mercoledì 21 settembre 2011

The spoiler

Non parlo del posticcio alettone applicato a una modesta e affannata berlina per farla sembrare brillante e sportiva. Si tratta di altro: devo avere appiccicata un’antica maledizione che mi tira addosso i guastafeste. Ovvero: cronaca di una vittoria annunciata.

Dopocena in un albergo vicino a Melbourne. La televisione, con una marginale differita, mostra le immagini di Italia Russia. Secondo incontro del nostro quindici, dopo la batosta contro gli australiani. Siamo già ad un bivio. Occorre vincere, e bene. È la Coppa del Mondo di Rugby, mica il torneo rionale.

Gli spettatori locali all’inizio osservano con una certa sufficienza queste squadrette di minor rango, una delle quali hanno già provveduto a bastonare a dovere pochi giorni fa. Ma i primi quaranta minuti li fanno ricredere: sono un vero piacere per gli occhi. Punti su punti, calci piazzati facili come rigori a porta vuota, e quanto son belli certi voli in meta. Un godereccio, perentorio trentotto a sette. Italia stellare.

All’inizio del secondo tempo, dopo un’ulteriore meta che ci porta a 43 punti, una debordante signora di taglia americana extralarge che fino a quel momento, affranta su un sofà e indifferente agli eventi, aveva giocherellato con un telefonino di un peculiare color pervinca, decide di rovinarmi la serata. Chiedendo ad alta voce, mentre ammicca al televisore: è la partita che è finita 57 a 7? La osservo con una malcelata espressione di odio. Grazie. Aspettavo proprio qualcuno che mi svelasse il finale del giallo. Perché non hai continuato ad importunarci con le lagnose suonerie del tuo telefono? Avrei preferito. E non importa se il vaticinio si rivela fallace, perché subito la Russia scende in meta con quel furetto sgusciante di Yanyushkin. Dodici, non sette.

Segue l’ennesima meta italiana, non siamo abituati a questa messe di punti in campo internazionale, ho perso quasi il conto dall’emozione. Fatica in testa più che nelle gambe, manca la caparbietà, la voglia di lottare su ogni pallone del primo tempo. E i russi replicano, azione su azione. Siamo quarantotto a diciassette. Con ammirevole impegno i piedi buoni (o no?) continuano da ambo i lati a sbagliare le trasformazioni da due. La balena si avvicina al bancone del bar, la sento cianciare alle mie spalle, ma la ignoro totalmente e alla fine se ne va, transumando fiaccamente verso l’ascensore.

Giusto il tempo di godermi l’ultima prepotente meta, realizzata da Zanni sfondando di pura forza la difesa avversaria, gettando fisico e pallone oltre l’ostacolo. All’ottantesimo – 53 a 17 – un tripudio di tricolori, strette di mano leali con i russi e abbracci gioiosi di giocatori che quasi non ci credono. Nove mete. Robe da segnarlo sul calendario. Bravi azzurri.

L’inopportuno cetaceo è andato via, se no glielo avrei detto, tra una improvvisata celebrazione ed i piacevoli complimenti dei fans australiani ad un’Italia finalmente vincente e bella da vedere: no, non era questa la partita che finiva 57 a 7. Ma grazie per avermi sciupato la suspense.

mercoledì 14 settembre 2011

Cronache marziane - 2a parte

Il racconto prosegue da ieri. La prima parte la trovate qui.

Riflessioni sparse, affiorate durante quelle lunghe ore in un luogo che a malapena evocava la sofferenza. Stimolanti visioni, talvolta addirittura entusiasmanti, veri tesori per l’occhio del viaggiatore curioso ed affamato di conoscenza.

Già al momento dell’arrivo, in auto, la prima sorpresa. Cartello: block parking. Simbolo di fiducia quasi illimitata. Il lotto è pieno? Non importa. Parcheggi la macchina in seconda fila, con le chiavi nel cruscotto ed il finestrino abbassato. Quando qualcuno deve andarsene ma è bloccato dai nuovi arrivati, degli inservienti spostano la vettura esterna e poi la posteggiano nel vano lasciato libero. E avanti così. Tutto basato sulla fiducia che nessuno tocchi nulla. Da noi? Impensabile.

SGH. Potrebbe essere un centro ricreativo. Giardinetti con aiuole colorite di fiori e allegri cartelli a forma di cuore che ringraziano le infermiere per la loro dedizione. Panchine dove i visitatori leggono il giornale, chiacchierano, riposano in attesa dell’ora di passaggio. Perfino delle variopinte bancarelle nei viali, zeppe di mercanzia varia, borse, orologi, magliette, sciarpe, fermagli per capelli, pelouches.

Una corte delle cibarie (lo so, è un neologismo orrendo, ma come altro tradurre l’inglese food court, simbolo di ristorazione ad ampio spettro del Sud Est Asiatico?) dove le varie etnie trovano i propri cibi per far colazione, pranzo, cena, senza un’apparente soluzione di continuità. Sempre piena a tutte le ore, l’ansia e il dolore vinte dall’esigenza primordiale di rifocillarsi. Lunghe e rispettose code di persone si dipanano tra i tavoli, ad indicare i chioschi che offrono le migliori refezioni. Nasi lemak malesi, jiao zi cinesi, curry di pollo indiani. Niente alcol, ma solo grandi spremute di frutta fresca. Tutto genuino e saporito. E per pochi dollari, idoneo alle tasche di tutti.

E i malati? Anche loro trattati come ospiti di un albergo. Di rango. Dopo il pranzo arriva una cordiale infermiera dotata di una rivista. Domanda, dolce ed espansiva, cosa vogliamo mangiare domani? E illustra ai degenti le pagine, piene di foto a colori delle pietanze disponibili tutta la settimana. C’è ovviamente scelta. Cinque menù diversi: cucina occidentale; cinese; halal, per i malesi mussulmani; indiana, vegetariana o con carne. Robe che vien l’acquolina in bocca solo a guardare le figure.

Ascolta i bisogni dei nostri pazienti, ammonisce da un muro un gran manifesto. Scegli parole che fanno bene al malato. Sorridi, usa gli occhi per comunicare partecipazione. Usa il tono giusto e parla con sincerità. Presta attenzione a ciò che ti viene detto e comprendi le preoccupazioni. Ricordare tutto questo evidentemente fa bene, perché dottori e infermiere ogni giorno sono davvero così, come i ritratti di questo poster.

Chi è Rosie Kwan? La superstar. Non di qualche vacuo programma televisivo pieno di beceri sfaccendati. È la finalista, vincitrice del concorso annuale per il miglior dipendente dell’ospedale. Scelta tra più di mille persone, tutte premiate per l’eccellente stato di servizio. Di quali straordinarie sollecitudini si sarà resa protagonista, considerando l’inarrivabile livello di efficienza unita alla premura che caratterizza tutto il personale con cui sono venuto in contatto? Fatto sta che si è meritata una gigantografia all’ingresso di uno dei corridoi al pian terreno. È bello sapere che esisti, Rosie.

Mi ha commosso tutta questa inusitata ostensione di impegno, di dedizione, di scrupolosità, di voglia di dare (agli altri, ai bisognosi) prima che ricevere (lo stipendio, comunque ben più meritato rispetto ai nostri scafati professionisti dell’assenteismo retribuito).

Rieccomi a casa: apro un qualsiasi giornale italico, leggo l’ennesima vergogna. Il morto di giornata da malasanità. E m’intristisco, riflettendo: il terzo mondo siamo noi.

Prima pubblicazione : 27 settembre 2009

martedì 13 settembre 2011

Cronache marziane - 1a parte

Malasanità. Episodi scandalosi. Gente che muore perché la sala operatoria era chiusa. O perché sballottata da un ospedale a un altro alla ricerca di un letto o di un dottore che ci capisca qualcosa. Gente che resta sotto i ferri, togliendosi tonsille o poco più. O che se ne va per criminali errori, scambi di sacche emostatiche, iniezioni sbagliate, diagnosi superficiali o grossolanamente fallaci. Arnesi e garze dimenticati nelle pance come se i pazienti fossero dei panni lenci da imbottire di cotone.

Torno in Italia e ritrovo il solito stillicidio di eventi vergognosi. E ripenso all’abissale differenza tra i troppi nosocomi nostrani trasformati in sconce topaie dove curarsi è diventata una lotteria, ed un luogo – che sommo contrasto! – da indicare ad universale esempio di dedizione al malato.

SGH. Entro in questo ospedale per visitare una persona d’età, lì per un’operazione complessa e delicata. La prima cosa che mi colpisce è l’assoluta mancanza di quel lezzo tipico di clinica, tanfo di disinfettante aggressivo misto agli afrori di umanità varia, sofferente o in visita. Eppure ogni superficie riluce di pulizia estrema, ogni pavimento è lindo e privo del benchè minimo detrito, ogni parete sembra imbiancata di fresco ieri l’altro. Macchinari corruschi ed efficienti. Ascensori politi e solleciti. È un policlinico o la NASA?

Poi scopro che tutti i visitatori si devono registrare, lasciando i propri dati a delle volonterose signorine che lavorano senza sosta al computer. Etichetta sulla maglia, valida solo per il reparto del malato che si visita. Controllo a portale della febbre. Mascherina, fornita gratuitamente ad ogni ingresso. Ammissione solo negli orari di passo, che peraltro sono ampi, due ore sul mezzogiorno e addirittura tre e mezzo il pomeriggio.

Salgo ai piani. Ci sono infermiere di una gentilezza disarmante. Dotate di un sorriso che intuisci dagli occhi, visto che la mascherina è obbligatoria non solo per i visitatori ma anche per lo staff. Si muovono e lavorano con serenità, spostando senza sforzo malati appena operati, adagiati su barelle motorizzate ma silenziosissime, che scorrono nei corridoi senza un cigolio, senza un’incertezza. Entrano ed escono dalla zona di rianimazione. Colgono la trepidazione di parenti in attesa di notizie, ansiosi di vedere un proprio caro seppur solo al di là di un vetro. Il lento respirare incosciente del coma indotto è già motivo di sollievo. Rispetto, silenzio, garbo.

I dottori visitano. Non tronfi e importanziosi, circondati da codazzi di giovani tirapiedi, non le divinità la cui epifanizzazione in corsia provoca perentori richiami da parte di infermiere sbirre: tutti fuori, presto, che c’è il Dottore. Qui il chirurgo visita alla presenza dei parenti, sorride confortante e incoraggia la malata che già dà segni di ripresa. La privacy è rispettata, una tenda gira tondo tondo attorno al letto e nasconde il sollecito, efficiente consulto. Il medico si sposta al paziente successivo e a quello dopo ancora. Tre ospiti, tre idiomi differenti. Il dottore li padroneggia tutti. Un ultimo sorriso e se ne va, altra stanza, altre anime da consolare e motivare.

Ovunque ci sono moniti all’igiene. Mani pulite, vera ossessione. Ogni dieci metri c’è un flaconcino che dispensa alcool, per disinfettarsele. Nei bagni, lindi e luccicanti come specchiere di cristallo, risuona discreta della musica classica. Operistica. Puccini, il mio favorito. E non è una clinica privatissima, per milionari che possono pagare rette da grandhotel. È il Singapore General Hospital.

Una città, uno stato si giudicano anche dalla cura che dedicano ai propri cittadini quando sono malati. Se questo è un parametro sufficiente, Singapore è tra i luoghi più civili al mondo. Ho visitato il SGH per dieci giorni di fila. E riuscivo sempre a meravigliarmi per qualcosa di nuovo, di inaspettato, di sorprendente.

Se vi è piaciuta la prima parte del racconto, tornate a trovarmi domani, per la seconda parte delle Cronache marziane...

Prima pubblicazione : 26 settembre 2009

domenica 11 settembre 2011

Never forget

Mi ha scritto un’amica americana, che ha perso il fratello nelle torri gemelle. Parole che fanno venire la pelle d’oca. Non importa cosa uno pensi della politica estera americana – e io ne penso tutto il male possibile. Non rispetto l’incultura, l’arroganza e l’ipocrisia di chi finge di portare democrazia a destra e a manca ma in realtà mira solo a petrolio e potere. Rispetto invece, e molto, il privatissimo dolore dei parenti di una vittima del 9/11. Uno dei tanti, troppi drammi personali creati da quegli aerei piovuti dal cielo su una città esterrefatta. Ecco quello che mi scrive:

My family and I went to visit his grave on Sept. 4 along with my mother who just turned 91. To see her standing there sobbing is beyond anything that I could possibly put into words. Never forget.

Con la mia famiglia siamo andati a visitare la sua tomba il 4 settembre, insieme con mia madre che ha appena compiuto 91 anni. Vederla lì, impietrita e piangente, va al di là di qualsiasi cosa che io sappia esprimere con delle parole. Non dimenticate.

Credo non potrebbe esserci epitaffio o immagine più forte e più straziante di quelle parole che le mancano.

Never forget.

Prima pubblicazione : 12 settembre 2007

mercoledì 7 settembre 2011

Goodbye, little rascal

You flew somewhere this morning. Wherever you are now, I wish you a good trip. As good as the life you had. Happy, fierce, confident dog. Bye, Teddy. You will be missed.