sabato 31 dicembre 2011

Com’è profondo il mare

In pochi posti si ha una sensazione di infinito come qui. Sembra di essere ai confini del mondo. Ed è vero. La prima terra – il Cile – è a oltre ottomila chilometri. Mare a perdita d’occhio, e quando la vista si è stancata di guardare, ancora e ancora mare. Ecco l’Oceano Pacifico Meridionale, da un piccolo villaggio appena a sud di Sydney.

Una distesa blu talmente immensa, maestosa, incommensurabile, da farti sentire piccolo e insignificante. Eppure sereno. Un prato ventoso, il cielo terso dell’inverno australe, due bambini che giocano, uno stormo di gabbiani appiedati dalle folate tese che arruffano le piume e spingono ad elemosinare briciole dagli sporadici umani.

Ci sono posti nel mondo che hanno il potere di farti sentire in pace con te stesso. Questo – per me – è uno. Un augurio di fine anno a tutti perché ognuno possa trovare questo luogo speciale, in giro per il mondo o dentro al proprio cuore.


Buon 2012!


giovedì 29 dicembre 2011

Addio, dolce amico

Dedicato a tutti quelli che credono i cinesi capaci di mangiarli soltanto, i cani. Un soldato, Fan Yaozong, alla fine del periodo di ferma si accomiata dal cane poliziotto che ha accudito finora. Novembre e dicembre sono i mesi del congedo dei veterani, che tornano a casa dopo aver assolto il servizio militare. Un addio pieno di affetto e di tristezza. Ancora una volta l’immagine vince sulle parole. Quelle mani, quello sguardo, non mentono. Né saprebbe farlo il cane, che elargisce confidenza ed amore solo a chi sa conquistarli. Chi ha avuto un cane – e lo ha perduto – sa di cosa parlo.


Prima pubblicazione : 26 novembre 2009

mercoledì 28 dicembre 2011

Mala tempora currunt

Periodo di assoluta incertezza. Basteranno le draconiane misure del governo Monti a salvare l’azienda Italia dal collasso? L’economia trema, i consumi sono al lumicino, l’auto non tira, l’edilizia langue. Guardate un po’: perfino i solitamente risoluti tubolari di solido acciaio sono inquieti, in apprensione. Facciamo qualcosa, che so io, diamogli del Prozac. Oppure, a scelta, offriamo un dizionario al redattore del cartello.

martedì 27 dicembre 2011

Danzando nella pioggia

Si preannunciava una mattinata piena di lavoro. Alle otto e mezzo si presentò un signore sull’ottantina, per farsi togliere dei punti da un pollice. Disse che era un po’ di fretta, perché aveva un appuntamento alle nove.

Lo invitai a sedersi, sapendo già che difficilmente qualcuno lo avrebbe visitato prima di un’ora. Lo vidi guardare l’orologio con impazienza e decisi di esaminare subito la sua ferita.

Era in via di guarigione, così parlai con uno dei dottori, ottenendo il benestare per rimuovere i punti e medicare il dito.

Mentre lo accudivo, mi informai se avesse una visita da un altro dottore, visto che sembrava così irrequieto. Mi rispose di no. Doveva andare in una casa di cura, a far colazione con sua moglie.

Gli domandai perché fosse lì. Mi disse che era lì ormai da tempo, vittima del morbo di Alzheimer. Continuando la nostra chiacchierata, chiesi se lei si sarebbe arrabbiata per un suo ritardo. Mi replicò che erano ormai cinque anni che lei non riconosceva più nessuno, e che non sapeva neppure chi fosse lui.

Sorpresa, gli dissi: e lei va lì tutte le mattine, anche se sua moglie non sa più chi è?

Sorrise, sfiorò dolcemente la mia mano e rispose: lei non sa chi sono, ma io so ancora chi è lei.

Mentre se ne andava feci fatica a trattenere le lacrime, avevo la pelle d’oca e pensavo: Ecco l’amore che vorrei ricevere nella mia vita.

Il vero amore non è né quello fisico, né quello romantico. Il vero amore è l’accettazione di ciò che è, che è stato, che sarà, e anche quello che non sarà.

Le persone più felici non necessariamente hanno il meglio di ogni cosa. Semplicemente riescono ad apprezzare al meglio ciò che hanno.

La vita non è sopravvivere alla tempesta, è sapere danzare nella pioggia.


Ancora una volta, Rids, mio consigliere spirituale, hai saputo – da lontano, ma ti sento vicinissimo – sorprendermi con un racconto denso di emozione e di significato. Da ormai dieci anni hai fatto capolino nella mia vita, offrendomi spesso parole speciali. Buona vita, mio faro di serenità.


Prima pubblicazione : 12 dicembre 2009

lunedì 26 dicembre 2011

Mi manca l’aria

Il provinciale se n’è andato, discretamente, come è d’uso tra questa gente taciturna, di pochissima apparenza e molta sostanza.

Giorgio Bocca, cuneese, classe 1920, partigiano, cronista. Un maestro votato al minimalismo, in una società dedita all’autocelebrazione, alla boria, all’ignoranza.

Quando gli fu chiesto di cosa sentisse più la mancanza della natia Cuneo rispose, con la semplicità di raffigurazione propria dei grandi : mi manca l’aria.

Ho voluto riscoprire questa essenziale verità, facendo una passeggiata sotto i portici quasi deserti. L’aria era pura, rarefatta quasi. Chiara e profumata come solo in montagna d’inverno.

Una giornata così meritava qualche scatto. Ti offro la tua terra, comandante – e perdona se non sono stato capace di fotografare quell’aria che ti mancava. Troppo limpida, pulita, trasparente. Invisibile. Ma tu sai com’è.

venerdì 16 dicembre 2011

Dirty Harry colpisce ancora

Chi era Gianluca Casseri? Un ragioniere con l’ossessione del giustiziere Dirty Harry Callahan. Leggendo la cronaca di un delitto che stava germogliando sotto il fertile humus dell’intolleranza e della ristrettezza mentale, mi è corsa la memoria ad un racconto scritto tre anni fa, di una vicenda per certi aspetti simile. Collocazione: Tokyo, Giappone. Tema: alienazione criminale. Ho provato un brivido freddo nella schiena rileggendo l’inizio. Avevo descritto Kato, il protagonista, come un ragioniere dell’omicidio. Casseri era un ragioniere. Dell’omicidio. Cambiano le ambientazioni, ma le storie si ripetono con inquietanti analogie. Nessuno è al sicuro dalla follia di questi ragionieri assassini.

Pulizia finale

Ma che cosa è che fa scattare la molla della follia? E soprattutto, cosa è la follia? In questo caso, la lucida, ossessionante precisione di un ragioniere dell’omicidio. Tutto premeditato, studiato e ripassato nei minimi dettagli. Una paranoica cronaca in diretta, anzi un trailer del film reale che stava per accadere. Quell’angosciante sfalsamento della percezione di ciò che è reale e ciò che è virtuale, che ha portato Tomohiro Kato, aspetto dimesso da travet più vecchio dei suoi venticinque anni sprecati, a pubblicare una serie di messaggi su un sito internet di messaggerie per telefoni cellulari. Cominciando prestissimo la sua giornata di improvvisa e tragica notorietà di accoltellatore casuale, alle cinque e mezzo di domenica mattina, quando sette suoi concittadini forse dormivano ancora il sonno del giusto, del tutto ignari che quello sarebbe stato il loro ultimo giorno.

L’ossessione della precisione, della puntualità, della perfetta organizzazione si evidenzia anche in questo sciagurato figlio di una società ultracompetitiva, dove fallire è peccato mortale, dove avere conta più che essere, dove quando salta il coperchio ermetico della pentola a pressione dove bollono convenzioni, inibizioni e self control, allora sono dolori.

Lo aveva scritto già dalla mattina presto, che sarebbe andato ad Akihabara, quartiere denso di negozi di elettronica, per uccidere a caso. Continuando ad intervalli regolari la profezia della sua demente impresa, lamentandosi delle avverse condizioni meteorologiche. Pure la pioggia ci si mette, possibile che uno non possa programmare in santa pace una strage? Ho noleggiato il furgone, ormai vado avanti, sole o maltempo. Che traffico orrendo. Chissà se arrivo puntuale (sic!!!). L’ultima comunicazione, laconica come un bollettino di guerra, alle dodici e dieci, venti minuti prima del misfatto: è l’ora.

Non ci credo, che nemmeno uno abbia letto, in più di sei ore, quella serie di farneticanti messaggi, quella vera cronaca di una morte annunciata, e non abbia pensato, e se telefonassi alla polizia?? Ha forse prevalso l’apatia, il non curarsi del prossimo, il non sono fatti miei, stiamo alla larga dai guai e gli altri si arrangino? È ben possibile. Quando si pensa che un negoziante, testimone della follia in un pomeriggio piovoso e afoso nel centro di Tokyo, ha avuto il coraggio di affermare, avrebbe dovuto farlo nel suo paese, non venire fin qui ad ammazzare. Certo, sarebbe toccato a qualcun altro, ma chi se ne frega. L’importante è che il business non soffra.

In una nazione dove le armi da fuoco sono rigidamente controllate, gli eredi dei samurai del tempo dello shogunato subiscono sempre lo scintillante fascino delle lame, dalle katane rituali ai coltelli di ogni foggia e dimensione. La casuale mattanza di Akihabara non è un fatto isolato, anzi. Solo dall’inizio dell’anno è già il terzo episodio. Dal ’99 ad oggi è l’undecimo, per un totale di 32 morti e 58 feriti. Solitamente gli assassini sono giovani, e sconcerta che alcuni siano addirittura minorenni. Le vittime vanno dal bimbo di scuola elementare al settantenne.

Psicologi e criminologi si chiedono se non sia colpa dei genitori, sentenziando: invece di accusare sempre quell’intangibile mostro che è la società, sarebbe il caso di insegnare ai propri figli più self control, più accettazione del fatto che la vita non è tutta rose e fiori, e soprattutto viziarli di meno.

Da noi magari ci sarebbe chi dice, poverino, non è tutta colpa sua. È colpa del lavoro temporaneo (oggi va di moda dire interinale) sottopagato, è colpa dei falsi miti che creano disillusioni e rabbia, è colpa della società (e dagli!) che non offre opportunità adeguate ai gusti di tutti; si capisce che prima o poi a qualcuno, più fragile o deluso degli altri, gli dà di volta il cervello.

Segue processo con richiesta di attenuanti, avvocati che invocano la temporanea infermità mentale (uno straordinario escamotage per giustificare qualsiasi nefandezza, quando l’ho fatto non ero io, non sapevo quello che facevo, non ricordo nulla, mentre ora – guarda caso – sto benissimo), interviste e reportage fotografici assicurati presso le più note riviste scandalistiche (volevo dire: di costume).

Ieri sera, tra un sushi e un sashimi, butto lì l’argomento, ancora fresco di cronaca, con il mio consueto interlocutore. Che succede ora, gli domando. Fa un eloquente gesto con l’indice della mano destra, che rapido attraversa in orizzontale la gola. Gulp. Quasi dimenticavo che nel civilissimo Giappone c’è ancora la pena di morte. E non tanto per dire. Fanno sul serio. Come a Singapore, i reati capitali sono puniti con l’impiccagione. C’è un’omertà legalizzata sui processi che si concludano con la massima sentenza. Al punto che i giornali non sono autorizzati neppure a pubblicare i nomi dei condannati. Per proteggere la privacy della famiglia del giudicato, è la farisaica spiegazione ufficiale. Ma la sensazione è che valga il vecchio concetto che i panni sporchi si lavano in casa, senza tanto clamore o pubblicità, che si rischia di fare brutta figura con quegli impiccioni di stranieri, sempre pronti a giudicare, a sbandierare cartelli di protesta, a far la morale agli altri. Lasciateci ammazzare chi ci pare, che se lo merita. Presto, passami la candeggina, che dobbiamo smacchiare l’onta. Pulizia finale.

La società giapponese ha l’ossessione di essere sempre linda, ordinata, armonica. Le poche, deleterie mele marce si levano, anzi si estirpano dal cesto con gesto noncurante, fischiettando indifferenti, mentre gli altri sono girati dall’altra parte. Il gesto che apre una botola sotto i piedi, che restaura l’ordine costituito, purifica dalle malefatte e rinvergina, fino alla prossima volta, una nazione che ha la costante ma irraggiungibile pretesa di essere perfetta. Mentre, come si sa, la perfezione non è di questo mondo. Qualcuno bisognerà pur che si decida a farglielo presente ai giapponesi che, volenti o nolenti, anche loro fanno parte di questo imperfetto pianeta.

Prima pubblicazione : 10 giugno 2008

mercoledì 14 dicembre 2011

Candid camera (ritratti al naturale)

Ecco il monaco classico, come lo vuole l’iconografia ufficiale – non avesse avuto gli occhiali somigliava vagamente a Gandhi. L’architetto del tempio in compenso doveva avere dei parenti pisani...


Ma abbiamo anche versioni più moderne: il monaco tecnologico, munito di macchinetta digitale; ha appena finito di ritrarre un confratello, e controlla il risultato.


Poi abbiamo anche il monaco trendy. Non quello che si sgargarozza una bottiglia fino all’ultima goccia, l’altro, con una vezzosa sportina di Hello Kitty, onnipresente gatto giapponese.


È mai possibile che i turisti non abbiano nemmeno un po’ di rispetto per due sposini che stanno pregando Buddha? A momenti il buzzurro coi pantaloni al ginocchio, per passare a tutti i costi, gli ribalta pure le scarpine da cenerentola... Cosa gli costava aspettare due minuti, dico due? (Vendetta personale perché mi ha anche rovinato un bello scatto!)


Mentre i neo-coniugi pregano, damigelle infiorate e damerini accaldati e svagati attendono l’ora dell’universale rito post-nuziale: la foto di gruppo.


Un gatto si gode un pisolino, perfettamente incastrato tra le mille carabattole di una vetrina. A proposito, amici francesi: vi risultava già che Alain Delon si fosse messo a firmare sigarette (pacchetto rosso in basso sulla destra)? In Cambogia se ne vedono a iosa, ma mai trovate in altre parti dell’Asia. In Francia ci sono?


Questo cane dormiva beato davanti ad una piccola stazioncina di polizia. Cosa c’è di strano? Che riuscisse a dormire, con due poliziotti, spaparanzati sulle amache, che russavano fragorosamente a due metri da lui...


Le scimmie sono una fonte inesauribile di divertimento. Perché ci assomigliano un sacco. Attori naturali, e comici involontari: non mi ricordo se il dottore mi aveva detto che il cocco mi faceva male. O erano i baccelli? Mah...


Mi farà anche male, ma senti quanto è saporita la polpa del cocco... Chissà poi perché le cose più buone, i dottori dicono sempre che sono veleni per la salute...


Però aveva ragione, il dottore... Tutte le volte che mangio il cocco mi viene un prurito sotto le ascelle...


Dica trentatré. Dottore, è grave? No, non è niente, solo un po’ di bronchite. Eviti di saltare da un ramo all’altro per qualche giorno, e si ricordi, niente cocco.


Allora, vediamo un po’ come vanno queste emorroidi... Ahi ahi ahi, glielo avevo pur detto di non mangiare piccante! La smetta di rubare il pollo al curry ai turisti indiani, se no non guarirà mai!


Prima pubblicazione : 12 gennaio 2009

martedì 13 dicembre 2011

Viaggiare informati (estrosità cambogiane)

Quando vedete questo cartello, date retta: non importa se arriva da destra o da sinistra; dategli la precedenza comunque. Vi conviene. Anche se viaggiate in un Hummer. Perché lui è più grosso.


Sempre a proposito di mezzi di trasporto: godetevi questo bel paio di contromano del mio autista di tuk tuk, uno su una strada a senso unico, l’altro su una bella arteria a tre corsie per lato. Un artista!


E infine. Vi fidereste a salire su un autobus dove c’è scritto: assicurazione per i passeggeri compresa? Brrrrr!!


Come si fa benzina in Cambogia? In città, pagando in dollari americani. Notate dai contatori che c’è gente che fa un litro o due. Mi sarebbe piaciuto vederli. Vanno lì con una bottiglia dell’acqua?


Questa invece è una pompa volante, per la miscela delle motorette. Bidone, ombrellone, sdraio. Voilà. Era appena fuori dal mio albergo, la mattina dopo, giuro, non c’era più.


Poi nei villaggi si passa alla versione più... rustica. Bottiglie da bibita per grandi viaggi, quelle da whisky per tragitti più brevi!


Ma chi è Alberto Tomba? Questi hanno nel DNA lo slalom. I paletti sono le auto, i pedoni, le altre moto. I cani non valgono, non stanno mai fermi...


Non so dove fosse il poliziotto, se no gli avrei chiesto: ma scusi, se succede qualcosa a un cambogiano lei non interviene? Mai vista la “polizia turistica”. E il casco sponsorizzato? Notare: la moto è cinese, non giapponese...


Prima pubblicazione : 10 gennaio 2009


lunedì 12 dicembre 2011

... e mostri di oggi

Non bastano i fantasmi di un passato infame e inenarrabile. Ci si mette anche lo sconcio dei mostri di oggi, che vengono da lontano, a rovinare un’altra generazione di cambogiani.

Il sesso con i bambini è un crimine, proclama la pagina di controcopertina delle piantine turistiche distribuite negli alberghi di Phnom Penh e Siem Reap. Con tanto di foto eloquente e poche, essenziali statistiche sul fenomeno: almeno 940 adulti sono già stati incarcerati per tale reato. Chi ha rapporti sessuali con minorenni rischia fino a venti anni di carcere in Cambogia, ed è perseguibile anche se si rifugia nella nazione d’origine.

Nonostante la formale condanna di tali pratiche abiette, ci sono ancora delle possibilità che uno straniero colto sul fatto riesca a farla franca, lasciando il paese alla chetichella, dopo essersi comprato la strada di casa a suon di mazzette a giudici e poliziotti compiacenti. O pagando il silenzio delle vittime, spesso con l’aiuto dei prosseneti che gestiscono
tale sporco traffico.

Ma qualcosa, faticosamente, si sta muovendo. Oltre che in Cambogia, anche in Tailandia, Myanmar, Indonesia, Filippine, Vietnam le autorità negli ultimi anni hanno arrestato dei turisti sessuali per aver abusato di bambini locali. I criminali sono di nazionalità tedesca, inglese, belga, italiana, indiana, cinese, sudcoreana e australiana. Proprio un bel campionario.

Gli attivisti dei gruppi per la difesa dei diritti dei bambini sostengono che comunque le pene per chi li sfrutta sessualmente non sono commisurate alla gravità del reato. Pochi mesi fa è stato rilasciato l’inglese Gary Glitter, vecchio rocker in disarmo di 64 anni, dopo aver scontato due anni e nove mesi in Vietnam per aver abusato di due bambine di 11 e 12 anni. Il lupo perde il pelo ma non il vizio, è proprio il caso di dire. Nel 2002 era stato espulso dalla Cambogia per aver cercato di ottenere prestazioni sessuali da ragazzine minorenni. Per fortuna i veli di omertà si stanno squarciando, facendo luce su questi episodi. Saldato il suo debito con la giustizia, Paul Francis Gadd – alias Glitter – è stato espulso dal Vietnam e sia la Tailandia sia la Cina gli hanno rifiutato l’ingresso sul loro territorio. Bene. Cominciamo finalmente a fermarli prima che facciano dei danni. Non dopo che lo sconcio è stato compiuto.

Phnom Penh, passeggiata lungofiume piena di bar, ristoranti, localini, pub per forestieri. Mi guardo intorno, al calar della sera. Ecco palesarsi una fauna particolare, che non si sa dove trascorra la giornata ma che, come le iene e gli sciacalli, appare all’imbrunire e preda di notte. Le dignitose bestie hanno perlomeno una funzione sociale di selettori naturali e di netturbini della savana. Non i maledetti bipedi, carnefici di un’innocenza troppo indigente per sapersi opporre all’oltraggio.

Pedofili? Hanno un’età che vorrebbero mascherare e, se potessero, fermare come Dorian Grey. Esibiscono grottesche, desolate capigliature tinte di rosso tiziano o di malsano nero corvino. Vestono canotte d’imitazione giovanile, scoprendo braccine flaccide dalla pelle vizza e cadente. Ostentano tatuaggi, borchie, catenelle ed altro ciarpame più adatto ad adolescenti ribelli che non a laidi pensionati alla ricerca di carne giovane. Gesticolano, sfoggiando sorrisi falsi e meteci e pieni di aspettative, all’indirizzo di giovani camerieri, che mal sopportano quel confidenziale allungarsi di mani mentre ricevono l’ordinazione di una bevanda madida, da consumarsi lì per lì, fumando sigaretti affusolati e speziati, mollemente adagiati nel vimini coloniale delle poltrone sulla promenade del fiume Mekong. Forse solo il timore di perdere un posto che frutta in mance più di un risicato stipendio impedisce a quei ragazzi di reagire, e di spiegare con chiari esempi dove se le dovrebbero ficcare quelle manacce quei maiali pervertiti.

Ma è davvero così, o sto vaneggiando, suggestionato da locandine e giganteschi manifesti per strada che invitano alla segnalazione di comportamenti sospetti? Magari quelli non sono veramente pedofili, ma soltanto patetici anziani che non si arrendono all’inesorabile passare del tempo. Forse sono io che me li immagino così, ed invece poi gli autentici predoni di fanciullezze umiliate sono gente insospettabile, il classico vicino di casa buongiorno e buonasera che poi tutti fanno le facce stuporose e dicono ma come sembrava una così brava persona.

Sento la rabbia montarmi dentro, pensando a ciò che rubano questi farabutti. Predatori di innocenti. E seminatori di diffidenza. Per colpa loro, sono costretto delle volte a pensarci due volte, prima di fare un sorriso, un complimento, una carezza ad un bambino, mai qualcuno equivocasse, mai una mamma ansiosa mi guardasse storto, mai mi dovessi sentire apostrofare scusi lei come si permette. Perché un uomo non è più libero di manifestare i propri sentimenti nei confronti di creature che suscitano dolcezza ed allegria? Perché ci viene sottratta la gioia di condividere l’innocenza spontanea dei bambini? Perché ci deve essere l’ombra maligna del sospetto su tutti, indistintamente? Perché io stesso, vedendo un turista giapponese fotografare quattro marmocchi cambogiani che sguazzano spensierati in un laghetto, non riesco a scacciare il tarlo, sarà un appassionato alla ricerca dello scatto da concorso o un pedofilo? Maledetti bastardi, ci inquinate il cervello con le vostre azioni ripugnanti.

In Cambogia, i mostri di ieri erano assassini e torturatori. Quelli di oggi non sono migliori. Io proporrei una nuova norma: cella comune per il pedofilo sorpreso all’opera. La legge non scritta – ma non per questo meno inflessibile, e certamente di più garantita applicazione – del carcere gli farebbe passare qualsiasi voglia di ritornarci una seconda volta, per lo stesso reato.

Invece di raccontarci fregnacce insultanti come quanto ha speso andando per boutiques la signora Beckham in un fine settimana a Milano (per la cronaca, centomila euro, meritandosi un posto nella rubrica vergogniamoci per loro), l’ammontare della multa di un calciatore che si è presentato in ritardo al raduno, la lunghezza delle code per raggiungere outlet in vena di sconti e regalie, o come, dove e con chi hanno trascorso il capodanno i vip (ora un bel chi se ne frega non ci sta bene?), che si parli, sui giornali ed in televisione, del dramma delle vittime della pedofilia. Si crei consapevolezza. Si formi nell’opinione pubblica la coscienza che la violenza sessuale su un minore crea danni spesso irreparabili nella sua psiche, per non parlare del fisico. Fermiamo questi mostri, dovunque siano in agguato. Hanno già fatto empietà a sufficienza. No alla pedofilia. Subito.

Prima pubblicazione : 9 gennaio 2009

domenica 11 dicembre 2011

Macellai in guanti bianchi

I miei più vecchi lettori (temporalmente, non d’età) sanno che ho poche, ma ricorrenti fissazioni. Una è la lotta senza quartiere all’idiozia umana che porta a bere alcolici e poi a guidare una macchina (e purtroppo spesso ad ammazzare degli innocenti). Un’altra è la condanna senza mezzi termini della ripugnante sconcezza chiamata pedofilia. Poi c’è la passione per certi sport minori (almeno, da noi sono tali), tipo il rugby, e l’idiosincrasia per l’osannato pallone (sferico).

Infine c’è Sea Shepherd. Le sue lotte contro la dissennata caccia alle balene e ai delfini. Contro l’incongruenza di un sistema che formalmente proibisce tali stragi, salvo offrire la comoda scappatoia della “ricerca scientifica”. Contro chi, forte di potere economico e carico di arroganza, pratica una caccia illegale ed in territori marini protetti, santuari di riproduzione violati degli arpioni esplosivi della flotta mercantile nipponica.

Se non puoi sconfiggerli faccia a faccia, devono aver pensato i cinici responsabili di tali stragi, attaccali al fianco, quello scoperto e potenzialmente debole, con un espediente che si chiama citazione in tribunale. Così la Kyodo Senpaku Kaisha, armatrice (in più di un senso) delle navi baleniere, insieme con l’Istituto per la Ricerca sui (o dei?) Cetacei – che nome pomposo, vero, per una macelleria formato gigante – hanno chiamato in giudizio negli Stati Uniti la Sea Shepherd Conservation Society ed il suo fondatore e uomo simbolo Paul Watson, per cercare di far proibire la loro interferenza nelle consuete attività di caccia alle balene.

Queste bestie devono proprio valere un bel gruzzolo, se i succitati signori hanno potuto investire qualcosa come trenta milioni di dollari in una guerra legale contro chi si prodiga – e con successo – per impedir loro di razziare, stagione dopo stagione, i Mari del Sud. Sea Shepherd afferma che tali ingenti capitali sono stati stornati dai fondi governativi giapponesi allocati per la ricostruzione post-tsunami. Sarebbe interessante sapere quanti senzatetto della prefettura di Miyagi preferiscano un bel filettino fresco di balena ad una nuova casa.

Capitan Watson sa che questo attacco è strumentale, mirato a distrarre risorse, morali e finanziarie, dall’unico obiettivo di disturbare e prevenire la prossima strage nell’oceano australe. Critiche, burocrazia, processi, politici collusi con il potere economico non lo spaventano.

Lo spaventa invece la prospettiva di un mondo spopolato dai grandi cetacei. E per questo continua a lottare, giorno dopo giorno, con l’entusiasmo di un ventenne, contro i nuovi predoni.

Il crimine non è impedire alle navi Nisshin Maru e le varie Yushin Maru di eseguire la loro mattanza. È di continuare a lasciargliela fare, e per di più ipocritamente mascherata da ricerca scientifica. Speriamo che il tribunale statunitense se ne renda conto. E sentenzi coerentemente.

Mostri di ieri...

Urla del silenzio. Per una volta la libera traduzione italiana del titolo di un film è perfetta per il soggetto. Mi pareva di sentirle, le urla, in quel silenzio irreale. Mi sembrava che da quella teoria straziante di foto appassite, in bianco e nero, da quelle migliaia di occhi sbarrati, spenti, atterriti, da quelle bocche serrate uscissero ossessivi, travagliati lamenti di dannati danteschi. Mai visitato un museo con la medesima spettrale assenza di rumore, benchè affollato da una torma eterogenea di stranieri che procedono con espressione affranta – tra il compunto e l’inebetito – attraverso le stanze e gli orrori che ancora aleggiano dintorno.

Vietato ridere. Anche se l’unica scritta è in caratteri Khmer, l’immagine sul cartello all’ingresso non ha bisogno di traduzione. Del resto, nessuno ride, e neppure sorride. C’è scandalo, turbamento, incredulità, mortificazione e sdegno nei volti dei visitatori. Ma proprio nessuna voglia di ridere.

Phnom Penh, museo di Tuol Sleng. Una scuola trasformata in prigione. La famigerata S-21, ora sede permanente dell’esposizione che prova a spiegare qualcosa sul genocidio degli anni dal 1975 al 1979. Quasi quattro interminabili anni di terrore estremo, di obnubilamento totale del significato di umanità, di assoluta perdita di qualsiasi valore morale. Una strage infinita, turpe, impressionante nella sua scientificità, e purtroppo ormai dimenticata dai più.

In quella galera oscena si sono consumati i drammi di una minima parte dei milioni di cambogiani assassinati da Pol Pot e la sua cricca: tredicimila persone. Ne sono sopravvissute sette, poveri relitti umani trovati dai vietnamiti arrivati a Phnom Penh per affrancarla del giogo criminale dei Khmer Rouge. Pochi altri hanno mancato l’appuntamento con il destino liberatorio per una questione di giorni. Sono stati pietosamente seppelliti nel cortile dell’istituto trasformato in scuola per torturatori, ed ora ricordano a tutti che si era lì solo per uno scopo: morire, soffrendo pene indicibili nel processo.

Tre piani di edificio, quattro sezioni. Vi erano stivati fino a millecinquecento internati alla volta, in quei pochi metri quadri in cui la vita perdeva qualsiasi valore o significato. Oggi tutto ciò che resta è una carrellata impressionante di ritratti dei prigionieri, meticolosamente fotografati dai loro aguzzini. Una efferata, scrupolosa, ossessionante contabilità, evidenziata dai numeri progressivi sul petto delle vittime. Tra tanti volti spauriti, disperati, tumefatti, ignari e allibiti, o vuoti ormai di ogni espressione e pieni di rassegnata impotenza, mi ha colpito uno.
Fiero, marziale, indomito, gli occhi intensi che sfidano l’obiettivo degli assassini. Forse un militare. O forse un impavido civile che osava reagire all’intimidazione di quel regime folle, assurdo, idiota come tutte le radicalizzazioni estremiste di principi e pensieri politici e religiosi. Che sia maledetto il fanatismo.

Dovrebbe essere obbligatorio per tutti, almeno una volta nella vita, visitare luoghi come la prigione di Tuol Sleng. È una lezione che vale infinite volte più dei modesti tre dollari richiesti per entrare in questa bolgia fattasi cosa terrena. Fa capire l’assurdità della discriminazione, l’abominio dell’erasione sistematica di chi è considerato diverso.
Nella Cambogia di Pol Pot e del suo scagnozzo Duch, il caporione tiranno della S-21, lombrosianamente viscido e ripugnante, era facilissimo apparire non allineati, e morirne. Ma non subito. Prima occorreva passare per le grinfie dei carnefici di regime e, con la sofferenza, espiare i propri crimini. Bastava esser considerati intellettuali. Essere stati militari del regime sconfitto di Lon Nol. Conoscere una lingua straniera. A volte bastava saper scrivere. O rifiutare di spogliarsi della tonaca di monaco buddista. Avere un vicino in vena di delazioni che bollasse qualcuno come controrivoluzionario. Addirittura portare gli occhiali era segno di dissolutezza borghese, punibile con la tortura, fino all’ammissione delle proprie colpe, come esser miopi, e la redentrice morte. Nella Caina di questo vergognoso inferno non posso non collocare la vessazione più degradante, più odiosa, più aberrante: si poteva essere uccisi per aver mostrato nostalgia per moglie, figli, genitori o fratelli, per aver dichiarato di amarli, per aver lasciato che la debolezza dei propri sentimenti avesse la meglio sulla fanatica, assoluta, cieca dedizione verso la causa.

Tra tante macabre tracce di quanto abietto sia stato quel luogo, una mi ha angosciato in maniera particolare. E non sono i teschi, che pur documentano i diversi metodi per uccidere i prigionieri. Non le foto post mortem, con quegli occhi dilatati e sbigottiti e le bocche spalancate che gridano dall’aldilà ma nessuno sembra ascoltarle. Non gli strumenti di tortura, la vasca d’acqua in cui si immergevano i torturati finchè i polmoni non scoppiavano di asfissia, i letti di contenzione a cui venivano aggiogati i prigionieri per estirpargli confessioni e ammissioni attraverso sofferenze indicibili. Non le foto giganti appese alle pareti delle palestre di tortura, dove si vedono, esanimi sui graticci metallici, ammassi di carni enfiate e sanguinolente che una volta erano uomini, donne, bambini.
La visione più atroce, nella sua irreversibilità, è il pavimento piastrellato di quelle sale. Una scacchiera di mattonelle bianche e ocra, che proprio sotto i brulli letti di contenzione e tortura diventa malvagiamente scura. Vaste macchie opprimenti color bruno morte occhieggiano e urlano anche loro nel silenzio. È il sangue versato copiosamente più di trent’anni fa da migliaia di vittime innocenti, chiazze insopportabili e irremovibili con cui confrontarsi, che dovrebbero pesare come macigni sulla coscienza collettiva.

Non ci sono risposte ai mille perché che affiorano alla mente ed al cuore, trascinandosi a fatica attraverso quell’edificio maledetto. Solo un pensiero dominante: mai più.

Prima pubblicazione : 7 gennaio 2009

sabato 10 dicembre 2011

Killing fields

Un amico mi scrive. Finalmente vado in Cambogia. Una terra che lascia una traccia pesante nella memoria. Prima che tu parta, Andrea, ho deciso di ripubblicare i miei racconti. Per darti qualche spunto. E per rivivere io stesso quanto di bello - e di difficile - ho visto in una nazione tormentata ma incantevole.

Killing fields

Bellezza e orrore. Convivono, fianco a fianco, in un paese dal passato recente calamitoso.

Non scrivo mai, la prima volta che visito una nazione. Mi ci vuole almeno una seconda visita di acclimatamento per studiare, cercare di capire, ascoltare quello che mi trasmette e provare a raccontarlo. Questa merita un’eccezione, perché è un luogo coinvolgente, straripante di messaggi e di sorprese, nel bene e nel male.

Capolavori dell’uomo, strabilianti ed emozionanti. E le atrocità più orripilanti che l’abiezione umana possa concepire. I due volti della terra di Cambogia. Architetture straordinarie e testimonianze viventi di una guerra mai completamente finita.

La bellezza mozzafiato di un tempio, tra tutti quelli parzialmente sopravvissuti all’ingiuria del tempo e dei predoni, spacciatori di cimeli architettonici troppo facili da razziare: Banteay Srei. Lontano dal cuore turistico pulsante di Angkor Wat, non compete né per dimensioni né per fama con il colossale monastero buddista, talmente simbolico da comparire perfino sulla bandiera cambogiana. Ma i suoi bassorilievi sono prodigi assoluti. Trine preziose, lavorate pazientemente nella pietra da mani infaticabili ed abilissime. Quelle di uomini in grado, svariati secoli fa, di concepire e realizzare tale delicatissimo miracolo, pietra su pietra, con artifici ingegneristici audaci, vestendolo di arabeschi bulinati con grazia, maestria e maniacale cura del dettaglio, e regalandoci così una perla che consola e confonde, generazione dopo generazione.

Il contrappasso di tale beatitudine estetica dista pochi chilometri da Banteay Srei. E mostra che l’uomo non è solo grande cesellatore di bellezze impagabili, ma anche essere abietto verso il suo prossimo e irriguardoso verso la natura che generosamente lo ospita. Il museo delle mine, voluto e creato da Aki Ra, cambogiano che può a buon titolo dire: ho visto cose che voi umani non potete immaginare.

Non sa quando è nato, ma crede verso il 1970. A cinque anni i suoi genitori sono stati ammazzati dai Khmer Rouge di Pol Pot. Normale per la Cambogia dell’epoca. E normale era, per un bambino non ancora decenne, vedere tanti suoi amici morire, arruolati come lui in un esercito di minorenni, comandato da diavoli. Cresciuto conoscendo solo la fame e la guerra, istruito da adolescente a piazzare mine, ne ha collocate a migliaia. Finchè nel 1987 ha cambiato sponda, combattendo con l’esercito Vietnamita contro i suoi addestratori ed oppressori insieme, i Khmer Rouge ormai in rotta.

Nel 1993, quando l’ONU arriva nella Cambogia liberata – o quasi – dalla piaga della rivoluzione comunista Khmer, la sua esperienza di posatore si rivela utilissima per cominciare a sminare quella terra piagata. Nel corso degli anni la sua abilità lo rende richiesto in aree sempre più distanti dal suo villaggio, finchè, nel 1997, con parte del materiale reso inerte in anni di rischioso lavoro, decide di aprire un suo personale museo.

Un giorno un gruppo di giornalisti giapponesi lo ha soprannominato Aki Ra. Quel nome gli è piaciuto e se lo è cucito addosso. A cinque anni, con i genitori uccisi, non sapeva più nemmeno quale fosse il suo. Negli anni, diversi nomi gli sono stati affibbiati da commilitoni e superiori: Yeak, Lo, Clay, Teov. Alla fine, quando ha potuto scegliere, ha cancellato, perfino anagraficamente, i ricordi di quei tempi orrendi.

Viene una gran rabbia, visitando quel piccolo ma essenziale museo della memoria. Da tre a sette milioni di mine antiuomo – nemmeno una stima precisa si riesce a fare – sono ancora in agguato in Cambogia. Ogni anno mutilano o uccidono tra quindici e ventimila persone. Come dice l’eccellente slogan della campagna contro la proliferazione di tali ordigni: e voi che vi preoccupate di non pestare una cacca di cane.

Ma questa collera, questa indignazione non nasce solo dal vedere immagini crude di gente sofferente o uccisa da mine, dal leggere le terribili statistiche passate e presenti, dall’incontrare per strada orchestrine composte da persone accecate o private delle gambe, gente che cerca supporto per la loro causa elemosinando pochi dollari dai turisti, che paiono gli unici a cui importi qualcosa, e nemmeno tutti.

Fa rabbia, e molta, che nazioni come la Cina, l’India, la Russia, gli Stati Uniti non abbiano aderito al trattato di Ottawa contro la produzione e l’uso di questi maledetti congegni. Disturba ancora di più l’ipocrisia di certe affermazioni, lette nel museo dell’orrore quotidiano: gli Stati Uniti non lo hanno firmato perché non è prevista “l’eccezione coreana”. Forse non lo sapevate, ma il milione di mine piazzate lungo la terra di nessuno (detta DMZ) tra il Nord e il Sud della Corea sono un simbolo e un messaggio di pace, prevenendo l’invasione di terra da parte dell’eremitico e belligerante Nord contro l’industrioso Sud. Peccato che Seoul, capitale e residenza di un terzo dei sudcoreani si trovi a meno di ottanta chilometri dal confine, e che probabilmente anche Andorra ed il Liechtenstein hanno missili di gittata superiore. Immaginiamoci l’armatissima Corea del Nord, in odore di potenza nucleare. L’India si giustifica dicendo che le mine servono a tenere lontani i terroristi islamici pakistani che potrebbero infiltrarsi dalla porosa linea di confine del Kashmir. Si è visto come sono servite. Gli stragisti di Mumbai sono arrivati via mare, secondo la vecchia tradizione moresca, ed hanno raggiunto indisturbati gli obiettivi stabiliti. Alla faccia delle mine seminate nel Kashmir.

Fa infine ribrezzo pensare, vedendo appese al muro le schede tecniche di ogni ordigno, con tanto di disegni e spaccati esplicativi, principi di funzionamento, applicazione, potenza e suggerimenti per un miglior risultato, manco fossero macchine fotografiche o telefonini, che ci siano stati, e magari ci siano tuttora, oggi, da qualche parte del mondo, dei progettisti che ne studiano di nuove e più deleteriamente efficaci, degli operai che le assemblano come se fossero motorini di frigorifero, degli imprenditori e dei rappresentanti della morte che fanno sporchi e lauti guadagni producendo e vendendo mine.

Fa vergognare, sapere di appartenere alla stessa razza di questi fautori, produttori, mercanti, seminatori di vile morte casuale. La mina è destinata al militare, ma non fa distinzioni. Animali. Civili. Bambini. Vecchi. Donne, magari incinte. Tutto viene equanimemente macinato, dilaniato, distrutto, mutilato. I campi che hanno ucciso milioni di cambogiani nella loro tremenda stagione di genocidio sistematico di una nazione, continuano a martoriare e uccidere. Chissà per quanto ancora. Vergogna, Mondo.

Prima pubblicazione : 3 gennaio 2009