martedì 28 febbraio 2012

La piccola cuccia

I giapponesi sembra soffrano di una recente esterofilia. Una borsa, un vestito, un profumo devono essere francesi. Un hamburger (sì, mi perseguitano anche qui), americano, ça va sans dire. Un piatto di pasta o una pizza? Senza un tocco – purtroppo spesso maldestro – della lingua di Dante non attirano avventori.

Sono arrivato a chiedermi se lo facciano apposta. Perché una tale concentrazione di errori si può spiegare solo con due scuole di pensiero: superficialità nelle traduzioni, ma non fa parte dello stile giapponese. Una ponderata e ben studiata inserzione di strafalcioni, più che altro ortografici, per attirare l’attenzione – e magari ambire alla presenza – proprio di quei pochi gaijin pignoli che si mettono a verificare se nella terra del Sol Levante viene fatto buon uso del loro idioma.

Una parete così costellata di errori ed incongruenze non l’avevo ancora vista. Da una parte c’è la velleità di far bene, di usare perfino termini difficili. Dall’altra ci sono alcuni peccati veniali : un più che diventa pin, forse colpa di una calligrafia non proprio chiara, si sa quanto son simili la u e la enne nel corsivo frettoloso, piacevola (eh, questi complicati aggettivi invarianti!), tanta persone, una O dimenticata in presto, una I e un paio di accenti rimasti nella penna, anzi, di questi uno è saltato su una E centrale che ne avrebbe fatto volentieri a meno.

Ma la cuccina no, non si perdona. Troppo comune questa parola, è sulla bocca di tutti. In libreria uno chef su due la usa nel titolo della propria opera. Dai. La piccola cuccia. Ripetuta due volte. Per favore. Se non rispettate il sommo poeta, almeno rispettate Gianfranco Vissani.



sabato 25 febbraio 2012

Sarariman

È dura la vita del sarariman. Gli orari d’ufficio sono oltraggiosi: nessuno esce puntuale, perché sarebbe dimostrazione di poco attaccamento all’azienda. Bisogna star lì fino alle sette o alle otto, magari inventandosi qualcosa da far finta di fare, perché di andarsene prima del capufficio non se parla proprio. A questo si aggiungono le svariate ore quotidiane (fino a quattro in una metropoli come Tokyo) necessarie per il tragitto da pendolare. E quando il capo chiama, è indispensabile essere presenti all’appello serale tra colleghi in qualche ristorante, dove si mangia poco ma ci si deve cimentare in bevute epocali, o in un karaoke, altra fonte di stress, perché non si posson fare figuracce da pressappochista stonando o scordando i testi, quindi – nel raro tempo libero – si frequenta una scuola di canto.

Davvero dura la vita del sarariman. Che talvolta, la sera, si riduce così.


Cosa non si fa per tenersi un posto di lavoro.



mercoledì 22 febbraio 2012

Scopri le differenze

Sciopero aeroportuale in Italia.

Torme di passeggeri imbufaliti cercano invano informazioni, soluzioni, mero conforto alle loro vicissitudini da parte di operatrici o inani o a loro volta seccate dalla pretesa di performances che lo sciopero in realtà mira ad inibire. In tali occasioni vengono trasmesse in tivu le solite immancabili giaculatorie pronunciate da viaggiatori accampati sopra cumuli di valigie e dalla gamma di sguardi tra il rassegnato e l’incazzato forte: è un’indecenza, siamo qui da ieri sera senza uno straccio di notizia, è l’ultima volta che volo con questi (mentitori, non è vero e lo sapete, lo rifarete e vi lamenterete di nuovo).

Sciopero aeroportuale in Germania.

Gli addetti di terra dell’aeroporto di Francoforte si astengono dal lavoro per due giorni, per meglio sottolineare le proprie richieste di un miglior trattamento economico. La compagnia di bandiera tedesca subito si affretta a pubblicare sul sito l’elenco dei voli cancellati, permettendo a chi aveva pianificato un viaggio proprio attraverso Francoforte di trovare delle alternative. In caso si faccia parte degli sfortunati passeggeri di un volo annullato, si viene automaticamente riprenotati con altre soluzioni, ma con la facoltà di chiedere il rimborso se il nuovo piano voli non soddisfacesse le esigenze dell’utente.

Ma c’è di più. Sentite questa. I voli non facenti parte dell’elenco di cancellazione, davvero non sono annullati: volano regolarmente. E per un piccolo ritardo nella partenza da Torino, il comandante sente il dovere di porgere le scuse via microfono, e assicurare che farà il possibile per recuperare.

Servizio di bordo in Germania.

Capita di addormentarsi sull’aereo. Specie se ci si è alzati alle tre di mattina per prendere il primo volo delle sei e mezzo. Sono l’invidia di molti colleghi, che mi chiedono sempre ma come fai, l’aereo manco è decollato e tu già dormi. Forse incosciente serenità e fiducia. Mai avuto paura in aereo, nemmeno quando abbiamo fatto un atterraggio di emergenza. Paura, e molta invece, ne ho provata su degli autobus extraurbani in Cina, specie viaggiando di notte, su certi taxi indiavolati, e anche su qualche treno non esattamente consigliabile.

Capita, dicevo, di dormire qualche ora. E così saltare la cena servita a bordo, in rotta verso il Giappone. Perché ci sono compagnie che evidentemente danno disposizione al personale di svegliarti. E altre no. Io preferisco le seconde, perché se ho sonno ho voglia di dormire e non di vedermi ammannire, intontito dall’improvvisa sveglia tramite tocco del braccio accompagnato da un educato ma perentorio excuse me sir, un vassoio fumigante di non meglio precisate cibarie.

Capita – fatto straordinario – che al risveglio un cortesissimo capo-steward di nome Urs ti venga a chiedere, appellandoti per nome, se avresti piacere di qualcosa da mangiare, uno snack, un frutto, e da bere?, e che si sorprenda della morigeratezza monastica delle mie richieste, un involto giapponese di riso e alghe nori, un bicchier d’acqua nemmeno gasata. E che ti rechi questo frugale sostentamento garbatamente imbandito su un piatto, e il bicchiere sia di vetro, che perfino l’umile acqua ti sembra più buona.

Tutto questo capita, signori miei, volando con Lufthansa. È pubblicità? Certo. E sono orgoglioso di farla, gratis, per chi ti tratta così.

Servizio di bordo in Italia? Il gioco scopri le differenze termina qui. Perché non ho fatti diretti da contrapporre a quello appena narrato. E soprattutto perché ne ho invece molteplici, raccontati da colleghi e amici viaggiatori per professione come me, a nessuno dei quali vorrei dover credere, tanto sono poco professionali e arroganti gli atteggiamenti dello staff della nostra compagnia di bandiera che mi sono stati negli anni riferiti.

Facciamo così: chiunque abbia avuto delle belle esperienze, chi abbia da dare notizia di comportamenti encomiabili da parte del personale Alitalia, lo faccia qua. Vi prego. Qualcuno commenti, e bilanci l’assoluto vuoto di virtù di cui sono in possesso. Sarò lieto di sapere – e di riconoscere – che anche tra le divise verdi volanti ci sono dei seri professionisti, gente che ti sappia far apprezzare il viaggiare con loro. Se no, perché continuiamo tutti a mantenere – con le nostre tasse – qualcosa che non fa bene all’immagine dell’Italia all’estero?


lunedì 20 febbraio 2012

Occhi nella notte

È questo il ricordo più nitido, più incancellabile, di quei pochi momenti di terrore ovattato. Occhi nella notte. Quei fari che puntano diritto su di noi, e mentre accade non riesco a pensare ad altro, a distrarre lo sguardo, a reagire, quasi ipnotizzato da quelle coppie di cerchi di luce che ti si avventano addosso, e si fanno più grandi ad ogni istante, e non danno cenno di voler cambiare direzione.

Un incidente, di quelli che possono capitare in qualsiasi momento, in Cina. Specie nel buio della notte fonda. Il nostro pulmino che urta, o viene urtato, che è poi lo stesso, chi decide in quel bailamme chi è andato addosso a chi?, da un camion. Che, a onor del vero, forse ha tentato di tagliarci la strada. Peccato che lo stessimo bellamente sorpassando da destra, sulla seconda corsia di un’autostrada. E che dire del camion, che viaggiava tranquillamente – nel senso letterale, non avrà fatto più dei sessanta all’ora - in corsia di sorpasso? Ma non stiamo a sottilizzare, siamo in Cina, mica in Svizzera!

Lo specchietto destro del camion che tocca la nostra fiancata, una bella striscia di vernice sul vetro laterale, rumore di lamiere che stridono nel contatto. Tutto finito? Nemmeno per idea. Il bello – si fa per dire – viene ora.

Il nostro autista, dalla guida autoritaria ed impositiva già a casi normali, non ci pensa due volte. Con una manovra da vero, autentico pirata della strada, chiude il camion sulla terza corsia e rallenta per costringerlo a fermarsi. Blocca il pulmino di traverso, occupando due terzi dell’autostrada, e scende a constatare i danni. Con flemma inglese inforca gli occhiali ed osserva attentamente la strisciata sul finestrino, quindi si sposta sulla coda, infine va a berciare all’indirizzo del camionista che, per qualche misteriosa ragione, è rimasto al posto di guida e, indifferente, ascolta le rimostranze dall’alto della sua cabina.

Nel frattempo noi, dall’interno del mezzo, abbiamo modo di renderci conto della gazzarra che si sta scatenando. Dopo i primi momenti di puro sbigottimento, arriva la reazione. Quante volte dobbiamo ancora sfidare la buona sorte che, miracolosamente, fa deviare all’ultimo istante quei fari che ci vengono addosso? Quante macchine e quanti camion ci hanno scansato al volo, oplà, una sterzata e via, senza nemmeno rallentare, senza neppure un colpo di clacson, che tanto la situazione deve essere quasi normale, per un guidatore locale? Non so. Ma improvvisamente mi sono risvegliato dalla trance in cui mi avevano proiettato quegli occhi di luce, ed ho gridato al nostro ospite cinese di richiamare l’autista, che qui prima o poi qualcuno ci fa la festa! Sporgendosi indolentemente fuori dal finestrino, ha eseguito, urlacchiando qualcosa al litigioso guidatore. Che, smadonnando come un turco, è risalito, ha avviato il furgone ed è ripartito, non senza continuare la sua litania per un bel pezzo, forse insoddisfatto per non essersi potuto fare immediata giustizia dell’affronto, a causa delle stupide paure di questi stranieri.

Un’altra avventura da raccontare? Per fortuna sì. Quando puoi narrare una cosa del genere, dopo averla vissuta dal di dentro, non può che scoppiarti addosso un’allegria “brasiliana”. Non credo che il riso che mi è affiorato, incontrollabile, dal profondo, fosse una reazione nervosa. Penso piuttosto che fosse la manifestazione della gioia di essere ancora intero. E di avere visto il colore, ma non sentito il rumore, provato la durezza, di quegli occhi nella notte.


Prima pubblicazione : 12 agosto 2007

mercoledì 15 febbraio 2012

La piccola bottega degli orrori

Lessicali.

Avevano finito le A. Non me la spiego altrimenti un’ostinazione così caparbia nello sbagliare due parole su due, tutto sommato facili, e alla fine ben ricorrenti nella gastronomia nipponica. Bagel e gelato. Non ci voleva molto. Bastavano due minuti di ricerca su internet, o aprire al volo un dizionario. E dai, amici ristoratori. Potete fare di meglio che Begle e Geleto.

Formalmente corretto (perdoniamo la svista su ancora, certo colpa di un tipografo poco pratico di alfabeto romano). Ma povero maestro di Giotto. Ridotto ad accileccare in un italiano improbabile delle giapponesi abbienti, affinchè entrino proprio in quella bottega di scarselle di pregio. Mi veniva voglia di chiedere a qualche signora se davvero aveva trovato qualcosa piacevole. Ma avevo paura di venir frainteso, ed esser preso a borsettate.

Ci prendono in giro che mettiamo sempre le erre al posto delle elle? Ecco fatto. Questo frutto non ci frega. Sentiamo dire mirtillo, ma sarà sicuramente scritto così: affogato al miltillo.

Ed infine un classico. Giapponesizzazione di un piatto che più meneghino non si può. La onesta, impanata braciola alla milanese diventa (è femminile, finirà per a, no!?) milanesa. Suona male? Facciamo miranesa. Ora sì che si vende! Una bella miranesa al quattro, presto! (comunque sempre meglio di chi la chiama veal scallopini, e pretende perfino che questo sia italiano!)


lunedì 13 febbraio 2012

Liberi tutti

Bongiorno, vorrei fa’ la riforma della sanità. Perché, ti senti male? No!! E allora ‘un ci rompere i ‘oglioni...

In questo straordinario, fulminante dialogo tra due immaginari ministri, opera del Benigni di quasi trent’anni fa, irriverente, provocatorio, dinoccolato burattino saltellante sul palco dei teatri, c’è fotografata col flash l’ignavia dei politici italiani. E per esteso degli italiani, che lì ce li hanno messi, e che assomigliano maledettamente a quei soloni che amano denigrare quando non sono impegnati ad invidiarli.

Se non serve a me, se non mi dà un qualche tornaconto, allora è inutile. È tempo sprecato. Non si fanno le leggi prima che succeda qualcosa. Si corre dietro all’emotività del momento, per :

- Trarne qualche vantaggio strumentale a favore del proprio schieramento (loro non hanno fatto, noi avremmo potuto se loro, eccetera...)
- Sfruttare il conclamato fatto che gli italiani soffrono ancora della sindrome dell’uomo forte, e che quindi decisioni radicali ma effimere, dettate dal clamore del momento, sono sempre ben accolte dalla suburra furibonda, e quindi fonte potenziale di suffragi a venire.
- Farsi pubblicità, acquisire visibilità politica. Perché chi non buca il video in Italia non esiste.

Siamo lontani – rincresce dirlo – dall’essere un paese civile. In un paese civile non si fanno le leggi sulla sicurezza nei locali pubblici dopo che 64 persone sono morte affumicate in un cinema. Non si aspetta a mettere la patente a punti dopo che la gente per anni continua a spetasciarsi contro le piante perché ognuno crede di essere bravo come Schumacher e per di più crede anche di essere sulla pista di Monza e non sul viale di casa. Non si mettono i semafori, i dossi, la polizia col palloncino, dopo che dei poveri cristi sono stati stirati da pirati della strada magari ubriachi. Non si fanno leggi antidroga serie mentre c’è un business milionario di centri di recupero per ricchi figli di famosi da isole. Nessuno prende i nostri aerei ed elicotteri (nostri perché li manteniamo noi con le tasse) che servono per andare a vedere le corse di formula uno o a trasportare pesce fresco a Cortina, per volare dall’altra parte dell’Adriatico a fare la voce grossa con quelli che lasciano continuare questa transumanza di disperati, ingrassando nel contempo le tasche della malavita e magari non solo. Vale il vecchio adagio: chiudiamo la porta quando dei buoi ormai nemmeno l’ombra. Mai prima.

In Italia è sempre colpa di qualcun altro. I politici che non fanno le leggi giuste. No, le leggi ci sono, basterebbe applicarle. Allora è colpa delle forze dell’ordine. No, quelli quando possono arrestano, peccato che non sappiamo più dove metterli, e allora liberi tutti, come a nascondino. Allora è colpa dei giudici, dei magistrati che al di sotto dell’omicidio aggravato da stupro impartiscono una ramanzina e dicono cattivaccio non farlo più. No, i giudici hanno le mani legate, è colpa del sistema giudiziario, un elefante che schiaccia tutto con i suoi ritardi epocali e con la sua lentezza esasperante. Di una burocrazia che permette ad un assassino di cavarsela per il famoso, impagabile, italianissimo vizio di forma. Basta una marca da bollo (altra invenzione italiana!) attaccata al rovescio per vanificare anni di indagini. No! La colpa è delle giurie popolari, che non si mettono mai d’accordo, e poi non si trovano mai, gli è sempre morto il gatto quando arriva la chiamata. Ma no… È colpa degli avvocati, che fanno un mestiere tra i più vituperati, ma intanto tra i più remunerativi del pianeta. È colpa della gestione precedente, che poteva fare delle belle leggi e invece guarda in che condizioni ci ha lasciato il paese, ma come si fa a lavorare cosi?!? Il circolo vizioso si chiude e il balletto continua all’infinito... È colpa... È colpa...

Ma allora di chi è la colpa? Guardiamoci allo specchio. È nostra, che ci scervelliamo a cercare sempre colpevoli, invece di lavorare tutti insieme (ma chi, gli italiani, branco di individualisti che parlano mille dialetti e se potessero userebbero ancora i dobloni e i fiorini??) per una società migliore. Nostra, che giriamo le spalle dall’altra parte quando succede qualcosa di brutto, di che t’impicci, non sai mai come va a finire, ti vai a cercare dei guai, salvo poi berciare tutti insieme quando la folla garantisce l’anonimato. È colpa nostra che rimproveriamo ai politici quello che dovremmo rimuovere da noi stessi. Sempre pronti ad additare la pagliuzza, mentre siamo accecati da una trave.

E intanto si continua a stuprare. A morire per mano di ubriachi al volante (sì, è una mia fissazione, e allora?). A lasciare continuare ad arrivare orde di disgraziati che non sapremo dove mettere, e nel giro di qualche giorno non sapremo nemmeno più dove diavolo sono e soprattutto che cosa stanno facendo per sopravvivere. A malvivere (sia nel senso del malvivente, sia di quello che vive male).

In Italia non si previene. Si cura, quando si può, ma soprattutto quando la cura costa un bel po’ più della prevenzione, e ben venga se una fettina di introiti va a contribuire alla causa. Con questa mentalità da interesse privato davanti al pubblico benessere non si costruisce una società. Civile.

Prima pubblicazione : 3 novembre 2007

domenica 12 febbraio 2012

The greatest love of all

Non si dovrebbe mai stare svegli fino a tarda notte. Perché quando finalmente trovi la maniera di andare a dormire, scopri un’ultima notizia che ti fa dire, no, non è vero. È uno scherzo. Invece, mentre in Italia i giornali dormono e le notizie languono, basta cercare sui siti esteri e sai che è proprio così.

Una delle più grandi voci al mondo tace per sempre. Non è stata capace di applicare nella sua vita quello che cantava agli inizi della carriera, quando era bellissima ed io – raro, ma può capitare, specie quando fai il disc-jockey, e la musica è la tua professione – sognavo di incontrarla. Di sentirla cantare. Di poterle parlare, per capire come ci si sentisse quando si è dotati di un dono straordinario. Carlos Santana al contrario: lui usa la chitarra come una voce. Whitney Houston, la voce come uno strumento, ora sassofono, ora violino, ora organo. Suadente. Divina. Capace di cantare a cappella senza che si sentisse il bisogno di uno strumento musicale.

Learning to love yourself, it is the greatest love of all. Ma non è vero, come cantavi, che è facile da ottenere. Ti voglio ricordare, salutandoti per l’ultima volta, non con il pezzo che tutti conoscono. Ma con quello che adoro. Perché il Peter Pan in me vorrebbe – anche se la vita non te lo concede – che tu fossi sempre rimasta quella fanciulla dalla voce prodigiosa, dagli occhi sognanti di cerbiatta, dal sorriso troppo candido e troppo felice per sopravvivere alla spietatezza dello show business.

Farewell, Whitney.

sabato 11 febbraio 2012

Merli e merletti

Chi l’ha detto che una giornata con la neve è rovinata, e tanto vale starsene a casa al calduccio?

Stamani, più spinto da necessità di piccole commissioni del sabato che da autentica voglia di immergermi nella quasi impalpabile ennesima nevicata della settimana, mi sono alla fine fatto trascinare fuori dagli ospitali portici, seguito dagli sguardi stupefatti di chi non capiva cosa ci fosse da fotografare in una giornataccia così.

Non so se ne valesse la pena. Giudicate voi.

Neve bianca. Nel chiostro del museo ammanta un povero angariato ulivo che si trasforma in ali d’angelo per la colonna, sormontata da un bel panettone di neve vergine, a dar la misura precisa delle precipitazioni.

Neve nera. Si può, si può. Basta fotografare il sole che cerca con fatica di bucare le nuvole. Ed i fiocchi, in controluce, diventano neri.

Merli e merletti. Di neve, questi ultimi. A decorare con graziosi motivi geometrici le orlature di un palazzo.

Poveri giostrai. Come sono arrivati, ha cominciato a nevicare. Non ha ancora smesso. Quanto sono tristi le giostre, chiuse e freddolose, con la neve. Niente musica, niente odore di zucchero filato, niente urletti di fanciulle sugli autoscontri. Solo il felpato scricchiolare di rari passi nella neve fresca. I seggiolini penzolano immobili, ammantati di bianco. L’ottovolante dei piccoli è mezzo sepolto. E nemmeno un pezzo di torrone d’Alba per addolcirsi la bocca e riscaldarsi lo stomaco. Ma...

Profumo di buono. L’ultimo forno a legna. C’è sempre qualche cliente a chiacchiera, in quella bottega dal padrone arruffato e infarinato, che traffica di pala per sfornare pani buoni e freschi per una settimana, e quando li mordi senti la fragranza del legno e sei contento che ci sia ancora qualcuno che non ha rinunciato a fare le cose all’antica. E fa anche dei grissini lunghi e croccanti che sfido chiunque a resistere e riportarli tutti a casa, senza pescare dal sacchetto di carta bianca e sgranocchiarne qualcuno per strada, impestandosi di bricioline e di semola, ma chi se ne importa.


giovedì 9 febbraio 2012

Risveglio forcaiolo

Proprio quello che si richiede la mattina presto, appena svegliati. Un programma televisivo che mi ha fatto venir voglia di scrivere ai responsabili del palinsesto di Discovery Channel.

Ammesso e non concesso che Machines of Malice sia una trasmissione considerata utile ed apprezzabile in sé e per sé, per quale motivo tale grandguignolesco-tecnologica realizzazione ci deve essere ammannita proprio all’ora della colazione, quando le famiglie si accingono alla giornata davanti a tazze fumanti di caffellatte, o a profumati piatti di uova fritte e pancetta, o ancora a brodami di carni di maiale in cui nuotano pallidi spaghetti, alla maniera dei cinesi?

Machines of Malice sviscera (mai verbo fu più azzeccato) ogni più inconfessabile aspetto dei marchingegni che l’uomo ha utilizzato nei secoli per giustiziare i condannati a morte, e spesso con annessa qualche modica dose di tortura, che ci sta proprio bene, ammonendo ed insieme eccitando il popolino convitato all’esecuzione.

Così, mentre mi preparo ad una giornata d’ufficio, appena uscito dalla corroborante doccia mattutina, mi viene spiegato, con dovizia di dettagli tecnici e raffinati studi anatomici, quanto debba essere lunga la corda da impiccagione – valore che è funzione del peso del giustiziando – per far sì che la morte sopraggiunga rapida, come è previsto che sia, per la frattura delle vertebre cervicali. Se la corda fosse troppo corta, morirebbe per asfissia. Troppo lunga, per decapitazione. Allegria.

Gli americani sono dei pragmatici. Le spiegazioni metodologiche vanno corroborate con prove pratiche. Così qualche spensierato artigiano si dà mestieri per costruire un’autentica forca, e poi ci impicca un manichino tipo i dummies usati nei crash-test delle auto. Mostrando con soddisfazione che quando la corda è lasciata troppo lunga, davvero la testa si stacca dal corpo e rimane macabramente imprigionata dal cappio.

Cari redattori di Discovery Channel, una domanda. Voi spesso mettete in onda programmi interessanti, avventurosi, perfino educativi. Fatemi capire: esattamente a chi serve apprendere quale è la lunghezza corretta della corda, affinchè l’impiccagione abbia una buona riuscita? Chi ha deciso che è utile, telegenico, forse doveroso sapere a che distanza dal condannato deve stare il plotone d’esecuzione, e quali sono le carabine ed i proiettili più adatti per una fucilazione di successo? Offre proprio un gran servigio alla comunità affacciata al teleschermo questa dettagliata trattazione – quasi apologetica – della pena di morte nei secoli?

Comunque, grazie per esservi preoccupati dei miei leggeri problemi di sovrappeso da scrivania. Quella mattina perlomeno siete riusciti a farmi saltare la colazione.


Prima pubblicazione : 2 aprile 2009

mercoledì 8 febbraio 2012

Please be patient with me

Albergo in una città di media dimensione della Cina. Al quarto piano c’è una buona imitazione di un pub inglese. Dove una congrega di stranieri nostalgici di occidente si affaccenda in serotine attività ludiche anglosassoni, le freccette, la partita a snooker, l’esegesi del match del Chelsea in televisione, perfino – evento straordinario in Asia – un italianissimo calcio balilla affollato da starnazzanti e scoordinate fanciulle cinesi in odor di meretricio. Il tutto annaffiato da abbondanti dosi di birra irlandese alla spina, spillata con tiepida noia dal barista locale che si fuma una sigaretta e pare in trepidante attesa dell’ora di smontare.

Il bagno, a cui si è fatalmente destinati, dopo che un paio di brocche madide giacciono vuote sul tavolo, offre una sorpresa. Il solito inserviente che sta di guardia, dedicato a quei piccoli lavori da fondo scala, è invece del tutto insolito. Non l’ingrugnito garzone che talvolta maneggia una scopa di cenci di molto dubbia igiene, non il viscido attendente che, insaccato in una sgualcita e logora giubba due taglie più grande di lui, offre una salvietta umida a chi si cura di lavarsi le mani dopo aver espletato, e occhieggia con intenzione il piattino degli spiccioli, a sollecitazione di un piccolo obolo.

È un giovane festoso che mi riceve. Un sorriso innaturalmente gioviale. Pare lieto per la mia improvvisa apparizione in quel suo microcosmo olezzante non proprio di verbena. Mi indica a gesti il rubinetto e, quando mi lavo le mani, applaude fitto a mani giunte e quasi lancia dei gridolini di contentezza. Mi offre delle salviette di carta per asciugarmi. E ancora una volta si rallegra della sua utilità, annuendo e battendo le mani quando, dopo averle usate, mi indica il cesto dei rifiuti dove buttarle, che peraltro a molti cinesi deve risultare invisibile, a giudicare dal maialaio sul pavimento tutto intorno all’inane oggetto.

Solo a quel punto mi cade l’occhio su un cartello che fa stringere il cuore per il suo materiale cinismo. Please be patient with me: I am handicapped. La dice lunga sull’insensibilità – se non intolleranza – di troppa gente, in Cina. Siate pazienti con me, perché sono handicappato?? Ma stiamo scherzando??

Quell’ignominioso invito chiedeva quasi scusa ed esortava all’indulgenza per quella inopportuna, festosa presenza, in un mondo dove la gente non sa più gioire per il semplice fatto di esistere. Dove l’urgenza di arricchirsi rende indisponenti.

Quel ragazzo sprigionava una primordiale, incontaminata, irrazionale e contagiosa gioia di vivere. Quella che molti, troppi, hanno perso per strada, tutti impegnati come sono a desiderare, a ottenere, a possedere sempre di più. Esiste solo il verbo avere, laddove invece dovrebbe trovare posto anche – se non soprattutto – il verbo essere.

Fossimo in un mondo con altre scale di valori, quanti cartelli dovremmo leggere quotidianamente, che raccomandano: siate pazienti con me, sono insopportabilmente arricchito, arrogante e ignorante?


Prima pubblicazione : 23 ottobre 2007

giovedì 2 febbraio 2012

Spilling the beans - 2a parte

Prosegue da ieri.


Ma salendo di un piano si scopre l’aspetto ricreativo di tale luogo. Un bar, nella penombra di luci aranciate, accoglie alcuni avventori seduti per terra a gambe incrociate. Vestiti solo di una vestaglietta verde pisello, che si rivelerà poi la divisa sociale del club, sembrano comodissimi e chiacchierano amabilmente fumando sigarette aromatiche davanti a bottiglie semivuote di sakè. La visita prosegue. C’è la sauna, altro svago prediletto dai giapponesi. Attraverso una porta a vetri vedo transitare un paio di avventori in costume adamitico. Non si fanno alcun problema per l’inopinata comparsa di questo alieno, per giunta vestito come un esploratore artico, e salutano con un consueto e formale inchino che coinvolge anche parti anatomiche che uno non si immaginava si potessero inchinare, così, a comando.

Ma non è finita. C’è una comunitaria sala tivu (deserta) le cui pareti sono tappezzate da una sterminata collezione di DVD con film il cui genere mi è del tutto sconosciuto. Qualche sospetto tuttavia mi è venuto quando mi sono state mostrate parecchie microscopiche salette, opportunamente chiudibili a chiave dal di dentro, ognuna con un computer e connessione – gratuita, come sottolinea con enfasi il giovane anfitrione – ad internet. Non ho voluto far domande, ci sono cose che è meglio rimangano ignote.

C’è chi ai presumibili piaceri solitari preferisce ancora la tradizionale corrispondenza d’amorosi sensi in carne e ossa. Ed ecco l’ultima – e più provocante – parte del percorso, tenuta ad arte in fondo, come un dessert che conclude una cena dal menù succulento. Le sale massaggio, dove solerti fanciulle sono pronte ad alleviare le stanche membra (sì, ho usato il femminile, perché?) di uomini bisognosi di rilassarsi dopo una dura giornata passata in ufficio. Tutto nella legalità, per carità, massaggi terapeutici. Ma certo. Guarda caso, quelli più cari sono quelli tailandesi - per i non iniziati, una delle caratteristiche è che le massaggiatrici invece di usare le mani usano i piedi, camminando sulla schiena del cliente. Talvolta invece dei piedi usano direttamente il loro corpo, opportunamente oleato, per massaggiare. Solitamente i problemi insorgono (absit iniuria verbo) quando il cliente, finito il lato schiena, si gira dall’altra parte.

Facciamo due conti? La capsula costa da trenta a quaranta euro (e non mi è chiara la distinzione, visto che sono tutte uguali. Forse dipende dalla vicinanza all’origine dell’effluvio di gorgonzola). La sauna, altri quindici o venti. Massaggio, dipende dalla durata e dallo stile. Si parte da sessanta e si superano i cento (senza contare le mance, praticamente obbligatorie). E non abbiamo parlato del bar, dove una bottiglia di sakè di sicuro non te la regalano. Poi c’è il solito, immancabile, odioso acronimo: trattamento VIP. Centosessanta euri forse per essere riveriti più del consueto – e magari è compresa una soffiata sul numero di telefono di quella massaggiatrice così caruccia...

Ovviamente, proibito fotografare qualsiasi cosa. Quindi non mi resta che accontentarmi di un paio di scatti fuori dal pregevole stabilimento del benessere maschile. Uno, in un inglese approssimativo, comunica indirettamente che questo è un luogo dalle buone frequentazioni, in cui entrare sereni: infatti nella cultura giapponese c’è una forte identificazione tra il tatuaggio e l’appartenenza alla yakuza, la mafia locale. L’altro, il manifesto pubblicitario, mostra l’aspetto più ufficiale del capsule hotel. Quello che manca, ve l’ho raccontato io. Sayonara, baby.


mercoledì 1 febbraio 2012

Spilling the beans

In inglese, diffondere un segreto, rivelare ciò che doveva rimanere nascosto.

Ieri sera, colto da un attacco acuto di curiosità piccionesca, sono andato a ficcare il naso in un capsule hotel in una grande città del sud del Giappone.

Avevo sempre immaginato che fosse l’ultima spiaggia di salariati disperati, il rifugio minimo per chi, perso l’ultimo metrò notturno per tornare a casa e non disponendo delle ingenti somme necessarie ad affrontare un’ora di taxi in Giappone, ricorreva a questi famigerati loculi in cui smaltire – si spera senza inopportune e accidentali fuoruscite di fluidi precedentemente ingeriti – le sbornie necessarie per conquistare galloni nella lenta scalata alla gerarchia aziendale. Me li immaginavo come luoghi dove torme di dannati danteschi vengono condotti al proprio oblò da un arcigno portiere di notte, poco propenso all’indulgenza verso questi ubriaconi tiratardi, manco capaci di guardare l’orologio a tempo per tornarsene dalla famigliola, invece di doversi accontentare di questi succedanei di alberghi, il grado più basso della catena alimentare del riposo del sarariman.

Niente di più erroneo e di lontano dalla realtà. Mi sbagliavo grossolanamente. Altro che ubriaconi odorosi di alcool e di profumo femminile dozzinale. Altro che povere anime ondeggianti nei corridoi in preda ai fumi etilici. Altro che portieri arcigni e schizzi di vomito sugli oblò.

Mi si è aperto un universo di piaceri sibaritici quando, tolte opportunamente le scarpe come è buon costume fare in qualsiasi casa giapponese, sono stato guidato (che gentili, ad accontentare la curiosità di un gaijin di passaggio!) da un cortesissimo e quasi efebico imberbe cicerone attraverso due piani di recondite voluttà. Si scende, non si sale. Tutto ben isolato dal mondo esterno, nemmeno una finestra per sbaglio. Atmosfere ovattate, corridoi moquettati, profumi discreti di oriente (con un’eccezione).

Le famose capsule ci sono, è vero. Vuote, vista l’ora ancora presta. Sono nel piano più sotterraneo, a cui si accede tramite un ascensore dalle dimensioni claustrofobiche. Un persistente e poco invitante sentore di calzini non proprio di bucato consiglia di limitare il tempo della visita al minimo necessario. Una teoria di loculi in termoformato plastico, tutti identici, con una porta-finestra che mostra lo spartano allestimento. Niente materasso, giusto un finissimo tatami. Un micro-cuscino e una copertina striminzita, ripiegata con cura. Una tivù incastrata nel soffitto. Un ripianetto sufficiente per quattro oggettini personali e il telecomando. Ecco qui una capsula.


Continua, domani, con la parte più... indiscreta.