mercoledì 1 febbraio 2012

Spilling the beans

In inglese, diffondere un segreto, rivelare ciò che doveva rimanere nascosto.

Ieri sera, colto da un attacco acuto di curiosità piccionesca, sono andato a ficcare il naso in un capsule hotel in una grande città del sud del Giappone.

Avevo sempre immaginato che fosse l’ultima spiaggia di salariati disperati, il rifugio minimo per chi, perso l’ultimo metrò notturno per tornare a casa e non disponendo delle ingenti somme necessarie ad affrontare un’ora di taxi in Giappone, ricorreva a questi famigerati loculi in cui smaltire – si spera senza inopportune e accidentali fuoruscite di fluidi precedentemente ingeriti – le sbornie necessarie per conquistare galloni nella lenta scalata alla gerarchia aziendale. Me li immaginavo come luoghi dove torme di dannati danteschi vengono condotti al proprio oblò da un arcigno portiere di notte, poco propenso all’indulgenza verso questi ubriaconi tiratardi, manco capaci di guardare l’orologio a tempo per tornarsene dalla famigliola, invece di doversi accontentare di questi succedanei di alberghi, il grado più basso della catena alimentare del riposo del sarariman.

Niente di più erroneo e di lontano dalla realtà. Mi sbagliavo grossolanamente. Altro che ubriaconi odorosi di alcool e di profumo femminile dozzinale. Altro che povere anime ondeggianti nei corridoi in preda ai fumi etilici. Altro che portieri arcigni e schizzi di vomito sugli oblò.

Mi si è aperto un universo di piaceri sibaritici quando, tolte opportunamente le scarpe come è buon costume fare in qualsiasi casa giapponese, sono stato guidato (che gentili, ad accontentare la curiosità di un gaijin di passaggio!) da un cortesissimo e quasi efebico imberbe cicerone attraverso due piani di recondite voluttà. Si scende, non si sale. Tutto ben isolato dal mondo esterno, nemmeno una finestra per sbaglio. Atmosfere ovattate, corridoi moquettati, profumi discreti di oriente (con un’eccezione).

Le famose capsule ci sono, è vero. Vuote, vista l’ora ancora presta. Sono nel piano più sotterraneo, a cui si accede tramite un ascensore dalle dimensioni claustrofobiche. Un persistente e poco invitante sentore di calzini non proprio di bucato consiglia di limitare il tempo della visita al minimo necessario. Una teoria di loculi in termoformato plastico, tutti identici, con una porta-finestra che mostra lo spartano allestimento. Niente materasso, giusto un finissimo tatami. Un micro-cuscino e una copertina striminzita, ripiegata con cura. Una tivù incastrata nel soffitto. Un ripianetto sufficiente per quattro oggettini personali e il telecomando. Ecco qui una capsula.


Continua, domani, con la parte più... indiscreta.

2 commenti:

  1. Atmosfera resa perfettamente: solo la lettura mi da la claustrofobia.
    Tesea

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  2. ciao Tesea,

    grazie della visita e del commento. A risentirci sulla seconda parte!

    HP

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