mercoledì 30 novembre 2011

Lucio Magri o dell’Elogio del Suicidio

Lucio Magri ha scelto. Dicendo no alle convenzioni, che ci costringono a vivere anche contro la nostra volontà. Dicendo no alla morale corrente che ti rende un forzato della vita, anche quando questa non è più accettabile e degna di essere vissuta. Dicendo no agli stereotipi, dove il suicidio è un gesto che suscita orrore, sgomento, rimorsi, sensi di colpa, e talvolta persino indignazione.

Come ha vissuto la sua vita, controcorrente, così ha scelto di morire.

Il suo ultimo gesto di libertà merita solo un sentimento: rispetto.

Vale, compagno Lucio.

martedì 29 novembre 2011

T.I.C. forever

Rieccoci. Cina, continente che non smette di stupire. Il caso del giorno è la polemica scoppiata tra i netizens cinesi a seguito del generoso omaggio da parte delle autorità di un certo numero di scuolabus alle comunità rurali... della Macedonia.

E allora?, direte voi, hanno fatto bene, un bel gesto per aiutare le nazioni meno abbienti d’Europa. Peccato che tale buona azione cada in concomitanza con una improvvisa e generalizzata botta di controlli a tappeto sul miserevole stato degli scuolabus delle comunità rurali cinesi. Perché un paio di settimane fa, nell’occidentale e poco mentovato Gansu, c’è stata una strage di bambini di un asilo, caricati come merce (e forse peggio) su uno sgangherato pulmino, che in origine era fatto per ospitare nove persone. Nove. Tenete a mente questo numero.

Perché l’intraprendente e sbrigativo direttore dell’asilo un bel giorno ha detto, nove? Ma scherziamo? E dove li mettiamo tutti i nostri bambini? Via, via, togliere tutto: sedili, cinture, maniglie, appigli, cianfrusaglie inutili. E gli scolaretti? Sul pavimento. Seduti, in piedi, come capita. Un panchettino di plastica è già un trattamento di lusso. Visto come si fa? Ora sì che c’è spazio per tutti. Tutti liberi di svolazzare in qua e là, in caso di incidente. Che fatalmente c’è stato. Il furgone ha fatto un frontale contro un camion carico di carbone. Bilancio: 21 morti, due adulti e 19 bambini.

Ma quanti bimbetti ci stanno in un furgone da nove posti? Tanti, più di quanti possiate mai pronosticare. Davvero. In quel luttuoso veicolo, credeteci, c’erano 64 persone. Sessantaquattro.

Bum. Impossibile. Nemmeno i goliardi che fanno a gara per stipare le cabine telefoniche riuscirebbero in una tale impresa. Vi sbagliate. I cinesi invece ne sono capaci: guardate un po’ qui sotto. Nella prima foto c’è uno scuolabus fermato ad un controllo di polizia, su cui hanno trovato a bordo... 36 bambini. Alla indecente e inconcepibile capacità raggiunta dal mezzo schiantatosi nel Gansu mancano ancora all’appello 28 piccole vittime. Riuscite a figurarvi che supplizio doveva essere la quotidiana transumanza verso una scuola lontana magari chilometri dal villaggio? Ebbene, la scena che si dev’esser presentata ai soccorritori dopo l’incidente, neppure la più cupa fantasia di Dante nel suo Inferno l’avrebbe potuta concepire. Ventun morti e quarantatre feriti. Tutti bambini in età prescolare. Tante, troppe famiglie hanno perso l’unica creatura di pochi anni.

Nonostante ispezioni e posti di blocco, sabato scorso un altro scuolabus, questa volta a nord, nel freddo Liaoning, ha perso il controllo a causa del ghiaccio e si è ribaltato, causando 33 feriti, di cui due gravi. Nessun morto, ma questa è una fortunata combinazione.

Il giorno dopo il premier Wen Jiabao ha annunciato l’erogazione di fondi per migliorare lo stato pietoso dei trasporti nelle aree rurali della Cina, e l’implementazione “rapida” di regole per garantire la sicurezza sulle navette degli studenti.

Contemporaneamente gli studenti delle campagne macedoni si son visti recapitare dei fiammanti autobus gialli, con su dipinte le bandiere della Cina e della Macedonia. E mentre questi ringraziano per l’inopinato regalo, il popolo della rete cinese è in subbuglio per il beffardo tempismo del gesto verso la repubblica balcanica. Pensare agli altri mentre a casa propria si muore di criminale incuria. T.I.C.

domenica 27 novembre 2011

TIJ (9)

Cartoline. Se vi piace fotografare, e avete sempre sognato lo scatto che quando gli amici lo guardano ti chiedono ma l’hai fatto tu o è una cartolina, allora andate a Kyoto. Città imperiale, antica capitale prima che la corte si spostasse a Tokyo, è piena di templi, di castelli, di scorci immersi nel verde che ti fanno dimenticare per un po’ la cementificazione delle metropoli nipponiche.

Questo è il tempio d’oro – Kinkaku-ji – e di tanti è certamente il più insolito, il più appariscente, il più memorabile, per l’ambientazione sublime, per le pareti scintillanti di una fine e continua lamina aurea, per la cura maniacale con cui è mantenuto il lindissimo parco che lo circonda. Talmente bello da sembrare irreale, un vero salto indietro nel tempo. Eppure bastano dieci minuti a piedi e sei di nuovo in mezzo alle case, alle auto, alla gente. E al cemento.


sabato 26 novembre 2011

26-11

Ricordando, con un racconto scritto in India ad una settimana dal fatto, le oltre 150 vittime dell'odio terrorista, a tre anni dalla strage di Mumbai.

Il numero undici sembra un infausto denominatore comune delle stragi terroristiche. Anche l’India ha adottato la via più breve per parlare dei fatti di Mumbai. Come l’undici settembre americano, la stampa locale titola compatta a quattro cifre: 26-11.

Ma che cosa è il terrorismo? Il terrorismo è uno stato d’animo. Capisci che hanno centrato l’obiettivo quando arrivi in albergo, ti guardi intorno e ti chiedi per prima cosa come si scappa da lì, e vuoi una camera ad un piano da cui puoi ancora saltar di sotto senza spetasciarti sull’asfalto come una pesca marcia. Capisci che hanno vinto quando guardi male per strada il tipo che ti approccia, e che voleva essere solo gentile ed aiutare un buffo straniero vestito in giacca e cravatta, geneticamente impreparato ad affrontare l’attraversamento di un viale di Delhi senza rischiare la vita quanto un ostaggio di albergo a Mumbai. Sai che i bastardi magari sono morti ma hanno compiuto con successo la loro infame missione, quando un ragazzo con lo zaino che ti passa accanto non ti ispira simpatia ma ti fa scorrere brividi gelati lungo la schiena.

Gli stranieri – nello specifico, un gruppo di italiani – hanno due tipi di atteggiamento. Spavaldo alla cosa vuoi che ci succeda, siamo italiani, mica americani. Oppure preoccupato e teso tutto il tempo, in parte a causa di un bombardamento altrettanto snervante, ma stavolta da casa. Grazie, tigi e carta stampata. Ci rendete un bel servigio. Un’italiano si lamenta, mia moglie ascolta le notizie e mi rompe i corbelli ogni tre ore, come stai, tutto bene, ma sei sicuro che sia sicuro?

L’altra notte all’aeroporto di Delhi da una macchina sono stati esplosi due colpi d’arma da fuoco. Prima che l’elefantesco ed impreparato apparato militare, riparato da sacchi di sabbia piu’ adatti a contenere una piena del fiume che a proteggere da pallottole di fucili automatici, si mettesse in moto e tentasse un inseguimento, la vettura era scomparsa nella bolgia del traffico locale. In Italia si e’ letto di sei persone coinvolte nella sparatoria, di terrore in aeroporto, di seconda strage mancata. Nessuno si e’ fatto un graffio – per fortuna. Quanti morti ci sono stati ieri sulle strade italiane? Più equilibrio e meno sensazionalismo, per favore. Facciamo le proporzioni e verifichiamo le fonti, prima di sgomentare chi ha un parente che vive – o ci si trova solo per qualche giorno – in India.

La vita continua, senza apparenti intoppi o sospensioni del fare quotidiano. I giovani frequentano in massa ritrovi dai quali sbuca musica a pieno volume, facendo immaginare serate spensierate ed allegria danzerina. Escono poi tutti insieme da queste discoteche alla buona, senza il problema di dover guidare dopo aver bevuto un goccio di troppo. Si riversano in strada e danno l’assalto a degli autobus senza portiere, che sporadicamente si palesano nel rado traffico notturno. Sono allenatissimi a salire al volo, agili come gazzelle, mentre il mezzo è ancora ben in corsa. Ma perché non aspettano che si fermi, mi interrogo ingenuamente. Semplice. Quando il bus è finalmente fermo, non solo è già strabuzzante di gente, ma due o tre ragazzi pencolano avventurosamente di fuori, abbarbicati solo con mani e piedi a mancorrenti e pedana. Robe da trapezisti circensi. La legge del più lesto. Chi non osa – e non imbarca al volo – non trova più posto e va a piedi.

Nella sera tiepida e umida si epifanizza improvvisa una piccola parata di gente in costumi che sembran tratti da un film sull’impero coloniale inglese. È una rumorosa banda musicale, seguita da una folla versicolore che danza e si sfrena per strada. Notati gli sguardi incuriositi di noi italiani, subito il nostro anfitrione spiega: è un matrimonio. Bello. Il ritmo delle percussioni via via che il calore cresce assume connotazioni carioca. I tamburi battono ritmi ossessivi, i pepli di mille sgargianti tonalità, che fasciano le donne fino ai piedi, svolazzano attorno come pavoni ubriachi. Sembra un piccolo carnevale di Rio fuori stagione ed in trasferta in India. Chiude il corteo un cavaliere con tanto di ombrello cerimoniale, in coppia con una prepubere e bellissima damigella, entrambi a malapena sopportati da un mesto ronzino bianco, ingualdrappato come un elefante dei tempi dei maragià. La celebrazione si conclude, alla faccia del subdolo terrorismo venuto da oltre confine, con l’allegra esplosione di una salva di fuochi d’artificio, che tingono di rosso e di verde il cielo aranciato dai riverberi della capitale, e stordiscono le orecchie con le loro deflagrazioni troppo vicine.
Una pioggia di scintille odorose di salnitro ed è tutto finito. I musici si avviano alla caccia di un autorisciò – geniale definizione degli apini, ubiquitari e popolari taxi a tre ruote da ceto meno abbiente – libero, da inzeppare di tamburi, tromboni ed esseri umani emaciati.

Il ventisei undici promette una stagione fruttifera per la stampa indiana. Pagine e pagine riempite di ipotesi, cure, opinioni le più varie, teorie di complotti e dita puntate verso questo e quello. Pezzi grossi della politica si dimettono (a proposito: qualcuno ricorda un ministro italiano che abbia fatto altrettanto, da piazza Fontana fino a Ustica?), la Rice si è subito fiondata sia a Delhi che in Pakistan a dire ragazzi piantatela un po’ di fare casino che abbiamo già i cavoli nostri da risolvere in Iraq e Afghanistan, poliziotti e militari si lamentano pubblicamente di essere stati mandati a morire, affrontando dei terroristi ben addestrati e dotati di armi automatiche, con dei moschetti utili solo per il museo dell’artiglieria, con una preparazione ai limiti del ridicolo ed un coordinamento pari a zero. Un poliziotto all’inizio della carriera guadagna meno di 50 euro al mese, al poligono non va perché i proiettili costano, viaggia su vetture coeve e perfino assomiglianti alla millecento Fiat degli anni sessanta. Nemmeno Rambo avrebbe avuto una chance. Figuriamoci della gente con l’uniforme sdrucita, scarpe da ginnastica da quattro soldi ai piedi e nella fondina una colt che sembra quella di Buffalo Bill.

La popolazione osserva il balletto delle accuse e delle responsabilità dei soloni del giorno dopo, quelli che sono capaci di sentenziare e offrire consigli non richiesti su cosa si sarebbe dovuto fare, a cose fatte. Ma la gente manifesta soprattutto il suo bisogno primario: continuare a vivere, mettersi dietro le spalle anche questa ennesima tragedia – molto somigliante alla nostrana strategia della tensione, seppur con quantità di attentati e numero di morti ben superiore alla orribile stagione italiana – le cui origini e motivazioni provengono dal mai risolto conflitto tra India e Pakistan per il possesso della contesa provincia del Kashmir. Guarda un po’ cosa si arriva a fare per due golfini.


Prima pubblicazione : 6 dicembre 2008

TJI (8)

I senzatetto più organizzati del mondo. Perfino in una società così perfetta, così puntuale, così organizzata, ci sono i barboni, gente che ha perso il lavoro nella recessione e non è stato più capace di trovarlo. Forse qualcuno invece ha fatto la scelta di non sottostare alle mille regole, vivendo come capita, in povertà ma libero da convenzioni e rituali ossessionanti.

Capelli lunghi grigi ornati da una fascia. Uno spolverino blu per ripararsi dal fresco della sera autunnale. Tutti i suoi pochi averi ordinatamente confezionati in due grosse scatole, una delle quali fissata ad un carrettino da valigie di recupero, trainato dalla sua oberata bicicletta, che spinge lentamente e con fatica, piedi a terra, come se fosse una antichissima draisina. Due ombrelli appesi davanti al manubrio.

E gli immancabili teloni blu. Gli homeless giapponesi li usano per foderare gli scatoloni di cartone con cui ogni sera si costruiscono un giaciglio al riparo dagli elementi, e soprattutto dalla vista dei loro conterranei allineati. Quasi si vergognassero di esistere. Scivolano silenziosi nelle vie semideserte, alla ricerca del loro rifugio notturno. Nessuno li degna di uno sguardo, né loro lo cercano dai rari passanti. Due mondi che convivono ignorandosi.

Scatole blu

Tokyo. Una città i cui ritmi sono esatti al secondo. Se ne ha la prova fin dall’arrivo. Gli autobus che portano in città dall’aeroporto giungono con precisione cronometrica all’imbarco dei passeggeri. Gli orari tengono conto delle condizioni del traffico, variabili a seconda dell’ora, e ti dicono in quanti minuti arriverai a destino, senza tema d’errore.

L’auto personale non solo è un lusso, ma è resa quasi superflua dalla straordinaria efficienza del sistema di trasporto pubblico. Qualsiasi sia il mezzo. Perfino i piroscafi di servizio sul fiume sembra che abbiano stipulato accordi segreti con la corrente del corso d’acqua, per far sì che la navigazione sia sincronizzata con le tabelle degli orari.

Troppo perfetta per sembrare vera. Una società senza macchie apparenti. Vero? No. Come già mi era capitato a Seoul, mi sono domandato: ma i poveri, i senzatetto, gli emarginati, non esistono, qui? Esistono. Ho dovuto fare un giro in battello per trovare la risposta. Per scoprire e capire. La riva, due stretti camminamenti in cemento che le acque lambiscono minacciosamente, è punteggiata da scatole parallelepipediformi, tutte scrupolosamente foderate con teli di plastica blu brillante. Tutte della stessa misura. Tutte dello stesso colore. C’è un rigore tutto nipponico in quell’immagine.

Sono le case degli homeless, dei senzatetto, mi spiega il mio anfitrione, indicandole con un velato ma percepibile imbarazzo. Anche queste ordinate, precise, minimaliste, lindamente impacchettate dalla mano di un maestro di origami. Piccole, certo, ma prima di giudicarle tali bisogna avere visto le stanze di certi alberghi.

Però queste microcase di cartone, ad un’attenta analisi, rivelano una caratteristica che le rende uniche e profondamente differenti da tutto il resto. Sono distanti l’una dall’altra. Spazi sconfinati le separano, stando ai parametri giapponesi. In una nazione assillata dal risparmio di spazio, dove si vive come pesci in un acquario troppo piccolo, sempre alla ricerca di difficili equilibri per sfiorare ma non toccare il prossimo, forse gli unici che godono del privilegio di sperperare lo spazio sono proprio questi homeless fluviali.

Nessuno degli integrati si sognerebbe mai di spingersi fin qua, ad invadere con la propria presenza gli ampi interstizi tra una scatola blu e la successiva. I pochi abitanti di questa sponda negletta si scaldano al tiepido sole quasi invernale. Dignitosi e compunti, si scambiano saluti da lontano, talmente lontano che quasi non ci credono nemmeno loro. Non hanno altro. Se non quella casetta di cartone foderata di azzurro, in cui entrano inginocchiandosi carponi, da tanto è bassa. E la libertà di muoversi, senza usurpare il territorio di qualcun altro. Poveri di risorse materiali, ricchi di spazio. Paradossi del Giappone.

Prima pubblicazione : 16 novembre 2007

venerdì 25 novembre 2011

TJI (7)

Privilegi. Abbiamo... il menu in inglese. Così poco comune da pubblicizzarlo perfino sulla vetrina di questo ristorantino con la pretesa di servire cibo italiano (sì, va davvero di moda la nostra cucina). Per fortuna molti posti rimediano alla carenza di una lista leggibile esibendo fotografie (da indicare con il dito, come degli analfabeti) oppure con i finti piatti in vetrina (già più complicato, o si memorizzano le didascalie e poi si tenta la sorte cercando di riconoscerle sulla carta scritta in giapponese, oppure occorre portarsi fuori il cameriere ed ammiccare qua e là sperando che capisca e non sia strabico. Perché chi serve in un ristorante di solito non sa neppure qualche parola di inglese basilare.

Quindi, o imparate voi a ordinare in giapponese, oppure dieta!

giovedì 24 novembre 2011

TIJ (6)

Sbagliano meno in italiano che in inglese, quando scrivono i menu – e non solo. Sulla vetrina di questo ristorante di Osaka uno chef che deve aver trascorso del tempo dalle parti di Torino richiama gli avventori proponendo, oltre a risotti e prosciutto di Parma, perfino le verdure in Bagna Cauda. O basta là!... Sarà di sicuro un argomento di conversazione per i giapponesi, sempre curiosi di provar cose nuove. Bagna cauda? Che cosa è, non l’ho trovata nemmeno nel dizionario. Per forza, è il dialetto del posto. Acciughe e aglio? Burro e latte? Ma che roba. Assaggiamo, assaggiamo. Peccato che la salsa (sauce) diventi la sorgente (source). Chef Tanaka, per favore: a scuola d’inglese.

mercoledì 23 novembre 2011

TIJ (5)

Straordinarie imitazioni. È risaputo che i giapponesi sono maestri nel riprodurre in plastica le sembianze di quasi ogni cibo ammannibile da un ristorante. Ma queste ostriche in vetrina meritavano una foto. Indistinguibili dall’originale. Se ne mischiaste una in un piatto da dozzina, nessuno saprebbe dire – senza punzecchiarla con la forchettina – quale sia quella finta. Quanto estro artistico e manuale sprecato nel confezionare freddi simulacri di porzioncine di cibo...

martedì 22 novembre 2011

TIJ (4)

Wanted. Era dai tempi dei film spaghetti western e dei fumetti di Tex Willer che non vedevo questa scritta. Ma qui non siamo nel far west, bensì davanti ad una stazione di polizia di Kyoto. Poi qualche solerte poliziotto mi dovrebbe spiegare come faranno a riconoscere la signorina Pinco Pallino, con tanto di regolamentare mascherina per evitare ai vicini di respirare i propri germi, e addirittura gli occhiali specchiati, per meglio celare i tratti del viso. Dalla borsina color malva forse? Questi identikit li stila un locale appassionato della Settimana Enigmistica?

lunedì 21 novembre 2011

TIJ (3)

Solo in Giappone trovi una signora che, nel ricevere una chiamata sul cellulare, scende dalla bicicletta, la mette sul cavalletto, e solo allora risponde. La regola è, seguire le regole. Ma il meraviglioso è vederla così accoccolata sul telaio, la mano a far da scudo alla bocca, quasi fosse alla ricerca di una invisibile cabina che la isolasse dal mondo esterno. Non perché la strada fosse rumorosa, anzi, era quasi deserta di traffico. Perché ti insegnano il sano concetto che con il tuo chiacchiericcio puoi disturbare i passanti. Non solo si sussurra nel telefono, ma ci si accuccia per cercare di nascondere ancor meglio le onde sonore emesse.

Italiani: imparare, per favore.

domenica 20 novembre 2011

TIJ (2)

Solo in Giappone sono riusciti a farsi dare il permesso, da quei burberi scozzesi che così tanto tengono al loro prodotto più famoso nel mondo, per poter produrre localmente il distillato di malto: e legalmente possono chiamarlo whisky.

E come tutto quello che imparano andando a fare lunga esperienza sul posto d'origine, per poi riportare in patria le conoscenze acquisite, lo sanno fare anche bene. Kanpai, anzi slàinte – ma mi raccomando, non dite cin cin, che non sta bene.

sabato 19 novembre 2011

TIJ (1)

Scimmiottando l’acronimica invenzione di un vecchio conoscente, ecco una nuova rubrica che racconterà – per immagini – aspetti curiosi e peculiari della terra del Sol Levante: This is Japan.

Forse solo in Giappone sono così previdenti da mettere una ciambella di salvataggio – ben visibile ed accessibile, alla bisogna – nei pressi del fossato che circonda un castello. Perché anche nella terra dell’educazione, del rispetto, delle buone maniere può capitare il bambino che sfugge di mano alla madre, il ragazzo che giocando scivola, il disattento che – nel tentativo di nutrire i koi, le bellissime carpe multicolori giapponesi, va a finire a mollo. E i giapponesi non sono famosi per esser dei gran nuotatori.

Prevenire è meglio che curare. Sempre.