giovedì 31 marzo 2011

Edizione straordinaria

Così gli strilloni, con fasci di giornali affastellati sul braccio, preannunciavano clamorosi colpi giornalistici e stuzzicavano la curiosità dei passanti, forzandoli all’acquisto del quotidiano ancora odoroso d’inchiostro, nell’epoca in cui la carta stampata riusciva a concorrere (per scarsità di mezzi avversari) con la neonata televisione.

Preso da incontenibile entusiasmo per la scoperta di uno spettacolare oggetto, non resisto all’urgenza di renderlo di pubblico dominio e – senza aspettare la consueta cadenza domenicale – passo all’immediata esegesi di tale capo d’opera.

Il Konkatsu Bra è un’ulteriore prova della inesauribile creatività giapponese – quando si tratta di coniare prodotti strampalati – coniugata alla tecnologia, scienza nella quale i nipponici sono sempre stati all’avanguardia. Donne in cerca di marito, ma troppo indaffarate o pasticcione e un po’ smemorate, dite la verità: sentivate proprio la mancanza di un reggiseno che sfoggiasse un’accurata contabilità dei giorni mancanti – secondo le vostre previsioni – al fatidico evento. Un contatore digitale simpaticamente inserito nel corpetto vi tiene costantemente al corrente di quanto tempo vi rimane per gestire tutti i preparativi. La scritta impunturata nel pizzo recita perentoriamente: sto cercando marito. Roba da domandarsi che effetto (non necessariamente corroborante…) sortisca tale dichiarazione d’intenti nel partner giunto faticosamente al grado di intimità necessario ad appalesare cotali pregiate lingerie di pizzo.

Ma il pezzo da novanta è l’originale decoro rosato a forma di cuore posto fra le coppe. All’inserimento nella fessura in esso ricavata dell’anello di fidanzamento finalmente ricevuto quale solenne promessa di imminenti sponsali, ecco che dal pregevole manufatto si sprigionano le toccanti note della Marcia Nuziale di Mendelssohn.

Imperdibile davvero. Reggiseno cercamarito: mai più senza.

Prima pubblicazione : 14 maggio 2009

martedì 29 marzo 2011

I miserabili

Dormire sotto un ponte. Non è una faceta iperbole. È la realtà di tanti senzatetto in una Mumbai caotica e ribollente di umanità. Ogni giorno passo davanti ad una piccola tribù che ha preso residenza sotto un poderoso viadotto, e qui conduce la sua gramissima esistenza. Nel pomeriggio caldo ed inquinato di traffico rumoroso e puzzolente, un uomo dorme buttato per terra. Accanto a lui uno smilzo ma vigile cane sembra proteggerlo dal caos indifferente che gli scorre attorno. Alcune donne, assorbite nelle desolanti incombenze quotidiane, si muovono lentamente d’intorno, mentre un numero imprecisato di bambini, sporchi e macilenti, giocano col nulla che hanno. Un essenziale, liso, immondo bucato, montato su gracili pali di bambù, si protende verso il traffico, sventolando mestamente al passaggio delle macchine. Un’amaca sottesa tra il pattume culla un poppante seminascosto dalla fitta tramatura, schermandolo nel contempo dallo squallore in cui forse è venuto al mondo.

Ci sono immagini che non so fotografare, se non con le parole di un racconto. Visioni troppo potenti per cancellarle da dentro, e troppo crudeli per umiliare ulteriormente questi reietti derubandoli dell’ultima miseranda ricchezza loro rimasta: la dignità dell’anonimato.

Prima pubblicazione : 4 dicembre 2009

domenica 27 marzo 2011

Vent’anni dopo

Un tributo alla rivista di cui oggi in Italia si sente una lancinante mancanza. Cuore.

Rileggete questa copertina. Genio puro e capacità di sintesi straordinaria. Ci sono più sarcasmo, veemenza, disprezzo verso il potere in queste poche righe che in molti mesi di riviste e programmi televisivi dell’odierna presunta satira. Robetta all’acqua di rose: fa finta di essere alternativa, fa ridacchiare un po’ sguaiata. Ma per carità, attenti a non offendere o indispettire qualcuno con del potere, se no sono guai. Una satira frivola e puerile, senza un briciolo della passione e della rabbia che infervoravano il manipolo di talenti guidati da Michele Serra.

Vent’anni che ci manchi. Torna, Cuore.

sabato 26 marzo 2011

Priorità

Umorismo – si spera involontario – sul sito di La Stampa. Giustapposizione di due foto e di due testi con un elemento comune, ma che più estranei fra di loro non potrebbero essere. Gente che fa la coda per un pezzo di pane e del latte. E altra che la fa – per trentadue ore!?! – per l’ambìto privilegio di essere il primo possessore dell’ultimo gadget elettronico (fra sei mesi ne uscirà un altro che renderà questo odierno prodigio un oggetto del triassico).


Italia: terra di priorità differenti. Anche per le code.

I raccomandati

Siete alla ricerca di una sospirata promozione? Avete cercato di mettervi in luce presso il vostro superiore, non disdegnando talora condotte ai limiti dell’etica professionale? Siete stufi del vostro cubicolo ed aspirate a un luminoso ufficio d’angolo, nuovi arredi e pianta sempreverde? Vi sentite il Fantozzi di turno, e la vostra fantasia erotica proibita è svegliarvi un giorno Direttore Naturale Planetario, con tanto di poltrona in pelle umana e acquario con gli impiegati che nuotano?

Ecco un oggetto che raccomando fortemente di non tenere sulla vostra scrivania. Il capo potrebbe fraintendere, e pensare che tutto l’attaccamento aziendale da voi dimostrato non sia poi così sincero.

Orologio “conto alla rovescia al weekend”. Mai più senza. Ma solo se avete già una lettera di assunzione da un’altra parte. O una raccomandazione a prova di bomba.

Sempre a proposito di ufficio. Trascorrete almeno otto – e talvolta anche di più – ore alla scrivania. Ogni giorno. I vostri colleghi vi sono più familiari di chi vi aspetta a casa. L’azienda è come la vita, siete circondati da un florilegio di caratteri. Simpatie, antipatie, indifferenze, attrazioni. A chi non è capitato il collega piagnone, sempre sbadato, sempre senza una lira in tasca quando serve, sempre pronto a scroccare una sigaretta al caffè? Una macchietta. Fosse una situation-comedy. Ma avercelo accanto tutti i giorni sviluppa istinti inconfessabili.

Il questuante di professione passa i limiti della decenza quando si azzarda a chiedervi il panino che vi stavate accingendo a gustare nella pausa tra una grana e la prossima. E lo fa con arte, il vile. Sai, tanto tu devi per forza finire quella pratica. Stamattina non ce l’ho proprio fatta a passare dal bar (voi pensate: e vacci ora, farabutto, i bar non sono mica uffici comunali, di solito hanno il curioso vezzo di tenere aperto all’ora di pranzo). Nel frattempo fa gli occhi da cucciolo bastonato e ammicca languidamente all’incarto del vostro risicato pranzo. Irresistibile attore, il manigoldo.

C’è un rimedio, per rendere inappetente anche il più caparbio dei parassiti che infestano ogni ufficio. Mettete il vostro sandwich non nel solito cartoccio untuoso ma promanante appetitosi effluvi di prosciutto e maionese. Da oggi usate la busta trasparente, sigillata, con stampate su delle disincentivanti macchie di muffa. Lo scroccone vi rifuggirà come uno scarafaggio il flit.

Bustina per panini con le macchie di muffa. Mai più Senza – in ufficio!

Prima pubblicazione : 21 febbraio 2010

giovedì 24 marzo 2011

Turbati dal turbante

Non capita tutti i giorni di vedere il nome dell’Italia nei titoli a scorrimento dei notiziari esteri. Non facciamoci illusioni, non siamo così importanti negli scenari mondiali. E allora perché continuano a fare vedere il nostro nome, associato ad immagini di parlamentari indiani, uomini e donne, che sembrano fare dichiarazioni di fuoco, a giudicare dalla foga dell’eloquio e dal gesticolare scalmanato?

Presto detto. L’allenatore di un golfista indiano, Amritinder Singh, di religione Sikh, per due volte in due settimane è stato costretto a spogliarsi del turbante su invito della sicurezza aeroportuale di Malpensa. Io capisco che gli addetti degli aeroporti non saranno dei laureati in religioni orientali, e potrebbero – dico potrebbero – non essere al corrente del forte significato rituale che il turbante rappresenta per i Sikh. Non conosco i regolamenti e quanto essi siano attenti e dettagliati nel sancire cosa può passare e cosa no, durante i controlli doganali. Quindi mi astengo dal puntare a priori il dito contro la presunta mancanza di sensibilità dell’addetto in questione. Fatto sta che in India i politici hanno fatto un can-can fenomenale. Ambasciatore italiano convocato d’urgenza e costretto – da buon diplomatico – ad aggiustare i cocci, rappresentando il dispiacere proprio e del governo italiano per l’increscioso episodio, ed assicurando che indagini sono in corso. Belle parole. Chissà se davvero seguiranno fatti concreti. Il ministro degli affari esteri Krishna dichiara che l’offesa ad un Sikh offende l’intero popolo indiano. Addirittura c’è chi vuole portare la faccenda davanti all’ONU, per sensibilizzare il mondo intero sulla mancanza di rispetto per le altrui credenze religiose.

Io la vedo così. La sicurezza aeroportuale è una cosa seria. Però sarebbe bastato poco per evitare l’incidente diplomatico. Bastava un controllo tattile, senza costringere a smontare gli otto metri di fettuccia davanti a tutti. Se ci fosse stato dell’esplosivo, si sarebbe sentito. E poi, visto che i nostri giornali trattano la cosa con una certa leggerezza: una pistola nascosta sarebbe stata rilevata dal metal detector, anche se il turbante rimaneva piazzato sulla testa del signor Singh. Irrispettoso è stato depositarlo negli stessi contenitori che ospitano le scarpe tolte dai passeggeri (indipendentemente dal significato religioso attibuito al turbante, anche a me farebbe schifo appoggiare il cappello dove sono appena state spalmate le suole di qualcuno che magari ha pestato poco prima una cacca di cane; fate un po’ voi). Infine: c’è qualche italiano che si offenderà, se gli dico che appartiene alla setta cattolica? Perché esattamente così è stata descritta la religione Sikh da certa nostra stampa: setta. Allora cerchiamo di essere equi: le religioni o sono tutte delle sette, oppure non ce ne sono alcune più belle e furbe che si meritano rispetto e altre che possono essere trattate come stramberie di gente che va in giro con una fusciacca in testa. Se no si potrebbe trovare altrettanto da ridere – e ridire – sul fatto che ci siano degli esponenti di alcune ben note sette che vanno in giro con dei gonnelloni neri lunghi fino ai piedi, oppure con dei cordoni nodosi legati in vita (e questi non sono armi improprie da strangolamento, per i solerti controllori di Malpensa?), e altri ancora con delle tovaglie da picnic drappeggiate in testa. Per non parlare di chi predica umiltà e povertà, e poi va in giro carico di monili e con una stola di ermellino che nemmeno Wanda Osiris dei tempi d’oro.

Mentre i politici manifestano disapprovazione e biasimo, il popolo indiano manifesta tutta la sua gioia. La nazionale di cricket ha appena strapazzato l’Australia campione del mondo in carica. In una tiepidissima serata baciata da una brezzolina confortante, degli amici indiani hanno avuto la suprema pazienza di spiegarmi le regole fondamentali di tale gioco, facendomelo finalmente intendere. La loro crescente allegria si è trasformata in entusiasmo, davanti al comunitario maxischermo da ristorante all’aperto, quando l’ultima palla è stata scagliata fuoricampo dal battitore indiano, e gli australiani hanno capito che era l’ora di preparare le valigie. Tra pochi giorni la sfida di semifinale, densa di tensioni politiche, razziali e religiose: India contro Pakistan.

Ma siccome il cricket alla fine è solo un gioco, anche se dagli interessi milionari in India, vi rinvio su un vecchio racconto, scritto quando non capivo ancora un’acca di batsmen, wickets, runs, over e sixes, ma certe cose mi suscitavano un’irrefrenabile ilarità. Streaker al cricket.

mercoledì 23 marzo 2011

Sono umani

Ricordate l’Italia durante i mondiali di calcio? Beh, in India sta succedendo la stessa cosa. Stanno ospitando (probabilmente il 99% degli italiani ne è all’oscuro) il campionato mondiale di cricket. E domani è il gran giorno della sfida diretta. India – Australia, quarto di finale e derby per eccellenza delle ex-colonie dove – mutuato lo sport dalla madre patria imperiale – la passione per questo gioco rasenta limiti da noi conosciuti solo per un’Italia Brasile finale di Coppa Rimet.

I giornali abbondano di pagine sportive, con analisi tecniche, pareri di vecchie glorie, confronti, statistiche e tutta l’inutile paccottiglia giornalistica che fa leggere e dibattere i tifosi. I prodi indiani partono sfavoriti dalle congetture e dagli allibratori, ma il fattore campo potrebbe farsi sentire.

Ma voltiamo pagina. Ecco una notizia degna di nota, dal Giappone terremotato. Qualcosa ci dice che non sono tutti dei mostri di precisione, compostezza ed onestà. Incredibile. Dalla camera blindata di una banca, i cui sistemi di sicurezza sono stati mandati in tilt dal sisma e dallo tsunami, lasciando il forziere arrendevolmente aperto e vulnerabile, sono spariti quaranta milioni di Yen, al cambio 350 mila euro. I locali erano allagati, tutto era sottosopra, e qualcuno ha rubato il denaro per via del caos. Così hanno dichiarato i funzionari dell’istituto di credito alla polizia, ben undici giorni dopo il terremoto. Eh, certo. Il disordine è la causa di tutti i mali.

Chissà che scandalo. Rubare da una banca. Robe da matti. Ma allora sono umani. Qualcuno ha trovato la porta aperta e non gli è parso vero di sovvenzionarsi autonomamente la ricostruzione, senza aspettare le lungaggini burocratiche, che non si sa mai come vanno a finire e in che condizioni ti ritrovi ad abitare.

Spero proprio che alla fine non salti fuori che sono stati dei cinesi. Sarebbe una grossa delusione.

Torniamo al cricket, e in diretta: il Pakistan ha appena battuto le Indie Occidentali (West Indies, mai sentite? Per forza! Non le potrebbero chiamare Caraibi, così tutti capirebbero da che parte del mondo viene questa gente?) nel primo quarto di finale. L’ansia cresce perché, se per caso domani l’India superasse l’Australia, i due acerrimi rivali non solo sportivi, India e Pakistan, si scontrerebbero in una semifinale di fuoco il prossimo 30 marzo. Non vorrei essere da quelle parti quel giorno. Ma non facciamo i conti senza l’oste, ci sono i giallo-verdi Aussies sul cammino della gloria. A domani, con i risultati del gran match, ed un racconto sul cricket a sfondo umoristico, che mi piace riproporre vista l’attualità del tema.

martedì 22 marzo 2011

Horn please

Avete presente gli autoscontri, divertimento centrale e cuore pulsante di antichi luna park di periferia? Mentre una musica infernale si riversava sull’arena coperta e liscia come un patinoire, ottundendo le meningi degli equipaggi, e una folla di sfaccendati stava in agguato ai bordi, in attesa che si liberasse un’automobiletta per il prossimo giro, dei ragazzetti imberbi ma già brufolosi azzardavano i primi, titubanti approcci verso il gentil sesso, speronando ripetutamente il bersaglio, di solito costituito da coppie di allampanate fanciulle schiamazzanti a tal punto da superare i feroci decibel dell’amalgama di note fluenti da due colossali altoparlanti neri da balera. Alla cassa, procace erogatrice di gettoni, stava seduta una grassa matrona, gli occhi bistrati come un tucano, che si vociferava fosse stata una maitresse, disoccupata dalla legge Merlin e riciclatasi nel mondo girovago dei giostrai. Massima ammirazione, per la sua inveterata perizia, suscitava il tenutario di tale attrazione, spesso dotato di cospicui bicipiti, che si esibiva nel plateale recupero dei mezzi abbandonati in mezzo alla pista, conducendoli con la nonchalance dei forti, ritto in piedi – prode nocchiero in gurgite vasto – sul bordo gommoso della vetturetta, fumando una sigaretta non di rado arrotolata da sé e briciolosa di tabacco, reggendosi con una mano all’asta dell’antennone atto a suggere energia dalla maglia elettrificata a soffitto, sfrigolante nel contatto come una tegliata di fritto di pesce in piazza a Camogli, e dirigendo a una mano quando non direttamente con un piede, prensile alla maniera dei babbuini, sul volante. Le adolescenti in libera uscita pomeridiana, trasognate, spasimavano per l’adulto fustacchione, manco fosse Marlon Brando, vagheggiando un suo bacio ardente o poco più, per il maggior avvilimento degli apprendisti corteggiatori, peraltro senza speranza per carenza di età ed eccesso di acne.

Ebbene, il principio ispiratore del traffico indiano si basa su un presupposto uguale e contrario. I mezzi di locomozione, quali che siano, si muovono in tutte le direzioni senza un’apparente logica, come formiche deliranti in una nube di flit. Anarchia organizzata. Tal quale l’autoscontro di giovanile memoria. Ma lo scopo è opposto: percorrere la maggior distanza possibile evitando di toccare qualsiasi altro veicolo (vale anche per i pedoni, numerosi e taluni dal dribbling ubriacante meglio di Sivori) venga a trovarsi repentinamente sulla propria traiettoria. Ci sono veri maestri di questa arte, e nei pochi giorni di permanenza a Delhi ho avuto il piacere – se così si può dire – di incontrarne più d’uno. La prima, basilare regola di guida è usare il clacson ogni circa dieci o dodici secondi. Anche se non c’è nemmeno un cane in strada (raro, ma può capitare). Se poi si tratta di impegnare un incrocio o meglio ancora una rotatoria, l’uso della tromba diventa non solo consigliato, ma obbligatorio. Ne scaturisce una cacofonia di suoni, nella quale si liquefa la manuale e vana fatica dei ciclisti i quali, per non essere da meno, si consumano le dita sul campanello.

Mi correggo. Una rotonda non si impegna, si aggredisce. Il rinomato tassista autoctono vi entra con imperio, senza mollare per un istante l’acceleratore, e infischiandosene se è in rotta di collisione con una miriade di mezzi, biciclette e autorisciò, vetture di taglia simile e torpedoni ansimanti e tenuti insieme da strati geologici di vernice. Su uno di questi ho letto una scritta, vergata a mano sotto il lunotto posteriore: horn please. Per favore, suonate. Come se ci fosse bisogno di invitarli a farlo.

Precedenza? Concetto sconosciuto. Vince chi mette il muso davanti all’altro. E il bello è che funziona. Chi si vede la strada tagliata, ammette serenamente la sconfitta, rallenta, si ferma, talvolta inchioda di colpo. Nessuno scende con il cric in mano per farsi giustizia sommaria, ma continua il proprio tragitto, placido come le mucche, oziose nel bel mezzo delle strade, e neanche uno che osi disturbarle. I tassisti fanno segno al forestiero appena salito a bordo accanto a loro di indossare le cinture: non temono multe dai vigili, ma parabrezza sfondati a testate da passeggeri stranieri non avvezzi a reggersi saldamente.

Benvenuti in India, la più immensa pista di autoscontri del mondo. Buon divertimento. Ah, e non dovete nemmeno passare dall’ex-ruffiana a comprare i gettoni. Si paga alla fine del giro. Come per i lanci col paracadute, il bungee-jumping e gli ottovolanti, una doverosa avvertenza: fortemente sconsigliato ai cardiopatici.

Prima pubblicazione : 10 dicembre 2008

lunedì 21 marzo 2011

Irlanda (ma anche Italia...)

An Irish daughter had not been home for over a year. Upon her return, her Father cussed her.

'Where have ye been all this time? Why did ye not write to us, not even a line? Why didn't ye call? Can ye not understand what ye put yer old Mother thru?'

The girl, crying, replied, 'Sniff, sniff... Dad... I became a prostitute...'

'Ye what!!? Out of here, ye shameless harlot! Sinner! You're a disgrace to this Catholic family.'

'OK, Dad - as ye wish... I just came back to give mum this luxurious fur coat, title deed to a ten bedroom mansion plus a $5 million savings certificate. For me little brother, this gold Rolex. And for ye Daddy, the sparkling new Mercedes limited edition convertible that's parked outside plus a membership to the golf club... (takes a breath)... and an invitation for ye all to spend New Years Eve on board my new yacht in the Riviera and... '

'Now what was it ye said ye had become?' says Dad.

Girl, crying again, 'Sniff, sniff... a prostitute Daddy! Sniff, sniff.'

'Oh! Be Jesus! Ye scared me half to death, girl! I thought ye said a Protestant. Come here and give yer old Dad a hug!'


Una ragazza irlandese manca da casa da più di un anno. Al suo ritorno, il padre la affronta a male parole:

Dove sei stata tutto questo tempo? Perché non ci hai mai scritto nemmeno un rigo? Almeno chiamarci!! Non pensi a quello che ha patito la tua povera madre?

La ragazza, piangendo, gli risponde: Papà… sono diventata una prostituta...

Che cosa?? Fuori da questa casa, svergognata! Peccatrice! Sei il disonore di questa famiglia cattolica.

Va bene, papà. Come vuoi. Ero solo tornata per regalare a mamma questa lussuosa pelliccia, l’atto di proprietà di una villa e dei titoli per cinque milioni. Questo Rolex era per il fratellino. E per te, papà, la sfavillante nuova Mercedes che è parcheggiata qui fuori, e la partecipazione in un golf club... e dopo un sospiro, aggiunge ...più l’invito per tutti voi a trascorrere le vacanze sul mio yacht in riviera, e...

Ridimmi un po’ che cosa sei diventata?, l’interrompe il padre.

E la ragazza, continuando a piangere, una prostituta, papà, una prostituta!

Oh, santo cielo, ragazza mia, mi avevi spaventato a morte. Avevo capito Protestante. Vieni qui e abbraccia il tuo vecchio genitore!!

domenica 20 marzo 2011

Compagni che abbagliano

Ultima puntata della trilogia dedicata a Shanghai ed alle sue immagini.


Fanno la fila, come dal dottore, aspettando il loro turno al parapetto. Tante coppie di sposini bianchi candidi, quali colombe dal disio chiamate. Avanti il prossimo. Ecco, tocca a loro. Circondati da una calca domenicale trasandata e ciabattona che mangiucchia, sputacchia, addita e ridacchia. Ma loro non se ne curano. Lui si perde nel viso di lei, lei scruta lontano, oltre la suburra, con uno sguardo intenso e affettato da attrice, alla Gong Li, musa ispiratrice di tante giovani cinesi. Folla, fotografi, parabole argentate, assistenti al soglio che reggono il velo. Divi per un minuto. È tutto quello che chiedono alla vita. Domani si torna in fabbrica.

Hanno cominciato loro. Antica scusa da bambini, quando le mamme dividevano marmocchi maculati dalle botte che si erano dati. Chi ha cominciato?, chiedevano fintamente severe. Lui, era la risposta all’unisono, con reciproci additamenti. Ma questa volta hanno davvero cominciato loro. Stavo studiando verso che ora non avrei più avuto impedimenti umani a fotografare la casa da tè in mezzo al laghetto (probabilmente oltre la mezzanotte, a giudicare dalla inesauribile folla), quando mi sono accorto che la fanciulla, armata di un ilare sorriso, mi stava puntando addosso il telefonino. Mi sono girato, per capire cosa ci fosse di così rimarchevole dietro di me. Nulla, se non altra folla. Ero proprio io il soggetto. Un laowai originale al punto da fotografarlo? Mah. Alla piccola ritrattista però non bastava. Ha spinto il suo filarino, capelli e occhiali da clone di boy-band taiwanesi (ognuno ha i take that che si merita), a mettersi in posa accanto a me. Dovrò indagare. Forse assomiglio a una vecchia gloria locale, pensionata da concerti rock. A questo punto, per ricambiare la cortesia, non ho potuto esimermi dal ritrarli insieme. Sapessi dove trovarli, glielo manderei, questo scatto. Quella piccola, gioiosa adolescente mi ha regalato un sorriso di una serenità e di una dolcezza indimenticabili. Felicità è: farsi ritrarre stretta al proprio amoruccio, all’imbrunire, come sfondo l’icona del romanticismo shanghainese.

Lo confesso. Ci sono foto che vorrei scattare, ma non so se chiederlo, e come. O se rubarle, di sottecchi, sperando che vengano bene. Non tutti hanno piacere ad esser ritratti da uno sconosciuto, ed io detesto i rifiuti. Ma quando ho visto questo lui, dai tratti più berberi che orientali, fotografare la sua metà, non ho resistito. L’inconsueto mi tira sempre fuori la sfacciataggine. L’ho agganciato con la più classica delle profferte, a cui quasi nessun turista sa resistere (e talvolta se ne pente): dammi la macchina che vi faccio una foto insieme. Sono i momenti in cui capisci se ispiri un’istintiva fiducia nel prossimo. Insomma, dopo lo scatto di prammatica – impettiti e contegnosi, davanti all’ennesimo fantoccio color puffo sbiadito, simbolo dell’Expo universale del prossimo anno – ho chiesto loro di ritrarli di nuovo, ma con la mia. Un diniego, a questo punto, era fuori questione. Quel delicato, quasi formale e per nulla coprente velo di pizzo nero, ben diverso dall’opprimente sudario delle saudite, ne rivelava l’appartenenza alla non irrisoria comunità mussulmana cinese. Lei aveva un’espressione di stuporosa meraviglia, da bambina trasportata nel mondo delle fiabe, lui sapeva addirittura buttare lì quattro parole di inglese. Siamo del Qinghai, mi ha detto quando gli ho domandato da dove venissero, e lo stupore si è trasformato in entusiasmo alla scoperta che uno straniero (Italia? Dov’è l’Italia?) non solo fosse a conoscenza della semplice esistenza di questo luogo, ma perfino sapesse collocarlo mentalmente sulla mappa cinese, laggiù, vicino all’irrequieto Tibet. Più conosco persone, più concordo col paradosso di Carlin. Ci sarebbero meno guerre, se ci fosse più comprensione della diversità degli altri. Che talvolta può essere affascinante, bellissima e arricchente.

Prima pubblicazione : 20 marzo 2009

sabato 19 marzo 2011

Umori e rumori. Sapori e vapori - 2a parte

Segue da ieri, con altre immagini di una Shanghai fuori dalle cartoline e dai cataloghi delle agenzie.


Un banchetto semovente di nastri, fermagli per capelli e passamanerie. Ma il capolavoro è in primo piano: il morbidoso copriasse in ciniglia fantasia, per coscette delicate e sensibili al crudo contatto con la villana plastica. Roba da sconfinare in Mai più senza.

Altezza e peso, recita la scritta. L’attività commerciale più compatta e portatile del mondo. Ben in vista la batteria stile auto anni sessanta – con due inadeguati cavetti da abat-jour – cuore energetico del marchingegno. Tutte le volte che passa uno, l’ometto ne attrae l’attenzione con un pulsante che avvia un lancinante e insopportabile carillon. C’è gente che si pesa pur di farlo smettere.

Sarà stata l’ora pomeridiana in cui non hai ancora fame, piuttosto voglia di qualcosa di buono, sarà stato il mio adorare la fragranza dei semi di sesamo che si sprigiona mentre li frantumi fra i denti a mo’ di macine da pepe, forse la suprema sciatteria della presentazione che faceva presagire pura sostanza e nessuna necessità di forma... fatto sta che con due kuài, (quattrocento sessanta lire?!?), il primo pezzo della pila di deformi focacce ben dorate, ancora tiepido e profumatissimo, è scomparso nelle mie fauci, previo taglio ed insacchettamento in una cancerogena bustina di plastica. Non ho osato chiedere che cosa fosse il liquame rappreso giallo-verdognolo nell’angolo basso del teglione. Ci sono cose nella vita che non si vogliono sapere.

Giapponese in libera uscita domenicale (riconoscibile da due segni rivelatori: scarpe da ginnastica di valore pari a tre stipendi di un operaio alle sue dipendenze, e regolamentare rispettosa mascherina sulla bocca, a proteggere l’ambiente circostante dai germi patogeni del suo apparato orofaringeo) dedito alla selezione di qualche film. Una panoplia di copie pirata di film recenti, recentissimi, ancora da uscire. Da domandarsi come fanno ad averli prima delle sale cinematografiche. Concorrenza sleale. Li compri, li guardi e li butti via: costano meno che noleggiarli da noi.

Ma quanti sono? Si fa fatica perfino a contarli. Tutti intenti, in quei quattro metri quadri, a preparare il piatto unico di uno dei ristoranti più frequentati di Shanghai. Xiăo lóng bāo, ravioli ripieni di un trito di maiale e polpa di granchio, cotti al vapore. Sigillati in serie, con mille piegoline perfette, da mani leste e abilissime: otto ore di paranoia, toglie il fiato vederli lavorare. Charlot in Tempi Moderni sembra un anacoreta in meditazione. Minareti di cestelli imbruniti da infiniti suffumigi si ergono ovunque, pronti al rapido schiaffo della nebbia bollente. Poi subito di corsa in tavola, e attenti alle scottature da spelarsi il palato: il brodino generato dall’impasto è delizioso ma occulto nel raviolo, e gran traditore di novizi dei cinque continenti. Buon appetito!

Domani terza e ultima puntata della miniserie Weekend a Shanghai: coppie.

Prima pubblicazione : 19 marzo 2009

venerdì 18 marzo 2011

Umori e rumori. Sapori e vapori

Finalmente una giornata di sole. Albeggia alle sei, e lo si capisce già dalla prima luce, che oggi sarà bello. Non è cosa da poco, in Cina. Specie nelle metropoli costantemente assillate da uno smog pesante che vela, quando non offusca. Occasione da cogliere al volo per annusare un po’ di Shanghai che sta scomparendo, divorata e soffocata da voragini vomitanti terra, propedeutiche a mastodonti da cinquanta piani in su. Questi torreggiano disarmonici su architetture di inizio secolo, umili casette a un piano che contengono ancora – ma chissà per quanto – un’umanità varia e affaccendata in essenziali mestieri quotidiani, crocchi di vecchietti ancora intabarrati che osservano due giocare alla dama cinese e bevono tè bollente da thermos col tappo di sughero, spacci minimi, botteghe senza orpelli, attività mobili su due ruote di carretto, vecchie rugose e bellissime e ridenti che selezionano verdure, accudiscono nipoti di pochi anni sporchi come spazzacamini, stanno a chiacchera sedute su panchetti bassi di legno, godendo i primi tepori primaverili come le lucertole.

È la Cina che preferisco. Non quella boriosa e supponente dei nuovi ricchi, divenuti tali così repentinamente da far perdere loro il senso della misura. Non quella dei grattacieli corruschi di cristalli, moderni specchi ustori che lanciano lame di luce riflessa su quelle povere case a mattoni vivi, a calce scrostata e cadente, su quei tetti polverosi ma dignitosi che hanno riparato generazioni di cinesi sopravvissuti a guerre, devastazioni, violenze, fame e perfino la rivoluzione culturale. Non quella che, dimentica di una cultura e di tradizioni millenarie, si riversa compatta nei templi del consumismo da fine settimana, centri commerciali multipiano e fast-food all’americana e caffetterie finto tali e cinema multisala coi popcorn e le bevande gassate nei bicchieroni di carta capienti come pitali.

Basta spingersi un po’ al di fuori delle solite quattro vie che trovi su tutte le guide, dove pascola la quasi totalità dei turisti, per scoprire angoli di Shanghai che ribollono di vita. Umori e rumori. Sapori e vapori. Artigiani che conoscono l’arte di arrangiarsi per sopravvivere. Un neorealismo che non è stato spazzato via dall’onda anomala dell’Olimpiade pechinese. Sono stati accantonati, per un po’, giusto il tempo di offrire ai visitatori una tantum l’immagine di una Cina progredita, moderna, ricca e senza anima. Ma poi, come marmotte al disgelo, hanno rimesso il naso fuori, annusato l’aria ritornata tollerante e detto, via libera. Ricominciamo. Eccoli.

Un friggitore di calamari e wurstel, infilati sullo spiedino di legno. Tanto fumo e un gran profumo.


Cinque emigrati dalle campagne, lavoratori edili, finito il turno, comprano da mangiare negli unici posti dove se lo possono permettere. Vivono in un container corredato di letti. Finito il cantiere, la loro casa sbaracca. E loro con lei.

Venditore di noci dell’ovest, forse Xinjiang. Con pazienza cinese, ha venduto mezzo sacchetto di noci alla signorina sorridente e capelluta – rompendole una per una con lo schiaccianoci. Quando si dice: servizio al cliente.

Succo dolcissimo e naturale di canna da zucchero, spremuto sul momento. A mano. Solo in Cina e in Brasile, così buono.

Artigiani all’aperto. Lei rammenda un paio di pantaloni alla macchina da cucire. Lui monta un portabiti che sembra fatto col Meccano. Il bimbo osserva perplesso dal girello. Domenica pomeriggio. Rossellini ci avrebbe fatto un film.

Lavavetri scalatori. Si calano dal tetto appesi a una corda e lavano la facciata. Gran fiducia nella robustezza della fune. Sotto ci sono dei compari che gliela tengono tesa. E badano che nessuno piova in testa alla gente in transito sul marciapiedi.

Miniserie in tre puntate: un weekend a Shanghai. Domani la seconda parte.

Prima pubblicazione : 18 marzo 2009

mercoledì 16 marzo 2011

Beffe, scherzi e cazzeggio

Ecco, se anche avessi avuto una mezza idea di provare ad andare a vedere il prequel di Amici miei, che esce oggi nei cinema, dopo aver sentito la conclusione della pubblicità alla radio mi è passata del tutto la poca fantasia che avevo.

Passi per i goliardi, parola con cui esordisce lo stacchetto radiofonico. I protagonisti – quelli veri, originali, ed irrimpiazzabili – non erano in età da goliardia da un pezzo. E proprio per questo erano ancora più gustose le loro burle, le loro zingarate, il loro ridere – faceto e amaro insieme – della vita, talora cattiva, talaltra ingiusta, ma mai, in fondo, presa troppo sul serio.

Già più difficile da accettare è una voce differente da quella di Tognazzi che ripercorre la liturgia della supercazzora, di antani, come se fosse antani, ma con scappellamento a destra. Sbiliguda. Solo quella voce suadente e a pres’ingiro poteva permettersi queste assurdità linguistiche. Morto lui, morto il conte Mascetti.

Ma la chiusura. Tre parole, beffe, scherzi e cazzeggio. Due banali, una idiota. Cazzeggio? Ma come parlate? Chi volete abbindolare con questo occhiolino strizzato ai giovani, al loro linguaggio adatto al pub ma non alla radio del pomeriggio? Cosa ci volete raccontare, che gli antenati di Sassaroli, Melandri, Mascetti, Necchi e Perozzi parlano come un diciottenne che guarda gli amici di Maria e il grande fratello?

Per favore. Rispettiamo i miti. Se nemmeno un genio come Monicelli ha sentito il bisogno di farne una quarta puntata, perché inventarsela ora? Soldi forse? Ne vedrete di sicuro. Non i miei.

Cronache da un Giappone ferito

Finalmente sono riuscito a risentire le voci dei giapponesi che conosco. Alcuni di loro. E da loro ho saputo che altri amici e conoscenti stanno bene. Tramite posta elettronica mi avevano dato notizie di prima mano, quasi in diretta, venerdì stesso. Ma udire una voce è un’altra cosa. Da quella di solito capti emozioni, timori, paure, gioia. Non da quella dei giapponesi, tuttavia. Dopo i primi momenti di fervore, la maschera cala di nuovo sul volto, e molto più dentro.

Le tivu ci aggiornano, ora dopo ora, sullo stato di quei reattori capricciosi che non ne vogliono sapere di farci vivere tranquilli, e già il panico è diventato internazionale, con allarmi e spauracchi di contaminazione nucleare che assillano Corea e Cina. Continuano a ripassare sullo schermo le immagini di quell’orrenda e irrefrenabile ondata nera che tutto travolge e tutto invade. Oggi, come in ogni terremoto che si rispetti, si ritrovano dei superstiti, sopravvissuti chissà come in mezzo alle macerie. Ma non si vedono né applausi, né high-five, né urla di gioia. I soccorritori non hanno né tempo né forse voglia per esultare. Troppo immane il disastro.

Ascolto la voce, dall’altra parte del filo, e penso: è impossibile. È una cronaca razionale e ragionata, senza il minimo abbandono all’emozione. Mi parla di lavoro, come se nulla fosse stato. Solo quando lo interrompo – ho già saputo da altri quello che forse avrebbe tenuto per sé – ammette di non essere ancora riuscito a parlare con i genitori, che vivono proprio nella prefettura di Miyagi. L’unica cosa che sa – e dici poco! – è che sono vivi. Ma la sorte della loro casa è ignota. E teme il peggio, avendo appreso che sono ospitati in un centro di accoglienza. La prossima settimana cercherò di raggiungerli, mi dice. Fa una lucida analisi dei rischi. I treni sono ancora fermi, i pilastri di supporto della massicciata crepati dal sisma. Di aerei nemmeno a parlarne, l’aeroporto ancora inagibile. L’unica maniera è andare su in auto. Se non mi blocco per strada, aggiunge: la benzina è razionata, e già scarseggia. Anche a Tokyo la corrente elettrica va e viene, le centrali nucleari sono ferme, manca potenza per alimentare quella che fino a venerdì scorso alle 14 e 46 non era una nazione ma una macchina perfetta, che non perdeva un solo battito.

Gli dico solo questo: ti parla un fratello, non un collega. Devi andare. Sono i tuoi genitori, non importa dove siano adesso, hanno bisogno di rivedere il proprio figlio. Vai e trovali.

Sorride confuso, e solo un orecchio allenato è capace di riconoscere un sorriso in una comunicazione non visiva. Mi ringrazia con un inconsueto calore.

La paura non è finita. Lo sarà quando sapremo che la minaccia di inquinamento atomico sarà rientrata. Ma questo stillicidio di notizie, un saliscendi di speranza e panico, miglioramenti apparenti e rischi rivelati, perdite sì o no, contatori geiger e uomini in tuta integrale, inquieta anche da lontano, e fa affiorare dubbi e domande retoriche: se neppure nel tecnologicissimo e attentissimo Giappone sono in grado di prevedere e controllare le incognite ed i mostruosi pericoli di una centrale nucleare, che speranza abbiamo di esser capaci di farlo noi, faciloni e approssimativi italiani, mal addestrati e peggio educati al rigido rispetto delle regole, indispensabili quando si maneggiano panetti non di burro o formaggini, ma di cesio, uranio o stronzio? Davvero vogliamo lasciare in eredità alle prossime generazioni una simile spada di Damocle? A noi, e non ai posteri, l’ardua sentenza.

E per concludere. Non è dedicato all’amico nipponico con cui ho parlato finalmente oggi. Perché so che la sua non è indifferenza ma capacità di mascherare ogni dolore e le forti angosce dietro ad una facciata di ineffabile calma. Suprema arte giapponese, raffinata in una vita di costante e pedissequo esercizio. Ma il pensiero degli errori clamorosi che si fanno nello scegliere le priorità della propria esistenza mi ha attanagliato tutto il giorno. Così appropriati, mi sono tornati a mente gli iconografici versi del grande Michele Serra, tratti dalla poesia Febbraio, scritta nel 1981 “alla maniera” pascoliana. Trent’anni, e son sempre attuali. Li dedico ai tanti vanesi che, tutti presi dalle proprie vacue faccende, perdono di vista i veri valori, le cose davvero importanti nella vita.

Un sarto disegna gingilli
da vendere a cento milioni
ha il cancro ma pensa ai bottoni:
i sarti son tutti imbecilli.

domenica 13 marzo 2011

La piccola signora dai capelli grigi e il cucciolo di gatto nella borsa

Minuta, magra, denti radi e vestiti modesti, entra in un sushi bar di Kanda, Tokyo, con una borsina bianca di quelle da negozio, traboccante di roba. La poggia per terra e presto, con grande sorpresa del corpulento cameriere, questa si muove, rivelando la testa di un micino che vorrebbe sgattaiolare fuori dalle cianfrusaglie. Il garzone prontamente toglie di mezzo l’inopportuno bagaglio, mai dovesse infastidire i pochi commensali con la sua presenza viva, e lo nasconde dietro la cassa.

La signora, dimessa ma dignitosa, centellina con cura i piattini più economici, prelevandoli uno alla volta dal trenino di porzioni che, alla moda dei sushi bar, ci viaggia davanti agli occhi. Consuma con parsimonia le piccole pietanze di pesce crudo e riso lesso, quasi a voler prolungare nel tempo il parco piacere di quel poco cibo.

Gli sguardi si incrociano per un momento, abbozza un timido sorriso che ricambio.

Quando ho finito spiego a gesti al cassiere di contare per me anche quei cinque frugali piattini che giacciono vuoti di fronte a lei. Pago ed esco. Dalla vetrina lancio ancora uno sguardo dentro al locale. Forse il cameriere l’ha informata. Mi fissa con occhi stuporosi , accenna un inchino. Il suo grazie.

Sono stato brevemente in dubbio se un gesto del genere era adatto, in una società così differente, fredda e formale come la giapponese. Poi ho deciso che non mi importava un fico del giudizio dei giapponesi, quando per me era giusto così.

Quegli occhi pieni di sorpresa, quel breve chinarsi del capo mi hanno raccontato che forse non molti lo avrebbero fatto, al posto mio. Che lo aveva apprezzato. E che avevo fatto bene. Mi sono portato dentro tutta la sera quell’immagine, quei capelli grigi scarmigliati, quel viso emaciato in cui risaltavano, ancora più grandi, quegli occhi pieni di stupore. Un piccolo gesto con un grande ritorno emozionale. Quando dare fa meglio che ricevere.

Prima pubblicazione : 1° agosto 2007

sabato 12 marzo 2011

The big one

Tutti concordano su una cosa: è stato il terremoto più forte che abbiano sentito. È raro che i giapponesi manifestino sentimenti, e men che meno la paura. Spaventoso, il termine usato dai testimoni del sisma, intervistati da giornali e televisioni, ma ripetuto anche nelle mail che ho scambiato stamani con le persone con cui ero a Tokyo solo una settimana fa.

Stiamo tutti bene, ma treni e metrò sono fermi, non sappiamo come andare a casa (spesso distante da una a due ore di viaggio dal centro di Tokyo), forse stanotte dormiremo in ufficio.

Piccolo sollievo. Ma il disastro è inimmaginabile. Villaggi travolti, città allagate e svuotate, treni e navi svaniti, case trascinate via come scatole di fiammiferi. Incendi, esplosioni, centrali nucleari a rischio, una conta di morti, feriti e dispersi necessariamente provvisoria ed approssimativa.


Al clamore mediatico tipicamente italiano, con titoloni a piena pagina, abbondanza di foto e video, servizi di apertura in tivu, caccia al reportage fai-da-te con inviti agli italiani in loco a raccontare la propria avventura, si contrappone la discreta e minimalista reazione della stampa giapponese. Una foto o due, un articolo non più lungo né più passionale di altri brani, che raccontano di primi ministri coinvolti in scandalose donazioni da parte di privati (non che voglia giustificarlo, per carità, ma parliamo di diecimila euro a malapena, mica milioni...), oppure della violenza domestica in crescita, o anche degli impegni ufficiali della coppia imperiale. Insomma, un modo molto giapponese di raccontare un dramma.

All’irrimediabile bilancio di perdite in vite umane si aggiunge una rimediabilissima, ancorchè immane, contabilità dei danni materiali. Il Giappone, abituato a convivere con la natura ballerina del proprio suolo, si rimboccherà le maniche e con alacrità nipponica ricostruirà quanto distrutto in pochi minuti di terremoto, da poche ondate di tsunami.


Noi latini, abituati alla teatralità e all’esternazione, ci stupiamo nel vedere l’apparente calma con cui la gente reagisce ad un sisma che fa oscillare e cadere oggetti, crollare pezzi di intonaco, aprire crepe nei muri e nelle strade. Ma l’innato senso dell’ordine e della pazienza, esercitato quotidianamente fin dall’infanzia, ha fatto sì che milioni di persone di Tokyo, impossibilitate a tornare a casa per il totale blocco dei mezzi pubblici, si siano adattate, come meglio potevano, alla situazione. Senza panico, senza proteste, senza soperchierie da furbastri. Stanotte dormiremo come capita. Domani è un altro giorno, si vedrà.


Passata l’emergenza, ristabilito il momentaneo equilibrio in questa terra agitata dal di dentro, ottemperato il triste dovere di rendere omaggio ai morti, assisiti e curati i feriti, inizierà la silenziosa e laboriosa opera di ricostruzione.
Applicando le tecnologie in cui sono maestri, tireranno su nuovi villaggi e nuove città, che saranno in grado di resistere, se non ai big one come questo, alla maggioranza dei terremoti che quotidianamente scuotono il Giappone.

Se fosse successo in Italia, molto probabilmente sarebbe stata un’apocalisse. Non sarebbe rimasta in piedi nemmeno una casa. E non abbiamo nemmeno la scusante di dire, tanto l’Italia è una terra solida. Tuttaltro. Solo negli ultimi quarant’anni: Belice; Friuli; Irpinia; Assisi; Urbino; L’Aquila. E quanti altri, minori, dimenticati o quasi, tranne da chi ne ha subito dei danni o perdite di parenti. Un secolo fa Messina e Reggio Calabria furono rase al suolo da un terremoto. Allora gli tsunami si chiamavano maremoti. Insieme questi due disastri provocarono centoventimila morti. Oggi una simile calamità ne farebbe altrettanti, certo non di meno. Perché non abbiamo fatto dei gran progressi da allora. Facciamo affidamento sulla buona sorte, più che sulle tecniche disponibili. E pensare che basterebbe andare a lezione dai professionisti.

Che cosa ci insegna un evento disastroso come il terremoto giapponese? Che occorre più umiltà. Nei confronti della natura: noi non la dominiamo, è lei che domina noi. Nei confronti degli uomini. Si può cercare di difendersi dai terremoti. Ma il profitto e l’ignoranza spesso fanno trascurare la sicurezza. Per questo i giapponesi sono davanti a noi: perché accettano con umiltà la forza della natura, e nel frattempo fanno del loro meglio per proteggersi dalla sua furia.

Impariamo da loro, prima che sia troppo tardi.


giovedì 10 marzo 2011

Più su

Before you can fly, you have to be free.


Prima che tu possa volare, devi essere libero.

Li Cunxin

martedì 8 marzo 2011

1522

Scritto un annetto e mezzo fa, su un tema di cui non si parla mai abbastanza, lo voglio riproporre oggi. Dedicato a tutte le donne, nel giorno della loro festa istituzionale. Per non dimenticare l'orrore della violenza e lanciare un messaggio di speranza e di solidarietà.

1522

Tra tanti numeri telefonici inutili quando non dannosi per salute mentale e portafoglio (orride suonerie in abbonamento, concorsi a premi in cui non si vince mai, sondaggi ed elezioni di bighelloni televisivi privi di alcun valore aggiunto ma dotati di una facies denunciante un’assoluta inidoneità alla cultura, seppur la più elementare), ecco finalmente un facile numero da memorizzare, sperando peraltro che non debba mai servire ad alcuno di nostra conoscenza: 1522.

È la linea gratuita, attiva 24 ore su 24, a cui ogni donna vittima di una violenza può rivolgersi per cercare supporto sia psicologico che legale. Quanto ci sia necessità di questo servizio lo dicono alcune statistiche, di raccapricciante impatto con il crescere esponenziale delle cifre: in Italia il 32% delle donne ha subito una violenza fisica o sessuale. Il 70% degli stupri è opera del partner. Il 96% delle violenze non viene denunciato.

Solo il quattro per cento degli episodi di violenza viene rivelato. E mette in moto un sistema giudiziario spesso più acquiescente nei confronti del criminale che della vittima.

Per questo c’è bisogno di sollevare un velo sulla scandalosa omertà che ammanta questo universo di sopraffazioni, persecuzioni e torture. Ieri e oggi, in piazza Galimberti a Cuneo, parlano donne, leggendo storie e testimonianze di vittime che hanno avuto la fortuna di sopravvivere ai loro aguzzini. Un esercito di sagome riempie il selciato di sampietrini. Ogni sagoma racconta la vicenda di una donna. Nome, età, una data, la regione. Le silhouettes bianche sono quelle più fortunate: le sopravvissute. Quelle viola sono croci sepolcrali che gridano vendetta: donne assassinate da mariti, amanti, fratelli, partners o ex furibondi di gelosia.

Un rado ed infreddolito pubblico ascolta le ambasciatrici di tanto dolore. Scarni applausi concludono ogni intervento. Poco più in là si celebra la Fiera del marrone, appuntamento fisso annuale per ghiottoni alla ricerca della tradizione montanara che si sta lentamente assottigliando come i nostri poveri ghiacciai. La gente si accalca tra le bancherelle di miele, formaggi, patate, castagne e funghi. Pochi, troppo pochi si fermano oltre, per capire il senso di quel palco nella piazza.

Spendete qualche minuto ascoltando quelle storie strazianti. Fa male, lo so. Ma fa anche bene. Ci insegna a non avere paura. A trovare la forza, come le donne protagoniste di questi drammi, di uscire da un inferno di vessazioni, di crudeltà, di oppressione. C’è luce, in fondo al tunnel. Basta non chiudere gli occhi per non volerla vedere.


Prima pubblicazione : 17 ottobre 2009

lunedì 7 marzo 2011

Champions

Champions aren't made in the gyms. Champions are made from something they have deep inside them - a desire, a dream, a vision.


I campioni non si creano nelle palestre. I campioni sono fatti di qualcosa che hanno dentro, in profondità – un’ambizione, un sogno, una visione.

Muhammad Ali

domenica 6 marzo 2011

VIPs (Very Impertinent Post)

Giochiamo un po’ con l’inglese. Con i nomi dei personaggi noti stranieri. A forza di sentirne parlare, giorno dopo giorno, diventano familiari, identificativi del volto celebre. Ci sembra quasi di conoscerli, e magari in segreto qualcuno, per qualche straordinaria combinazione della vita, sogniamo di incontrarlo davvero.

Per toglierci di dosso quel senso di inadeguatezza, di soggezione, di scrupolo, niente di meglio che riderci un po’ su. Come? Immaginiamoci per un attimo se gli stessi personaggi fossero nati in Italia. Come si chiamerebbero? Così.

Giorgio Cespuglio

Nicola Gabbia

Enrico Vasaio

Pettirosso Pera (licenza poetica...)

Amalia Enoteca

Ulrico Bosco detto la Tigre

Ed ecco alcuni uomini di spettacolo che ci hanno lasciato. Personalmente, almeno col primo mi sarebbe piaciuto fare due parole.

Paolo Uomonuovo

Bartolomeo Bianco

Michele Delfante

E per finire: Guglielmo Portoni e Stefano Mestieri non vi fanno pensare a due rappresentanti emiliani che giocano a carte al bar, discutendo di sport? Eccoli qua.

Stefano Mestieri e Guglielmo Portoni