mercoledì 29 giugno 2011

Aligi

Un foglio nudo, attaccato fragilmente con delle strisce di carta da pacchi ad un muro grigio – realista altare della memoria di una tragedia estiva - dove mazzi di fiori chiari calzati in pali mutilati si alternano alle colate verdi di un semaforo fuso dalla fiammata infernale.

Sembrerebbe un elenco di nomi, da lontano. Ma si rivela una poesia, firmata col solo nome. Aligi è passato di lì ed ha lasciato i suoi perché, le sue lacrime, il suo tormento su quell’improvvisato monumento sepolcrale. Una pagina, stropicciata come il cuore dolorante di tanti viareggini colpiti da questa sciagura collettiva.

Viareggio brucia

Ho sentito il rumore del treno
dopo il lungo silenzio
di morte e disperazione
e calde gocce limpide
hanno riempito i miei occhi.
Quel suono annuncia
l’arrivo dei convogli in stazione
oppure è solo un saluto,
per le persone assenti
bruciate dalla violenza del fuoco
in una notte d’estate.
Sì! Viareggio brucia
dentro le case dove dormono
ignari i bimbi le mamme e i padri,
Viareggio brucia
in una notte d’estate
ai bordi dei binari della stazione
dove dormono i senza casa
dentro stracci anneriti dalla miseria.
Viareggio brucia
in una notte d’estate
e le case diventano cenere
crollano gli edifici miseramente
avvolti nell’inferno.
Viareggio brucia
in una notte d’estate
non bastavano le stelle
per rischiarare il cielo della Versilia
dovevano accendersi,
per saziare chissà quale demone,
donne, uomini e bambini innocenti
avvolti da lingue di fuoco
con urla di disperazione e morte.
O Dio, io chiedo a te
padre di misericordia
come mai, come mai,
può accadere tutto questo
in una notte d’estate
così all’improvviso
come un castigo per chissà quale colpa,
forse quella di vivere
e di gioire della vita in una notte d’estate.

Prima pubblicazione : 5 luglio 2009

Saranno stati cento metri...

A due anni esatti dalla tragedia, voglio ricordare i morti di Viareggio. Con le sofferte emozioni del pezzo scritto a pochi giorni dal dramma.

Viareggio offesa. Raccontare un triste capitolo de La mia Toscana. C’è gente, sempre, e dappertutto, lungo quel muraglione che divide la strada dalla ferrovia. C’è chi si ferma con la macchina, scende, osserva e dice madonna che tragedia. C’è il solito crocchio di pensionati che commentano il lavoro delle gru, braccia potenti e pietose addette a demolire la passerella cotta dalla vampata assassina. C’è chi passa, rallenta e si fa un rapido segno della croce. Che chi dice: io c’ero.

Raffaele, accento viareggino e colorito del nativo che all’inizio di luglio è già abbronzato da frequentazioni primaverili di spiagge semideserte, racconta volentieri. Sì, sto un po’ più in là, dice puntando l’indice verso il centro. Abbiamo sentito tre botti di fila, enormi. E poi si è alzata in cielo una palla di fuoco. Saranno stati cento metri...

E continua: è andato tutto di là dalla ferrovia, il gas. Fosse venuto di qua, avrebbe fatto meno morti. Di qua c’è il dopolavoro ferroviario, la centralina dell’Enel, la Croce Verde. Le viareggine – tipiche case a due piani - son più lontane. Laggiù – e ammicca di là dai binari, verso quell’ammasso di macerie fumanti e di muri anneriti ancora inaccessibili, interdetti al passo da una pietosa recinzione tempestata di fiori e di preghiere – le case sono davvero attaccate al muraglione della ferrovia. O meglio, erano. Perché le case non ci sono più, in via Ponchielli.

Vedi lì per terra? È ferro fuso. Sbrilluccica, forse è alluminio, ma che importa. Doveva essere il cerchione di una macchina, di quelle spogliate di ogni sembiante dal calore di migliaia di gradi, una vampata rapida ma micidiale. Scheletri già rugginosi appena pochi giorni dopo l’esplosione.

Un’ambulanza è ridotta ad un ammasso di ferraglia e di fibre di vetro rattrappite, che si agitano al vento come tremebonde pelli di pecora.

Le siepi di pitosforo, butterate dalla pioggia bollente, sono vaiolose, di un colore malsano, mezzo verde e mezzo giallo.

Oleandri dai fragranti fiori bianchi e rosati ora giacciono inermi, le foglie molli, affrante, color dell’ocra.

Un’unica delicata macchia rosa tra tanta desolazione. Una rosa ha miracolosamente resistito, o forse è riuscita a fiorire lo stesso, in mezzo ad un mare di morto fogliame beige.

I pini, sempreverdi che non son più tali. Fiori sui muri e pietosi rattoppi d’asfalto a cercar di cancellare la macchia di un motorino e del suo guidatore carbonizzati, investiti in pieno dal fiume di fuoco.

I treni scorrono lenti sull’unico binaro riaperto, dai cavi elettrici nuovissimi, appena tesi, di un bel rosso rame brillante. Viaggiatori dalle facce stupefatte e tristi osservano i pedoni, visitatori di questo luogo di tragedie casuali.

Mi siedo per terra, all’ombra, ad annusare quel puzzo di morte fumigante che aleggia tuttora nell’aria, a sei giorni dal dramma. Ad ascoltare quel silenzio irreale e insieme rispettoso di tutta questa gente che osserva turbata ed ammutolita. A cercar di descrivere ciò che provo. E mi viene da piangere.

Per quelle morti inutili, generate dell’incuria, figlie della fretta, nipoti del profitto senza attenzione. Per questa mia Viareggio offesa, più che una città un antico amore mai del tutto sopito. Per quegli scheletri anneriti che erano alberi, siepi, case, lampioni, vetture, gente. Per quel fornaio, scomparso sulla passerella che stanno già distruggendo, annientato da un bagliore come gli uomini ombra di Hiroshima, per quella sua vedova che non avrà nemmeno un corpo, una bara, una tomba dove piangere il marito sparito in una notte estiva, con l’efferatezza di una tragedia greca. Per quelle case bruciate, le finestre sfondate, i vetri infranti, le povere cose semiarse rimaste dentro, alle pareti ancora appeso – come spesso si trova nelle case di Viareggio – un carboncino di Inaco, che sempre ritraeva le facce dagli occhi stuporosi e stanchi di fatica manuale delle sue genti.

Un ingenuo messaggio di speranza su un lenzuolo legato ad una recinzione di pitosforo: risorgi ancor più bella. Ma oggi nell’aria non si avverte la speranza. Solo rabbia e dolore.

Prima pubblicazione : 6 luglio 2009

domenica 26 giugno 2011

Riso amaro

Amici scrittori dilettanti, mi rivolgo a voi. Metti che un giorno capitiate in un ristorante che non conoscevate. Il padrone è antipatico, ai limiti della prepotenza. Il cibo deve essere caduto accidentalmente in un mastello di sale: immangiabile. Vedete passare rapidi sul pavimento degli scarafaggi che sembrano ansiosi di abbandonare la cucina.

Ecco un consiglio che vi verrà utile, specie se quanto sopra vi accadesse durante una vacanza a Taiwan: portatevi una macchina fotografica, meglio se abilitata a girare dei piccoli video. Perché dopo un’esperienza del genere, vi verrà la voglia di raccontarla nel vostro blog. Come ha fatto la signora Liu Ying-hui, pensando di evitare brutte avventure gastronomiche ai suoi lettori.

Esposte in rete le magagne riscontrate, Liu è stata citata per diffamazione dal proprietario dell’apparente tugurio, da cui perfino le blatte cercano di scappare. Processo. Sentenza. Il giudice le ha ordinato di pagare al padrone del locale circa 5.000 Euro a titolo di risarcimento. Secondo lui “si sono oltrepassati i limiti di una recensione appropriata”, perché la cliente non è stata in grado di portare alcuna prova delle sue affermazioni. La blogger si è beccata pure una condanna a due anni con la condizionale, sospesa perché Liu ha acconsentito a pagare la vergognosa gabella. Ma intanto la sua fedina penale è sporca.

Quindi attenzione: se anche vi trattano a pesci in faccia, il cibo fa schifo ai cani e l’odore ricorda più una discarica di rifiuti che una trattoria, se non avete con voi un mezzo di registrazione, lasciate perdere. Parlatene agli amici, passate parola, ma evitate di scriverne. Perché potrebbe capitarvi una disavventura come quella della signora Liu. Con una differenza, in Italia: visti i tempi della giustizia ordinaria, il risarcimento lo incasseranno gli eredi del ristoratore. E non è detto che siano i figli.

sabato 25 giugno 2011

Castigat ridendo mores

Sono i sorrisi le armi di comunicazione più forti di questo drappello di ragazze (ma c’è anche qualche ragazzo) che un solatio sabato mattina di fine luglio presidiano un incrocio importante di Torino, di quelli nei quali si va ad imbottigliare un buon numero di auto che arrivano dall’autostrada e vogliono raggiungere il centro.

Volontarie che hanno scelto una maniera differente per trascorrere un giorno del weekend, quando la gran parte delle loro coetanee sono già al mare a rosolarsi, o al massimo si stanno sorbendo code apocalittiche, nonostante le varie onde radio ed i loro notiziari calamitosi, nel tentativo di approdare finalmente nelle agognate spiagge liguri, o toscane, o romagnole, o fors’anche francesi.

Distribuiscono locandine agli automobilisti, con una lena che ricordo solo nelle liceali mie coetanee (evi geologici fa quindi) che volantinavano selvaggiamente appena fuori dall’istituto, con la foga e il trasporto della passione politica di gioventù. Il loro messaggio è accompagnato da un sorriso, quasi un ringraziamento a chi si dà la pena di rinunciare per un momento al conforto dell’aria condizionata per abbassare un vetro e vedere cosa hanno da dare – e da dire – queste fanciulle vestite di arancione. È un messaggio geniale, fatto apposta per richiamare l’attenzione, politicamente scorretto e malizioso quanto basta. Chi abbandona un animale ce l’ha piccolo. Il cervello.

Brave. Dunque manifestano contro la vigliacca, disgustosa, stagionale abitudine dell’abbandono degli animali. Che puntualmente ogni stagione fa contare un triste bollettino di guerra di morti innocenti, prima voluti dai vili umani per un capriccio, e poi scartati come un fardello inutile quando è tempo di godersi le sacrosante vacanze. Sembra di sentirli, quegli infami. Fermati e scarica, che non ci vede nessuno. E se poi il cane muore, chi se ne frega. Al massimo a settembre se ne prende un altro, se il bimbo frigna.

Tre corsie di macchine sono schierate davanti al semaforo rosso. Due delle ragazze sono pronte ad un defilé senza tacchi e senza abito lungo. Sfilano davanti agli automobilisti immobili, esibendo un lungo striscione lodevolmente eloquente. Il bastardo sei tu che lo abbandoni.

Mi sono fermato, colpito da tanto fervore ben indirizzato, ed ho voluto spendere qualche minuto con questo gruppo di volontari paladini degli amici a quattro zampe. Si sono fatte fotografare volentieri, anzi sono state felici di sapere che ne avrei raccontato le encomiabili gesta. Una di loro, Elisa, è corsa a prendere una cartelletta della LAV, ricca di notizie utili sul tema animali randagi ed abbandonati. Quella corsa è l’immagine di una contagiosa dedizione unita all’ardore giovanile. Tutto il contrario di quelle corsette da palcoscenico degli show all’americana, dove corrono sempre tutti per dimostrare dinamismo efficiente ed entusiastico, falso come quei sorrisi ipocriti che esibiscono mentre stanno meditando la maniera migliore per mettertelo nel ciocco.

Passione ed allegria. Elisa mi ha consegnato quel plico con la solennità con cui si affida qualcosa di importante, di sacro, a chi può diffondere un messaggio, a chi allungherà la catena. Ma il suo viso sorrideva contento. Mi piacciono le persone che spendono la propria energia in qualcosa così poco di moda di questi tempi come un ideale. Specie se lo fanno con un genuino sorriso sulle labbra. Per questo mi sono soffermato a parlare con loro, e ora, con gran piacere, ne rendo testimonianza. Perché se il mondo fosse più pieno di Elise e delle sue compagne dalle magliette arancioni, sarebbe un posto un po’ meno brutto dove vivere. I cani ringraziano.

Prima pubblicazione : 26 luglio 2008

venerdì 24 giugno 2011

Onanismo platonico

Ecco un prodotto che è difficile categorizzare. Va nella rubrica Mai più Senza? Offriamo agli inventori un posticino in Braccia rubate all’agricoltura? O forse meglio si adatta alla collocazione in Cronaca Vera (non la rivista, ma la sezione di Cuore dedicata all’inverosimile pubblicato sulla stampa la più varia)?

Tokyo. Salone della Realtà Virtuale. Già il nome dell’expo non promette alcunché di buono. Gli inventori giapponesi stavolta si sono superati. Siete un single – magari di ritorno. Rientrate a casa la sera, dopo una lunga e snervante giornata di lavoro. Aprite la porta di una casa vuota e buia, senza gli accoglienti suoni di una famiglia che vi aspetta. Posate stancamente le vostre quattro carabattole, e dovete decidere: tivu, libro, doccia o letto direttamente senza gli altri tre conforti da solingo?

Bene. Gli scienziati del futuribile hanno pensato a voi, a cui manca un abbraccio di bentornato (ebbene sì, ci sono ancora mogli – o mariti – che hanno questa sana, tenera abitudine, anche dopo anni di matrimonio. Raro, ma capita).

Sense-Roid. Un brivido mi attraversa la schiena mentre lo scrivo. E non è di piacere. Rabbrividisco al pensiero che qualcuno abbia concepito un marchingegno, in forma di manichino, in grado di restituire elettronicamente al mittente l’abbraccio che riceve. Voi indossate un giubbetto ad aria compressa, collegato al torso che dovete cingere come un’amante che non vedete da tempo, e questa diavoleria dalla pelle di silicone imbottita di sensori, vi restituisce la sensazione che sta provando. Sul vostro corpo. Davvero. Come se steste abbracciando voi stessi.

L’ineffabile signor Takahashi, leader del gruppo di progettisti di tale prodigioso ritrovato, spiega: la gente prova imbarazzo quando non fastidio se viene abbracciata da degli estranei (certo, sono giapponesi: il contatto corporeo è limitato al minimo, ci si saluta inchinandosi reciprocamente, mica ci si dà la mano!). Ma è piacevole, confortante addirittura, ricevere una coccola da un fidanzato o una fidanzata. Ci siamo chiesti cosa avrebbe provato un umano (sono parole grosse!) se avesse potuto abbracciare se stesso. Detto fatto. Dalla curiosità ai confini del morboso, alla realizzazione del Sense-Roid, il passo è stato breve. Piccoli onanisti crescono. Ma per ora si limitano agli abbracci.

domenica 19 giugno 2011

Hapax legomemon

Ci sono volte che, pur pieni di voglia di scrivere, proprio le parole mancano.

Disorientamento. Crisi d’identità. Appartengo ad un paese dove qualcuno ritiene – purtroppo, magari, a ragione – che ci sarà chi si metterà davanti al teleschermo con la ferma intenzione di guardare un programma. Nella cui presentazione pubblicitaria ho avuto oggi la ventura di imbattermi.

Cosa c’entrano Omero e Virgilio con dei bulletti palestrati? Apparentemente nulla. Ma chi doveva reclamizzare questo futuro capo d’opera televisivo da qualche parte doveva pur cominciare. E così, per assonanza fonetica, ha pensato bene di citare Odissea ed Eneide. Ancora non vedevo il nesso. Davanti ai miei increduli occhi continuavano a scorrere immagini più adatte ad un consesso di culturisti di second’ordine che ad una rievocazione di poemi epici dell’antichità.

Poi, alla fine della – per fortuna breve – solfa, la rivelazione. Prossimamente su questi schermi: Tamarreide.

Satis est.

sabato 11 giugno 2011

Morale mortale

Dramma in tre atti. Teatro della storia: Xi’an, città dell’esercito di terracotta. Epoca: ottobre dello scorso anno. I personaggi: Yao Jiaxin, studente di conservatorio, 21 anni, famiglia ricca. Zhang Miao, contadina, sposata, madre di un bimbo.

Atto primo – un banale incidente si trasforma in reato. Yao, alla guida della sua vettura, urta Zhang e non si ferma a prestarle soccorso. Quando si accorge che lei sta cercando di annotare il numero di targa, torna indietro, scende dalla macchina e la accoltella a morte, colpendola ripetutamente al petto, allo stomaco e alla schiena. Maniera piuttosto sbrigativa ma indubbiamente efficace per risolvere eventuali richieste di danni per un’invalidità derivante dall’incidente. Nel fuggire dalla scena del delitto investe altre due persone e viene infine bloccato da una folla inferocita. Solo dopo due giorni la polizia collega i due episodi e lo arresta.

Atto secondo – delitto e castigo. Il tribunale di Xi’an, in considerazione della malvagità del crimine, del danno irreparabile causato alla famiglia di Zhang, della disparità sociale tra l’assassino e la vittima, condanna Yao a pagare una compensazione di 5.000 € ai parenti di Zhang. Ma soprattutto punisce l’omicidio volontario, sentenziando per lo studente la condanna a morte.

Il suo avvocato impugna la sentenza, appellandosi alla giovane età dell’imputato e al suo avere agito d’impulso, senza premeditazione. Vuole ottenere clemenza, un verdetto più mite. Vuole che Yao sopravviva alla sua irresponsabile follia. Sono passati sette mesi dall’omicidio. La Corte Suprema di Giustizia conferma la pena. Martedì scorso, 7 giugno, un Yao incatenato e in lacrime firma gli ultimi documenti prima di esser condotto al patibolo.

Atto terzo – le reazioni: vincitori e sconfitti. Dice il commentatore Li: solo il sistema giudiziario vince. Tutti gli altri personaggi coinvolti, le famiglie di vittima e assassino, sono perdenti. Un gruppo di professori del conservatorio dove studiava Yao ha lanciato un appello – inascoltato – per la sua salvezza. Un ricco immobiliarista ha osato scrivere sul suo blog: prego per lui. Provo tristezza nell’ascoltare la notizia della sua esecuzione. È stato immediatamente inondato di commenti critici quando non offensivi, per aver preso le parti di un assassino. Ha dovuto in tutta fretta rettificare la sua dichiarazione, indicando che la sua pietà andava al padre del giustiziato. Che a sua volta ha lamentato l’insensibilità della giustizia: non ha potuto neppure vedere il figlio da morto. Gli è stata resa solo un’urna con le ceneri, dopo la cremazione.

La rabbia popolare non si rivolge alla condanna a morte. Si focalizza soprattutto sull’arroganza delle classi agiate, e approva questa esemplare punizione, a monito di tutti i giovani rampolli che credono di poter risolvere ogni evenienza della vita con il denaro paterno e con la rete di connessioni e aderenze in alto loco. Come dice Li: vince la giustizia, ma perde l’uomo.

venerdì 10 giugno 2011

626

L’ho sempre detto che in Cina 626 è solo un numero come un altro. Basta osservare il factotum che, in piena sicurezza, recupera una paletta gettatagli da sotto, per pulire il tetto del ristorante in cui lavora. Dopo avere funambolicamente raggiunto la piattaforma camminando su un tetto ripido come quello delle baite di montagna, si sporge nel vuoto per richiedere ai suoi compari il lancio di ramazza e paletta. Detto fatto. Un paio di prove fallite per poca mira, ma alla fine il nostro acrobata agguanta gli attrezzi e si accinge a ripulire il lastricato da foglie e sudiciume vario. A otto metri da terra. Imbragature? Elmetto? Soldi sprecati. 626 al massimo in Cina è utile se lo dividi in due numeri, sei e ventisei, e te li giochi al lotto. Un gruzzolo extra fa sempre comodo per pagare le spese ospedaliere degli infortuni sul lavoro.

giovedì 9 giugno 2011

Winning approach

Best way to get a man to do something is to suggest he is too old for it.

La miglior maniera per far fare qualcosa ad un uomo è di avvisarlo che è troppo vecchio per farla.


mercoledì 8 giugno 2011

Chotto matte kudasai

I giapponesi hanno tutta una serie di frasi stampate nel cervello, con le quali ti investono con inquietante frequenza, ossessionati come sono dalla puntualità a tutti i costi e dalla fobia di sprecare del tempo e soprattutto di abusare di quello agli altri. Please wait a moment (un momento dura il minimo indispensabile, e mai più di venti secondi, se no è buon costume reiterare l’invito). Sorry to keep you waiting (detto a un cliente quando arriva il suo turno nella fila. L’impiegato non era fuori a fumarsi una sigaretta, stava servendo gli altri di fronte a te). Thank you for waiting (in altre parole: grazie per avere rispettato un’altra passione collettiva giapponese, la coda).

Sentono la necessità di riempire quegli spazi di conversazione che nel resto del mondo resterebbero vuoti. Non parlare, non scusarsi, non mostrare una magari non genuina ma formalmente ineccepibile cortesia equivale a uno sgarbo pari a rubare il tempo degli altri.

Per favore aspettate un momento. Mi guardo intorno. Evidentemente sono tutti talmente assuefatti ad ascoltare quelle frasi vacue e garbate, che nessuno si mette a ridere. Nessuno pensa al contesto in cui viene pronunciata.

Seduti in un aereo che si accinge a decollare da Shanghai alla volta di Tokyo. Compagnia aerea ed equipaggio giapponese. Il velivolo si sgancia dalla baia, percorre il raccordo che collega alla pista, si accoda ad altri pronti a prendere il volo. Ci si prepara alla rincorsa che lo librerà in aria. Passa un minuto e non succede nulla. Siamo fermi. Una hostess sente il bisogno di rassicurare i passeggeri. Afferra l’interfono e inventa questo gioiello. La pista è temporaneamente congestionata. Per favore aspettate un momento.

Ora, dico io. Siamo tutti imbragati dalla cintura di sicurezza. Non puoi muoverti, non puoi alzarti. Non puoi reclinare il sedile e non puoi aprire il tavolino. Men che meno dire, ah beh, allora se c’è da aspettare quasi quasi scendo un attimo e vado a bermi un caffè.

Aspettate un momento? A fare cosa? A fare brum brum con la bocca e a mimare il pilota che tira indietro la cloche e fa alzare l’apparecchio, come i bambini sulle giostre?

Fantastico. Solo su un aereo giapponese poteva capitare di essere lì, inutilissimo fardello in attesa che qualcuno ti traghetti da un’altra parte, e di sentirsi dire: chotto matte kudasai.

Prima pubblicazione : 14 novembre 2007

martedì 7 giugno 2011

La casa – blindata – di Dio

Praise the Lord and pass the ammunition, cantavano gli americani nella seconda guerra mondiale. I cinesi sembrano aver fatto loro questo motto. Della serie: fidarsi è bene, ma non fidarsi è meglio. Ecco perché sopra il muro di cinta della Chiesa del Ringraziamento di Shanghai sono murati dei cocci di vetro per nulla cordiali. E, ad abundantiam, torno torno alla recinzione corre un bel reticolato elettrificato. Infine, sul gabbiotto dei sorveglianti è piazzata una vistosa sirena con lampeggiante bicolore, rosso e blu, proprio come quelli delle macchine della polizia. Quando è in funzione si apprezza anche da lontano.

Il ladrone buono sulla croce sarà anche andato in Paradiso. Ma un ladro cinese che avesse cattive intenzioni nei confronti di questa parrocchia, ha altre prospettive, certo meno celestiali: o la galera, o l’ospedale!

lunedì 6 giugno 2011

Neologismi 1

Quando la comunicazione si spinge oltre i limiti della fisica, della filologia, del pronunciabile senza andare in carenza di ossigeno come un apneista stremato.

Ma non fermiamoci all’iperbole linguistica. Ogni immagine, ogni fatto dovrebbero provocare un dibattito. Fare riflettere, stimolare la ricerca delle ragioni più profonde, nella speranza – spesso disattesa – che ci siano. E allora nasce una serie di domande, a cui ognuno potrà fornire risposte differenti.

Perché, in un’epoca di irresponsabili guidatori che si fanno un baffo di moniti, segnali, multe, minacce di ritiro punti quando non direttamente patenti, continuando a considerare le strade di casa alla stregua della pista di Imola, degli amministratori pubblici vanno controcorrente e avvisano premurosamente che in questo comune di trappole non ce ne sono, né mai ce ne saranno? Demagogia elettorale? Mancanza di risorse finanziarie di una piccola località? Genuino spirito paternalistico, condito da quel bonario ammonimento, della serie fate i bravi, io non sorveglio ma conto sulla vostra assennatezza?

Intanto continuiamo a leggere ogni fine settimana di gioventù morta contro alberi, palizzate, muri maestri e altri incolpevoli mezzi di trasporto.

Cosa rappresenta quel cartello? L’abbassare le armi, un segno di resa, la capitolazione all’evidenza dei fatti? Ci sta dicendo: tanto non c’è niente da fare, metti pure tutte le trappole che vuoi, quelli continueranno a correre come dei forsennati e a spetasciarsi contro i pioppi. Forse. Ma conoscendo la natura ribelle e irrispettosa degli italiani, abituati a conformarsi – malvolentieri – alle regole solo quando la punizione per la loro trasgressione è certa, io avrei preferito un sindaco più battagliero e meno visionario.

Non siamo maturi – come popolo – per obbedire spontaneamente a cordiali ed innocui inviti. Per contro, sarei felicissimo di apprendere, da amici colà residenti, che proprio in quel borgo la tolleranza ha sortito insperati effetti, azzerando statistiche di incidenti causati dalla velocità.

Ma sono troppo vecchio per non aver già colto la differenza tra sogni realizzabili e utopie. E trasformare gli automobilisti italiani in gente civile rientra nella seconda categoria.


Prima pubblicazione : 18 gennaio 2010

domenica 5 giugno 2011

Neologismi 2

Un caro amico pesarese mi scrive, invitandomi a visitare i suoi album fotografici virtuali. E faccio bene a farlo. Sotto uno stuzzicante titolo “Ceriscioli lavora” trovo una bella serie di immagini delle piste ciclabili della città marchigiana. Ma ce n’è una che adoro immediatamente, per la genialità espressa in ogni dettaglio.

Basta l’apax legomenon in alto ad avvincermi: bicipolitana. Ma estrosa anche la grafica del percorso, con distanze, incroci con le altre linee (ossia le piste), perfino le future, ora in progetto. Quel cartello è frutto di creativi che si meritano tale titolo. Bravo Ceriscioli. Ecco della gente che spende bene i soldi pubblici a loro disposizione. Ce ne fossero, in Italia. Per fortuna io non mi posso lamentare. Anche a Cuneo c’è attenzione verso questo tema. Ne avevo scritto più di tre anni fa, e lo ripropongo volentieri, per celebrare un altro amministratore encomiabile.

Dalla parte della coerenza

A nessuno piace pagare le tasse. Voglio fare l’anticonformista. A me piace pagare le tasse. Al mio comune. Cuneo.

Una volta tanto parliamo bene dell’Italia, quando merita. Cuneo è un posto dove con un deposito cauzionale di ben dieci euro (restituibili alla rescissione del contratto) si può avere una tessera magnetica che ti permette di usare una delle tante biciclette in pool, disseminate in varie parti della città, in qualsiasi momento, se ti viene voglia di una pedalata o per fare commissioni evitando di inquinare con la solita macchina che c’è sempre chi la prende anche per fare duecento metri. Stacchi la bici dal colonnino, fai il tuo giretto e la posi, anche in un parcheggio differente, quando hai finito. Gratis. Ti danno perfino, a corredo del contratto, un cavo d’acciaio lucchettato, per legare la bici in caso di compere. Si chiama Bicincittà, ed ovviamente aderisco a tale salutare progetto.

Oggi, passeggiando per gli stand contigui al traguardo della Stracôni, maratona competitiva e non a cadenza annuale, scopro che c’è una nuova iniziativa, il progetto Giù le mani!. Pagando una modestissima mercede, ottieni un adesivo da applicare alla tua personale bicicletta, che viene nel contempo registrata in un’anagrafe generale dei cicli. In caso di furto, chi la ritrovasse può chiamare un numero verde riportato sull’etichetta, avere una ricompensa garantita di almeno 20 euro (o di più, a discrezione del proprietario), vedere il proprio anonimato garantito e fare un gesto di civiltà e di buona convivenza. È bello credere che ci sia ancora gente così in giro.

Tutti questi sono bei gesti, indici di una sensibilità nei confronti della comunità da parte dei nostri amministratori locali. Ma sapete perché mi spingo a fare dichiarazioni bizzarre come il provar piacere nel pagare le gabelle comunali?

Per un esempio. Più di una volta mi è capitato di vedere transitare sotto casa, all’ora dell’uscita dal palazzo comunale, il sindaco Valmaggia in giacca e cravatta – tenuta confacente alle riunioni del consiglio – in sella alla sua bicicletta, diretto a casa sua. La prima volta, sorpreso da tale inaspettata apparizione, l’ho fissato, e c’è stato perfino un fugace saluto reciproco. Mi piacciono queste cose. Mi fanno sentire che ci sono ancora dei responsabili della cosa pubblica che si spingono oltre il concretizzare delle buone idee. Danno addirittura l’esempio, mettendo in pratica in prima persona quello che la cittadinanza è invitata a fare.

Non conosco di persona il nostro sindaco, se non per quel rapido buongiorno scambiato mentre pedalava verso casa. Riporto questo fatto per il puro piacere di testimoniare che ogni tanto, perfino in Italia, ci sono dei piccoli avvenimenti dei quali essere orgogliosi.

Sono schierato? Sì. Dalla parte della coerenza.

Prima pubblicazione : 10 novembre 2007

venerdì 3 giugno 2011

Basta

Mattia Veschi. Quindici anni, una vita sul nascere, troncata dall’ennesimo assassinio idiota. Nettuno, domenica criminale. Un romeno ubriaco, alla guida di un’auto con l’assicurazione scaduta, lo travolge e uccide. E scappa. Lasciando un ragazzo morto, lì, sull’asfalto, la bicicletta lanciata lontano. Poi, sentendosi braccato, si costituisce. Due giorni in guardina, e subito un giudice di Velletri lo scarcera.

Qualcuno mi deve spiegare perché io non posso portare nemmeno una limetta per le unghie o un tubetto di dentifricio su un aereo, e potrei venire arrestato se insistessi per farlo, mentre invece nessuno arresta chi insiste a salire – senza averne il pieno controllo, essendo criminalmente e dolosamente incapacitato – su qualcosa che pesa almeno una tonnellata, viaggia a cento e passa all’ora, è in grado di sfondare un muro di una casa, figuriamoci cosa può fare a un ignaro ragazzo in bicicletta. E intendo dire questo: arrestarlo PRIMA che uccida qualcuno, non dopo, che ormai è troppo tardi.

Perché si deve continuare a leggere di ubriachi al volante che ammazzano, straziano famiglie, strappano speranze e futuro a dei genitori impotenti? E poi perché c’è sempre qualche giudice che due o tre giorni dopo manda fuori questi assassini? Qualcuno mi risponderà: perché – semplicemente – sta applicando la legge. Allora è una legge del cazzo, questa. Questa sarebbe una legge da abrogare, cambiare, rovesciare, non le tante altre fatte ad personam dalla ineffabile legislatura che ci governa (?). E urgentemente, senza aspettare che ci sia il prossimo morto, le prossime lacrime autentiche dei parenti e di coccodrillo della stampa, la prossima ipocrita scarcerazione.

Sento che Matteo Renzi, sindaco di Firenze, si sta muovendo in questo senso. Ha lanciato una campagna per creare il reato di omicidio stradale, per aggravare le pene di chi uccide alla guida, per lottare contro ubriachi e drogati al volante. Bene, bravo. Tutto il mio appoggio, per quel che valga. È un inizio, ma non basta. Bisogna prevenire, non curare. Specie perché spesso, troppo spesso, non c’è più nulla da curare, ma solo da seppellire l’ennesima vittima e cercare di far sopravvivere dei parenti straziati da una perdita così ingiustificabile.

Questa non dovrebbe essere una battaglia politica, ma civile. La destra si schiera sempre con posizioni forti contro questi episodi. A ragione, perché meglio una voce solitaria che il silenzio assordante di certa sinistra. Per questo plaudo a Renzi, uomo schierato a manca. Perché da destra si pretendono punizioni estreme, e solo l’infinita e inenarrabile rabbia di una madre a cui è stato strappato un ragazzo quindicenne può spiegare – e perfino giustificare – il suo invocare la pena di morte per l’assassino di suo figlio. Ma spesso nelle dichiarazioni dei politici c’è un vago, indefinibile eppure presente sentore di xenofobia. Anche perché è un dato di fatto: gli assassini ubriachi al volante sono più di frequente stranieri. Perché l’Italia è considerata il paese del bengodi, dove puoi fare quello che ti pare, tanto la sfanghi sempre.

Cosa serve? Che non ci sia alcun distinguo, che chi uccide, italiano o straniero, sia punito alla stessa maniera, e soprattutto che ci sia la certezza della pena. Chi governa, chi amministra, chi legifera, dovrebbe fare leggi non sull’onda emozionale del fatto clamoroso, ma dosando razionalmente la punizione in base al crimine, con in mente il benessere della società, di ogni individuo della società.

Non è la prima volta che scrivo su questo tema. Vorrei che fosse l’ultima, ma so che è un’illusione. Per questo continuo a parlarne, ad arrabbiarmi contro l’ingiustizia del non prevenire morti crudeli e evitabili. Per questo ho firmato, e invito tutti a farlo, l’adesione all’iniziativa di Renzi. No agli omicidi stradali. Perché non ci siano più una madre, un padre, un fratello, una sorella che debbano affrontare quello che stanno patendo oggi i parenti di Mattia.

Firmate qui. Per favore. Domani potrebbe essere il vostro, di figlio.

giovedì 2 giugno 2011

A piedi nudi nel parco

Stupendo campionario di espressioni di gente attorno a una coppia agli sposini. Lei con i piedini nudi quasi arricciati dall’emozione, che sembra sgambettare felice del raggiunto traguardo. Lui un po’ sciatto e con degli orridi calzini bianchi. Una coppietta li osserva, lei con espressione trasognata, lui scettico ma gentile – le porta perfino la borsa, come cambiano i tempi in Cina! Sulla sinistra, una signora pensa ai fatti suoi, acquattata come solo gli orientali riescono a fare, tacchi a terra, muscoli delle gambe iperestesi. Provate a starci voi due minuti in quella posa. Eppure loro sembrano comodissimi seduti così. A fianco, una turista – riconoscibile più che dal colore dei capelli dal classico bicchierone del caffè all’americana – fotografa il momento romantico (ma privo di ogni segno d’intimità, i cinesi non manifestano in pubblico i propri sentimenti). In secondo piano, un’inguardabile sagra del pois, bottiglie d’acqua rigorosamente tiepida a portata di mano per combattere l’improvviso caldo, un altro sposino in farfallino nero attende il suo turno per le foto di rito, la gente si muove cauta, attenta a non scivolare dallo stretto pontile di legno. Il piccolo gargoyle zampilla indifferente dalla bocca il suo getto d’acqua nel laghetto. Tutto, intorno, è così verde che non sembra neppure di essere in centro a Shanghai, una limpida domenica pomeriggio di primavera.

mercoledì 1 giugno 2011

Non guadagnano abbastanza?

È la domanda che mi nasce spontanea quando leggo dell’ennesimo scandalo scommesse che scuote e contamina il nostro infangato calcio. Gente che vende partite, gente che punta in una botta sola ciò che un operaio impiega anni a guadagnare, gente che somministra calmanti ai colleghi per addomesticare risultati, mettendo nel contempo a repentaglio la loro salute.

Non sarebbe quasi l’ora che il popolo tifoso si svegliasse dal coma e dicesse basta a questo sporco business travestito da sport? Ma si sa, panem et circenses, senza quelli la gente magari comincerebbe a pensare.

Vengo preso dallo schifo per l’ipocrisia di certe dichiarazioni – uno dei coinvolti, rivolto ai giornalisti: abbiate pietà. Abbiate pietà? La pietà è un sentimento che si applica per tutt’altri eventi. Pietà fanno i disperati che fuggono da un’Africa affamata e in guerra, e cercano una sopravvivenza in Europa, rischiando di morire in mare. Pietà si prova per i bambini torturati e uccisi dai regimi mediorientali. O per i morti di mille guerre non dichiarate, scomodi danni collaterali di bombe a torto definite intelligenti. Pietà per un ex calciatore coinvolto in combines che muovevano capitali milionari da tasche non integerrime ad altre magari peggiori? Per favore.

E per ricordare che c’è calcio e calcio, alle nostrane brutture voglio contrapporre un racconto edificante, scritto un paio d’anni fa, che narra di ingenuità e passione: virtù ormai dimenticate e forse perfino ridicolizzate dai nostri pedatori, professionisti per titolo ma non per serietà.

Fotografare un’emozione

Non m’interesso di calcio. Mi interesso di emozioni. E ci sono immagini che sanno raccontare un’emozione meglio di mille parole.

Nella stessa settimana sono accaduti due episodi che, mescolati insieme come un valente croupier farebbe con un mazzo di carte, odorano minacciosamente di déjà vu.

L’Italia pallonara (siamo solo i campioni del mondo, ma tendiamo a scordarcelo, salvo quando si tratta di negoziare gli ingaggi nei contratti) perde uno a zero con l’Egitto che, pur eccellente in Africa, non è certo uno squadrone tipo il Brasile. I giornali, sfruttando il luogo comune geografico, titolano quasi in coro: le mummie siamo noi. Lippi riesce a fare dell’umorismo, lui che di solito è parco di sorrisi, ribattendo che anche le mummie a volte si sbendano. Mandiamogli delle forbici, al buon Marcello: ne potrebbe aver bisogno.

Qualcuno, già avanti nell’età come me, si ricorda ancora di una calda serata d’estate di quarantatre anni fa. Era il diciannove luglio del '66, e la radio gracidava notizie sconsolanti e sbalorditive di un'Italia sconfitta da degli sconosciuti extraterrestri arrivati fino in Inghilterra, all’ormai demolito Ayresome Park, giusto in tempo per beffare la nazionale di Rivera e Mazzola, sicura di scendere in campo per una sgambatura.

Mercoledì scorso la nemesi dell’Italia del 1966, la cenerentolissima Corea del Nord che ci sconfisse con il celebre gol di Pak Doo Ik, si qualifica ufficialmente per la fase finale del campionato prossimo venturo, con un pareggio senza reti in casa dell’Arabia Saudita. Gli eredi dei dilettanti che rimandarono ignominiosamente a casa i ragazzi di Edmondo Fabbri, accolti con lanci di pomodori all’aeroporto di Genova, si ripresenteranno sulla ribalta mondiale il prossimo anno, dopo 44 anni di assenza.

Mentre la Repubblica Democratica Popolare di Corea (questo è il suo nome ufficiale, e l’esperienza insegna che più gli stati si autoproclamano democratici e meno lo sono) lancia velate e torve minacce di futuri olocausti nucleari se qualcuno oserà ancora rimbrottarla per i suoi test balistici e per gli esperimenti atomici sotterranei, i suoi giovani rappresentanti calcistici danno una dimostrazione di entusiasmo quasi infantile, al termine dell’incontro che garantisce loro il Sudafrica. Mille miglia lontano dagli atrofici e inespressivi portamenti della nomenclatura militare che sempre circonda – servile e sinistra insieme – il presidente Kim Jong Il.

Spesso i popoli san dimostrarsi migliori dei rispettivi governanti. Questi calciatori, descritti dagli sponsor cinesi che li dotano di maglie e calzoncini come persone frugali (e già in Cina i giocatori di calcio non sono gli dei intoccabili, viziati e strapagati ai quali siamo abituati noi), esibiscono le doti che fanno del calcio uno sport vero, e non l’indecoroso business che è in Italia: allegria, senso del gruppo, condivisione della gioia. Anche nella Corea del Nord, guardate un po’ cosa ci insegna il football, c’è gente con un cuore.


Prima pubblicazione : 21 giugno 2009