Quattro anni fa, il terremoto nel Sichuan, Cina. Circa settantamila morti. Tante tragedie. Ricordiamone una, per commemorarle tutte.
È tutto finito
Sono queste le uniche parole che evoca l’immagine di un padre, con una smorfia di indescrivibile dolore sul viso, che stringe disperatamente la mano spettrale e coperta di polvere del figlio morto, appena estratto dal nulla che resta di una scuola di Juyuan.
Una scena di insopportabile strazio, che si ripete all’infinito, crudelmente uguale a se stessa, con una torma di genitori sgomenti che vagano inebetiti alla ricerca di un figlio o una figlia, tutto quello che la società cinese gli ha concesso di procreare. E quando lo trovano tra le vittime, la perdita è totale.
Madri affrante che non si capacitano, e parlano al figlio morto usando il presente, disperatamente gettate come stracci logori su quei corpi freddi e insanguinati che fino a due giorni fa erano la loro gioia, la loro speranza, il loro futuro. Sei un ragazzo così brillante. È roba da impazzirci, a pensarci.
Una teoria di corpi adagiati su delle assi di legno, il viso pietosamente coperto da dei panni o da dei libri sgualciti e macchiati di sangue, quelle divise tutte uguali ad indicare l’appartenenza alla stessa scuola, dei tragici burattini irrigiditi nel deforme gesto finale in cui sono stati sorpresi dalla morte venuta da dentro alla Terra.
Un dramma, una sofferenza inenarrabile, un crollo di impossibili illusioni che si ripete ogni volta che viene estratto un cadavere da quelle macerie contorte. Genitori costretti a identificare la propria creatura dalle unghie, o dal colore delle calze, o magari dal tipo di scarpe, e a subire il tormento estremo di vedere che scempio ha fatto il terremoto dei suoi lineamenti, spesso deturpati fino a renderli irriconoscibili.
Affiora il corpo di un altro studente dalle rovine. Un urlo. Due cuori che sprofondano, gambe che non reggono più. Lacrime. Prostrazione.
Due genitori si fondono in un abbraccio disperato, cercando la forza di sopravvivere a quello spettacolo osceno, la capacità di andare avanti, le motivazioni per non crollare di fronte a quel tragico, immobile, straziato figlio morto che giace lì, su quel tavolaccio polveroso e imbrattato di sangue. È tutto finito.
Prima pubblicazione : 14 maggio 2008
Obbedendo a uno stereotipo, quando la Cina era lontana pensavo che i Cinesi fossero incapaci di emozioni.
RispondiEliminaInvece anche loro piangono.
Tesea
Ciao Tesea,
RispondiEliminasì, anche loro sono capaci di piangere, di urlare, di soffrire, di adirarsi. Hanno fatto tutto questo, dopo quel maledetto giorno di maggio di quattro anni fa.
Grazie della visita e del commento, a presto,
HP