venerdì 31 gennaio 2014

Buono, ma basta (regressione infantile)


Un’esperienza diversa. Ancora una volta. Ero pronto a tutto – credevo – in fatto di cibo. Un motto. Posso mangiare tutto quello che si muove. Ammesso che sappia di cosa si tratta, prima. Per un attimo ha vacillato dalle fondamenta, questo mio principio, questo dogma, questo postulato.

Cina. Jiangmen, provincia del Guangdong. Cena con clienti. Che chiedono premurosi, frutti di mare? Dopo un orrido hamburger a mezzogiorno, trangugiato in macchina, senza manco fermarsi, che se no si perde tempo, non posso che dire di sì.

Ristorante. Sala riservata, con maledetta aria condizionata anche se fuori, di sera, ci sono dodici gradi, e magari il riscaldamento non ci starebbe neanche male. Televisione. Maledetta anche quella, quando non trasmette le lagne del karaoke fa danni anche peggiori. Tutti seduti, sei persone, cerimonia del tè. Al crisantemo. Meraviglioso. Si comincia bene. E poi. Andiamo a scegliere il pesce, propone l’anfitrione. Andiamo. Ci alziamo, visita alla zona vasche con animali vivi. Gamberetti? Bene. Il granchio? Ottimo. Un paio di pesci? Magnifico. Saltiamo le stie con i serpenti, e dopo me ne rammaricherò. Arriviamo al dunque: vuoi provarli? Per la prima volta, in vita mia, ho avuto un’esitazione. Non di ordine morale. Di ordine, come dire?, viscerale.

Scarafaggi. Che sguazzano, vivacissimi, in una bacinella. Nemmeno il tempo di dire che forse, che in fondo, che insomma.., ed eccone un bel retino da farfalle pieno, pronto alla pesa. Ma come si cuociono, provo a traccheggiare. Fritti! E beh, è naturale, come chiedere da noi, ma questa braciolina come la prepari?

Ho il tempo di tornare a tavola, e cercare di prepararmi mentalmente all’operazione. Rifiutare? Non sia mai detto. Ne va della mia stessa parola. Sostenuta a testa alta in mille conversazioni con asiatici increduli. Che dopo, regolarmente, si ricredevano. Accampare banali scuse, tipo un’improvvisa allergia nei confronti degli coleotteri? No, ormai sono in ballo. E devo ballare. Intanto provo ad impormi un training autogeno, in fondo cosa li differenzia da tanti altri animali che letteralmente squarti, apri e divori, vedi gamberi, granchi, lumache, rane… Tento anche con l’autoconvincimento salutista, toh, mi ricordo ora di avere letto da qualche parte di uno che ne andava matto, e che, in sovrappiù, sosteneva che fanno benissimo, che sono pieni di vitamine, insomma un toccasana per la salute...

Arrivano. E sono dannatamente loro. Riconoscibilissimi. Interi. Sembrano quelli della pubblicità del Baygon. Li ammazza stecchiti. Neri, grossi, lucidi come nelle collezioni dei musei. Ammucchiati in un piatto decorato da ruote di cetrioli. Deposti su una carta graziosamente orlata che assorbe l’olio della frittura. Con le zampine rattrappite, come gli insetti che trovi morti nelle docce degli alberghi infimi, che ti riprometti, mai più qui.

E allora? Aspettiamo. Qualcuno darà il via alle danze. Infatti. Ora ti spiego, mima uno. Lo afferra per le zampe, gli stacca con cura le due elitre, poi le ali. Via la testa. In un morso tutto il corpo, corazza addominale compresa, sparisce in un rapido scrocchiare di denti. Come addentare un grissino. Forse. Ma solo per il rumore.

Proviamo. Coraggio. Non è mai morto nessuno – almeno spero – per avere mangiato un insetto. Milioni di uccelli se ne cibano. E crudi. Vivi. Vedi che culo che ho, a mangiarli morti e perfino fritti! Lo agguanto per le zampine, e subito mi se ne tronca una in mano, lasciando cadere il corpo mutilato nel piatto. Sono pure fragili, questi lazzaroni! Stacco un’elitra, poi l’altra. Poi le ali. Come le mosche nei giochi crudeli dei bambini.

Sollevo gli occhi, i miei, dalla preda. Cinque paia di occhi mi osservano con aria interrogativa. Ce la farà? Mi cade lo sguardo sul televisore, una orrendissima storia di spadaccini cinesi scorre sullo schermo. Assurda al punto da apparire ridicola, penosa. Ma come fanno a produrre – e soprattutto a guardare, senza avere conati di vomito – queste porcherie? Roba che il cavaliere intrepido, per salvare la donzella dai cattivi, ne fa fuori venti alla volta, brandomuniti, con una scimitarra più efficace di un Kalashnikov. Highlander gli fa un baffo, a quello.

Meglio, molto meglio tornare al nostro insetto. Lo addento. Anzi, ormai che ci sono, lo mordo, provando a metterlo in bocca come fanno gli altri. Sì. Sembra proprio un grissino. Caldo, croccante, perfino un po’ dolce. Ma per una volta, e mi torna difficile ammetterlo, non dovrei pensare a quello che sto macinando tra i denti.

Lo confesso. Sono stato incerto tutta la sera se mangiarne un secondo. Vile. Non ce l’ho fatta. I maledetti, come una condanna infernale, mi ricapitavano sempre davanti agli occhi, complice il perfido marchingegno rotante dei deschi rotondi cinesi.

Ho riflettuto, mentre i commensali animavano la serata, grazie alle abbondanti dosi di vino cinese. Ho pensato a lungo. Ed ho maturato una serena consapevolezza. Che, come tutto il resto del mondo, anch’io ho diritto ai miei gusti. Saranno anche dolci, faranno anche benissimo, ma a me gli scarafaggi non piacciono.

Buono, ma basta. Mi sono riaffiorate alla mente le eufemistiche parole che, bambino, pronunciavo quando qualcosa veramente non mi piaceva, ma non era bello ammettere apertamente che mi faceva proprio schifo.

Dopo i sorrisi di apprezzamento per il gesto coraggioso, non ho ceduto alle lusinghe ed agli inviti a servirmi di nuovo della prelibatezza locale. No, grazie. Preferisco i gamberetti. Mai quel colore rosa carico mi era stato così simpatico, confrontato col lugubre nero da becchino delle livree da blatta. Mai quell’intenso profumo di pesce mi era stato tanto gradito, se paragonato all’insopportabile mancanza di odore di questi insetti.

Più che tutto, anonimi. A distanza di poche ore, non ne ricordo bene neppure il sapore. E non è rimozione freudiana. È proprio assenza di emozione da gusto, quella che mi è rimasta dentro.

Peccato. Perché gli unici felici sono stati i miei ospiti, che se ne sono andati contenti e soddisfatti, con dentro già l’idea di raccontare agli amici di quella volta che quell’italiano mangiò perfino uno scarafaggio. Beati loro.



Prima redazione : dicembre 2000

mercoledì 29 gennaio 2014

La vera prova d’amore


Grazie, Giappone. Senza di te una rubrica come Mai più Senza non avrebbe ragione di esistere.

Dopo anni di quieta analisi dei manufatti umani più strampalati che via via trovavano una loro collocazione sul mercato, oggi sento impellente il bisogno di riesumare questa categoria che da troppo tempo trascuravo.

Signori, giù il cappello. Ecco un capolavoro appena rivelato: il reggiseno che si sgancia solo in presenza del vero amore.

No, non è uno scherzo. Credeteci. Quando si parla di Giappone tutto è possibile.

Perfino che degli scienziati pazzi, con un miscuglio micidiale tra tecnologia elettronica e febbri ormonali, abbiano escogitato e creato questo imperdibile oggetto.

Un reggiseno imbottito di sensori capaci di rilevare il battito cardiaco ed analizzare le sue alterazioni dovute al famoso batticuore da innamoramento (diciamo così, se vogliamo tenere la cosa nei binari della decenza e non scadere a livello di Cronaca Vera). Solo in presenza di frequenze cardiache da Cupido in azione il gancetto anteriore si concede all’apertura, per permettere alle due colombe dal disio chiamate di continuare in libertà maggiori e più interessanti esplorazioni...

Pare che tale invenzione non sia in vendita, ma sia solo un gadget celebrativo dei dieci anni d’attività della casa produttrice. Peccato, perché sono convinto che troverebbe una sua nicchia di mercato ed avrebbe certo degli estimatori.

Nel video promozionale la modella, succintamente vestita, resiste alle avances del pretendente di turno che non riesce a sganciare il dannato fermaglio, non essendo evidentemente il fuco nelle grazie della bellona.


Questi inventori sono dei sadici geni del male: come se noi tapini maschi medi avessimo bisogno di ulteriori frustrazioni, dopo aver passato buona parte della vita a combattere con i maledetti ermetici sistemi di chiusura di muliebri reggiseni, spesso tetragoni a qualsiasi tentativo di svincolo, perfino con ripetute e caparbie operazioni a due mani, che talora non sortivano alcun apprezzabile risultato se non un rassegnato sbuffare della partner, che concludeva con un perentorio e umiliante lascia stare, faccio io, e in men che non si dica con una sola mano ritorta dietro la schiena sganciava come d’incanto l’infernale apparecchio, che docile cedeva, mentre sinora si era fatto solenni beffe di ogni nostro pervicace ma vano impegno.

Bravi, giapponesi. Ne sentivamo proprio la mancanza di un nuovo strumento di mortificazione. True Love Tester. Per la donna tecnologica, che non ha voglia di sprecare fiato a dire di no.



martedì 28 gennaio 2014

Only in Australia

Road train è un termine familiare solo a chi conosce un po’ l’Australia. Ogni tanto in autostrada si incontrano degli autoarticolati di particolare lunghezza e capacità di carico. Il potente trattore stradale tira non il solito singolo rimorchio autoarticolato, ma ben tre. Per una lunghezza complessiva di oltre 50 metri. Per carità, che non debba mai fare manovra in retromarcia!

Un amico mi manda delle foto dalla terra dei canguri. Anche loro, seppur abituati alle esagerazioni, talvolta riescono ancora a sorprendersi di se stessi. Ecco le ragioni.

Un convoglio più somigliante a un treno merci che non ad una fila di camion come la conosciamo noi. Lassù, nel deserto rosso dei Northern Territory, una processione di road trains carica bestiame in una stazione presso Tennant Creek.

Dopo aver terminato le operazioni, il treno dei treni continua il suo lungo viaggio, in parte su sentieri sterrati. Percorrerà oltre milletrecento chilometri per raggiungere il mercato di Longreach, nel Queensland.

Un po’ di numeri, per dare l’idea di quanto eccezionale sia questa traversata desertica.

Diciassette camion; tre trailers per camion; due pianali per trailer: fanno 102 pianali da caricare di bestie.
Circa 28 animali per pianale: in totale, 2.856 capi.
Ogni capo pesa circa 500 chili.
Il prezzo del bestiame all’ingrosso a Longreach è di 1 dollaro e 65 cent al chilo.
Ogni animale viene venduto per 825 dollari.
Il valore totale della mandria trasportata è 2.356.200 dollari.
La colonna è lunga circa 900 metri. Roba da pregare di non doverla mai sorpassare!!

Quasi un chilometro di carovana e due milioni e mezzo di dollari di mucche. Questo si chiama far le cose in grande. Only in Australia.





venerdì 24 gennaio 2014

Mafioso

Ho di recente stigmatizzato l’orrenda ortografia di un presunto ristorante italiano di Singapore. Se c’è una cosa che mi indispone ancor più di un falso simbolo dell’Italia all’estero, è un autentico simbolo - di cui non andar certo fieri – sbandierato per attrarre folle di turisti idioti che magari ci ridono su. Mafioso steakhouse, avvistato in una località marittima della Malaysia, con tanto di sagoma stilizzata che brandisce un mitra, come nei film di Al Capone.

Non che ci manchi la scelta di stereotipi. In giro per il mondo ho visto la pizzeria Totò (Tailandia, chissà chi lo conosce laggiù il Principe De Curtis?), i ristoranti ispirati all’Opera (Tosca, Boheme, Puccini va forte in Asia e pure in Australia), perfino il raffinato ed esclusivo Portofino (Giappone, dove altro?). Ma evocare quale icona di italianità la mafia non è né spiritoso né divertente.

Per vender quattro bistecche grigliate questi abietti tavernieri offendono la memoria di gente come Chinnici, Falcone, Borsellino e mille altri che sono caduti sotto i colpi vili del crimine organizzato.

Come diceva Cuore: per favore boicottare. Sul serio. Finché non saranno costretti a scegliere un nome meno infame.




venerdì 17 gennaio 2014

Acrobati 3

Mandare un SMS oppure scrivere un messaggio su qualche social network mentre si viaggia in motoretta? A due mani? Si può, si può. Basta essere passeggeri, avendo perfino il comfort del bauletto come schienale a cui appoggiarsi, per meglio tener l’equilibrio mentre si digita. Speriamo non ci tocchi un giorno vederlo fare, ma al guidatore. Al peggio non c’è mai fine.






mercoledì 15 gennaio 2014

Acrobati 2

Un bimbetto in sella ad una moto, con le ciabattine infradito, braccia e gambe scoperte, senza casco e nulla che lo regga se non il proprio equilibrio? Non lanciamoci subito in giaculatorie sull'incoscienza di genitori che trasportano figli piccoli sulla motoretta senza adeguate misure di sicurezza. Nel Sud Est Asiatico questa è una visione non inconsueta, e i bambini locali sembrano aver sviluppato speciali abilità.

Questo pargolo, viste le notevoli doti di stabilità motoristica, forse da grande è destinato a una carriera nelle corse. Perchè capace di reggersi con una mano al giubbotto del padre mentre si ciuccia beatamente il pollice dell'altra, ma all'approssimarsi di una curva a sinistra provvede - solo di sensibilità motoria, essendo totalmente privo di visuale - ad aggrapparsi anche con l'altra mano, per meglio bilanciarsi al piegamento della moto. Data l'età apparente, credo si tratti di puro istinto di sopravvivenza.





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martedì 14 gennaio 2014

Acrobati 1

Ci sono poche cose che un motociclista asiatico non oserebbe trasportare sul proprio mezzo. Un vecchio pagliericcio, completo di piedini, evidentemente non fa parte dell’esigua lista. Purtroppo l'aspetto più straordinario del trasporto dalla fotografia non si riesce ad apprezzarlo.

Questo giocoliere contorsionista, ritratto in Malaysia, stava guidando con una mano sola. Perché l'altra impugnava, mediante opportuna rotazione della spalla all'indietro e all’insù, il bordo superiore del pezzo di mobilio. Per rendere più ardita l’operazione, nemmeno un pezzo di corda assicurava il collo al mezzo: solo quella mano innaturalmente torta.


E appariva totalmente a suo agio: non pareva sfiorarlo il pensiero che una vettura potesse urtarlo, nè che stesse ingombrando mezza carreggiata con il suo gingillo appoggiato sul sellino del motociclo.

Una volta in Cina in uno spettacolo ho visto esibirsi dei motociclisti che ruotavano in tutte le direzioni dentro ad una enorme gabbia sferica d’acciaio, incrociando traiettorie folli. Erano in sei, facevano un fracasso d’inferno e mi era sembrata un’insuperabile prova di demenziale temerarietà.

Ora so che c’è chi compie acrobazie non meno incoscienti, rischiando altrettanto la pelle, probabilmente lo fa gratis o per due quattrini, e non c’è neppure un cane ad applaudirlo. Acrobati anonimi.



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giovedì 9 gennaio 2014

Applausi 3

Che cos’è il genio? È fantasia, intuizione, decisione e rapidità di esecuzione. Famosa citazione del cult movie Amici Miei.

Metti che tu sia su un aereo tedesco che ti porta da Torino a Francoforte. La puntualità è sempre vitale, quando hai poco più di un’ora per prendere l’aereo successivo. Salvo che abbiano ottime ragioni per farlo, gli aerei grossi non aspettano quelli piccoli.

Metti che l’aereo sia pieno di italiani pronti a partire per le vacanze.

Metti che una coppia di mezza età decida di sedersi nell’ultima fila della business – e qui gli scenari possibili sono molteplici. Infingardia – o incapacità da mancanza di pratica – nel cercarsi i propri reali posti, da qualche parte in economy? Autonoma scelta di sedersi vicini (magari i loro posti erano separati, essendo l’aeroplanino piuttosto pieno)? O, volendo pensare peggio, furbesco ma ingenuo desiderio di approfittare dei servigi della classe superiore (furbesco perché a degli italiani ho visto fare anche di peggio, ingenuo perché chi ha un minimo di consuetudine col volare sa che l’equipaggio ha la mappatura completa dei posti, con tanto di nomi dei passeggeri).

Metti che un giovane steward, di bell’aspetto e di sorriso pronto, con una inusuale scintillante pelata a caratterizzarlo, approcci i due occupanti abusivi con aria interrogativa ed un foglio in mano, e che riceva desolati scuotimenti di capo alle sue sequenziali domande se parlassero tedesco o almeno inglese.

Ora, il novantanove per cento del personale viaggiante avrebbe ingaggiato un’estenuante battaglia lessicale (magari con l’aiuto di qualche volontario che facesse da traduttore), per fare estrarre ai due le carte d’imbarco, rivelando i posti a loro assegnati al check-in. Quindi si sarebbe trattato – in un aereo strapieno – di farli spostare con i relativi bagagli a mano, che per la legge di Murphy sarebbero stati di dimensioni elefantesche e non avrebbero trovato posto in nessuna delle cappelliere vicine ai loro sedili, causando aperture e chiusure a ripetizione degli strabuzzanti vani, e possibili cadute di oggetti in precarissimo equilibrio instabile. Sempre che i loro posti non fossero stati nel frattempo occupati da altri passeggeri che prendono l’aereo per un bus, e quindi scelgono da sé il primo posto libero, per sedersi di finestrino, o accanto all’amico, o sul corridoio perché soffrono di ansie se qualcuno blocca loro la via all’evacuazione in caso di emergenza. In tal caso i su descritti traslochi si sarebbero trasformati in una bagarre ingestibile negli angusti spazi di un piccolo bireattore da rotte regionali.

Quanto tempo avrebbe richiesto tale routine? Probabilmente a sufficienza da perdere lo slot di decollo (e passi, siamo a Caselle, mica a Hong Kong), ma soprattutto quello di atterraggio (a Francoforte perdere lo slot di atterraggio può voler dire girare in tondo sull’aeroporto in attesa dell’autorizzazione dalla torre di controllo altri dieci o quindici minuti, talvolta essenziali per chiudere una coincidenza). Le mie chances di prendere il volo successivo si sarebbero affievolite. Già immaginavo di dover trascorrere la notte a Francoforte, e partire ventiquattr’ore dopo (sono vacanze, certo, ma perché dover sprecare un giorno a causa di due che non sanno – o non vogliono – sedersi al loro posto in aereo?).

Il nostro Kojak in divisa Lufthansa ha dimostrato la sagacia propria dell’ispettore dalla crapa pelata. Appartenente a quel raro uno per cento di autentici problem solvers, ha intuito le potenziali disastrose conseguenze di seguire la prassi e far traslocare i due dall’ultima fila di business. Poi, visto che gli altri due posti simmetrici della stessa fila erano vuoti, ha inventato ed eseguito al volo la soluzione più creativa. Sganciando e spostando una fila più avanti, con due semplici gesti, le tendine che separavano la zona business dall’economy. L’economy cominciava dalla fila sei? Ora comincia dalla fila cinque, dicevano i suoi occhi soddisfatti, mentre si guardava intorno per verificare che tutto il resto fosse a posto e si potesse partire senza indugi.


Che cos’è il genio? È fare prendere a tutti i passeggeri la loro coincidenza, trovando la soluzione più semplice e rapida al problema. Siccome non avevi la targhetta con il nome, ho deciso che ti chiamerò come il brillante ispettore dei telefilm. Grazie, Kojak. Sei stato davvero grande. Tu sì che ti meriti un applauso.