Non parlo del posticcio alettone applicato a una modesta e affannata berlina per farla sembrare brillante e sportiva. Si tratta di altro: devo avere appiccicata un’antica maledizione che mi tira addosso i guastafeste. Ovvero: cronaca di una vittoria annunciata.
Dopocena in un albergo vicino a Melbourne. La televisione, con una marginale differita, mostra le immagini di Italia Russia. Secondo incontro del nostro quindici, dopo la batosta contro gli australiani. Siamo già ad un bivio. Occorre vincere, e bene. È la Coppa del Mondo di Rugby, mica il torneo rionale.
Gli spettatori locali all’inizio osservano con una certa sufficienza queste squadrette di minor rango, una delle quali hanno già provveduto a bastonare a dovere pochi giorni fa. Ma i primi quaranta minuti li fanno ricredere: sono un vero piacere per gli occhi. Punti su punti, calci piazzati facili come rigori a porta vuota, e quanto son belli certi voli in meta. Un godereccio, perentorio trentotto a sette. Italia stellare.
All’inizio del secondo tempo, dopo un’ulteriore meta che ci porta a 43 punti, una debordante signora di taglia americana extralarge che fino a quel momento, affranta su un sofà e indifferente agli eventi, aveva giocherellato con un telefonino di un peculiare color pervinca, decide di rovinarmi la serata. Chiedendo ad alta voce, mentre ammicca al televisore: è la partita che è finita 57 a 7? La osservo con una malcelata espressione di odio. Grazie. Aspettavo proprio qualcuno che mi svelasse il finale del giallo. Perché non hai continuato ad importunarci con le lagnose suonerie del tuo telefono? Avrei preferito. E non importa se il vaticinio si rivela fallace, perché subito la Russia scende in meta con quel furetto sgusciante di Yanyushkin. Dodici, non sette.
Segue l’ennesima meta italiana, non siamo abituati a questa messe di punti in campo internazionale, ho perso quasi il conto dall’emozione. Fatica in testa più che nelle gambe, manca la caparbietà, la voglia di lottare su ogni pallone del primo tempo. E i russi replicano, azione su azione. Siamo quarantotto a diciassette. Con ammirevole impegno i piedi buoni (o no?) continuano da ambo i lati a sbagliare le trasformazioni da due. La balena si avvicina al bancone del bar, la sento cianciare alle mie spalle, ma la ignoro totalmente e alla fine se ne va, transumando fiaccamente verso l’ascensore.
Giusto il tempo di godermi l’ultima prepotente meta, realizzata da Zanni sfondando di pura forza la difesa avversaria, gettando fisico e pallone oltre l’ostacolo. All’ottantesimo – 53 a 17 – un tripudio di tricolori, strette di mano leali con i russi e abbracci gioiosi di giocatori che quasi non ci credono. Nove mete. Robe da segnarlo sul calendario. Bravi azzurri.
L’inopportuno cetaceo è andato via, se no glielo avrei detto, tra una improvvisata celebrazione ed i piacevoli complimenti dei fans australiani ad un’Italia finalmente vincente e bella da vedere: no, non era questa la partita che finiva 57 a 7. Ma grazie per avermi sciupato la suspense.