFT track!


lunedì 5 luglio 2010

La baia del massacro

The Cove, film vincitore di Oscar, girato a fatica – e non senza scontri con la polizia locale – da Louie Psihoyos, è appena entrato in programmazione, più o meno con la stessa fatica, nelle sale cinematografiche di Tokyo.

Racconta della mattanza celebrata annualmente nella baia di Taiji, nel sud del Giappone, dove centinaia di delfini vengono intrappolati nelle reti e poi uccisi ad arpionate. Una sana tradizione nipponica, che nessuno straniero dovrebbe permettersi di criticare, insultare e men che meno documentare. Ma insomma, reclamano i manifestanti, nazionalisti che esibiscono bandiere con il simbolo imperiale e cartelli di protesta, questo è razzismo bello e buono. Ce l’hanno con noi perché siamo giapponesi. Non tartassate i pacifici pescatori. E dai. Lasciate che continuino la loro consuetudinaria simpatica attività di macelleria marittima.

Presentato dalla stampa nipponica come una pellicola di spionaggio (videocamere nascoste, stratagemmi per sfuggire all’ira dei pescatori ripresi all’opera, operatori addestrati a girare in condizioni disagevoli) è, per loro stessa ammissione, uno sconvolgente documentario. Anche se, da buona razza superiore, non capiscono tutta questa enfasi sulla supposta straordinaria intelligenza dei delfini. Figuriamoci, fanno fatica a considerare intelligenti tutti gli altri umani che hanno avuto la sfortuna genetica di non esser nati nella terra del Sol Levante, pensa te se si potranno considerare dotati di intelletto dei mammiferi acquatici, di cui – tra le altre – non è mai stato trovato neppure un esemplare che parlasse anche approssimativamente il giapponese. Mah.

E inoltre, perché mettere in guardia il pubblico sui pericolosi livelli di mercurio presenti nella carne di delfino? Come è noto, sebbene possieda il trascurabile inconveniente di essere marginalmente velenoso, il mercurio aggiunge a questa impedibile squisitezza quel pregiato tocco di inconfondibile sapidità. Lasciamoli fare. È proprio vero che l’uomo non impara mai. Anche se proprio la razza giapponese ha sperimentato, già negli anni cinquanta, a Minamata, cosa vuol dire morire di mercurio. A migliaia.

Buon appetito ai buongustai nipponici, che hanno pacatamente manifestato davanti ai cinema, ma ben si son guardati dall’entrare e documentarsi. E aggiungerei, come personale augurio a questi sostenitori di siffatta tradizione, folcloristica, delicata e soprattutto grondante sangue, pardon, volevo dire, considerazione per gli altri esseri viventi: buon avvelenamento.