sabato 31 luglio 2010

Inventività

Una dote della quale è inesauribilmente provvista la stirpe cinese. Ogni viaggio in Cina è fonte di sorpresa, di meraviglia, di genuina ilarità.

Un’immagine vale mille parole. Le abbondanti piogge degli ultimi tempi minacciano Shanghai? O al contrario, vista la relativa pulizia dell’aria causata da tifoni a ripetizione, che spazzano il cielo e depurano la metropoli dalla sua livida cappa, improvvisi picchi di solleone minacciano di scottare la chiorba del guidatore – e del passeggero, spesso senza casco?

Niente paura. Qui si manifesta tutta l’estrosità inventiva del cinese medio. Ombrello – con prolunga fino al sedile posteriore – per motorette e scooters. Il C1 della BMW ha trovato un degno concorrente. Signori: giù il cappello. Tanto c’è il motombrello.


sabato 24 luglio 2010

Firmate per noi

Sempre lontano dall’Italia, questa Italia mi appare ancora più irriconoscibile. Mi identifico sempre meno. Ma finchè i documenti dicono che ivi appartengo, non posso fare a meno di allarmarmi e indignarmi.

Firmate per noi. Perché leggendo i giornali on-line ed i siti che raccontano di quest’ultimo attentato alla libertà, mi accorgo che il bavaglio stanno cercando di metterlo – con i metodi terroristici del ricatto temporale – anche ai bloggers, questi sconclusionati raccontatori di fatti e di idee.

Firmate. Perché se no è meglio chiudere tutto e tanti saluti. E non è giusto, perché questo è ciò che vogliono. Il pensiero unico.

Firmate. Perché io difendo – avendo già firmato – la mia libertà di esprimermi, di raccontare storie, vicende, fatti ed emozioni. E se qualcuno si offende per una citazione o una opinione, non è certo con la minaccia, 48 ore per dare una smentita, a semplice richiesta, altrimenti fioccano multe di migliaia di euro e si paventano procedimenti penali, che si deve risolvere la cosa.

Firmate. Perché allo stesso modo in cui difendo me stesso, povero blogger raccontatore di viaggi, difendo anche la libertà di chiunque, lettore, abbia idee contrarie alle mie e me le manifesti. Con civiltà, senza offendere e senza promuovere vie legali. Difendo la sua libertà di dimostrarmi che avevo torto, con argomenti convincenti. Perché solo gli imbecilli pensano di esser gli unici depositari della ragione. Ben venga il dialogo, il confronto. Non le minacce. Non le intimidazioni.

Firmate. Per favore. Prima che sia troppo tardi. Qui.

giovedì 15 luglio 2010

Oste della malora

Feroce? E dagli con il sensazionalismo spicciolo. Non è un animale feroce, il coccodrillo. È una macchina da preda perfetta, che ci proviene, quasi immutata, dalla preistoria. Degna di rispetto e di timorata ammirazione. Feroci – e imbecilli – sono gli uomini, l’unica vera minaccia nei confronti di questo maestoso vertice della catena alimentare, ucciso per farne esecrabili borsette, cintole per commendatori panzuti e cinturini da carissimi segnatempo confindustriali.

Talvolta certi uomini non sono feroci, ma imbecilli di sicuro. Come l’ubriacone australiano che ha deciso di cavalcarne uno, prontamente finendo all’ospedale per farsi ricucire una gamba pizzicata bonariamente dal permaloso loricato.

Si vocifera, in un’Australia dalle pericolose scivolate nel politically correct, che si stiano valutando azioni legali derivanti da quanto accaduto. Voglio vivamente sperare che tali azioni non siano indirizzate né nuocano al buon Fatso o al padrone del parco naturale nel quale è ospitato il rettile.

Se analizziamo i fatti al massimo chi dovrebbe andare nei guai è Michael Newman, l’etilista molestatore. Perché, cacciato da una taverna di Broome per scarsità ematica nella propria circolazione alcolica, ha pensato bene: se c’è qualcuno che entra nella gabbia del vecchio Fatso per dargli da mangiare, perché non posso farlo anch’io? Così mi tolgo la curiosità di sapere cosa vuol dire cavalcare un coccodrillo. Forte di questa inoppugnabile logica, il nostro beone ha commesso una serie impressionante di reati. Violazione di domicilio, tanto per cominciare. Ha scavalcato varie barriere alte fino a tre metri di un parco chiuso perché era notte. Molestie nei confronti di animali, con l’aggravante dell’essere anziani: la povera bestia, disturbata nell’esercizio del pisolino letargico, infatti vanta l’invidiabile età di ottant’anni (portati meglio degli uomini, lo dimostra l’imponente chiostra di denti ben salda in bocca). Tentato avvelenamento. La cronaca non lo riporta, gli etologi sono combattuti su questa tesi, ma la vera ragione per cui Fatso ha inopinatamente lasciato subito andare il polpaccio di Mike, permettendogli di mettersi in salvo e di tornare al pub per raccontare la sua mirabolante avventura, è presto spiegata: appena assaggiato il repellente gusto di rum misto a birraccia scadente sgorgato dalle carni incise, la morigerata bestia ha immediatamente sputato, con un moto di disgusto, quel boccone così inebriante.

Dimesso dalla clinica, ancora in carrozzella e con la gamba vistosamente fasciata, Michael ha dichiarato: non credevo che Fatso fosse così vivace. Ma certo. Un coccodrillo di cinque metri apparentemente ha la verve di un peluche. Fatto salvo il momento in cui viene sorpreso, mentre sonnecchia, da un improvviso maleodorante peso sulla schiena. Mi arrabbierei anch’io, figuriamoci una bestia da ottocento chili, che di professione non fa altro nella vita se non divorare tutto quello che le capita a tiro.

Caro Michael, ringrazia Bacco, di certo il tuo dio benigno, per essere ancora vivo. Al massimo puoi prendertela con l’oste della malora, che ti ha cacciato nel momento sbagliato. O lo faceva prima, quando avevi ancora un barlume di ragione nel cervello, o ti lasciava finire di stordirti, di modo che ci volessero due persone per reggerti dritto e riaccompagnarti a casa senza digressioni nei rettilari locali. Ah, un consiglio: la prossima volta che ti viene voglia di cavalcare qualcosa, vai al luna park e monta sul toro meccanico. Quello almeno non morde.


venerdì 9 luglio 2010

Rinascita

Sedici ottobre 1982. Quanti debiti puoi accumulare in una vita, specie dopo appena 33 anni? Tanti. Apparentemente troppi. Una carriera rovinata. Una famiglia distrutta. Un fallimento totale come padre. Ostaggio della propria schiavitù, un avvocato incarcerato dai propri vizi. Alcolismo. Tre pacchetti di sigarette al giorno. Cinquanta chili soprappeso. Passare da una promettente carriera forense alla rapina a mano armata. Rovinato moralmente ed eticamente, senza amici, chiuso in una galera da cui uscirà dopo alcuni anni.

Così comincia il racconto di Graeme Alford, australiano autore di libri e conferenziere motivazionale. È attraverso l’apparente fallimento di una vita destinata al successo che si può scoprire la difficile strada dell’espiazione, del risanamento, della riabilitazione.

Quando ti guardi intorno e vedi solo le celle del braccio di un penitenziario, quando fai un bilancio della tua esistenza e non trovi altro che debiti e nessuna ricchezza, allora anche ogni minima, apparentemente banale constatazione diventa preziosa fonte di vita e di speranza: sono ancora vivo; mia madre mi vuole ancora bene. Squarci di luce nel buio di un lungo tunnel.

Tra la costa frastagliata della vita e l’isola del domani c’è un braccio di mare talvolta tempestoso. Ma Graeme affronta il gurgite vasto dell’oggi da recluso, domandandosi: cosa è il successo? Le macchine? I soldi? Le case? No. Il successo è una serie di elementi concatenati che nascono da una unica parola: princìpi. Le persone speciali, di successo, sono caratterizzate da elementi comuni: amano la vita. Sono onesti, con gli altri e con loro stessi. Hanno una reputazione che difendono con l’integrità morale. Condividono la propria fortuna materiale e di esperienza con la comunità a cui appartengono. E infine, pretendono solo il meglio da se stessi.

Fuori dal circolo vizioso della prigione, Graeme si guarda intorno e sceglie. Ciò che è stato fatto nella vita non si cancella. Non puoi cambiare il passato, ma puoi creare un futuro differente.

Uno specchio ci mostra spesso quello che vogliamo vedere, non la realtà. Si tratta di optare per lo specchio giusto. La motivazione può portare fuori dal binario morto un uomo che ha sbagliato, e indirizzarlo sulla strada della dignità. Basta non accontentarsi mai di quanto si chiede a se stessi, e fare l’opposto con gli altri.

Così Graeme ricomicia da capo, osservando gli altri, e soprattutto comprando uno specchio che non mente per casa sua. Dove si specchierà ogni giorno, scoprendo che c’è un sacco di gente che sbaglia, si accontenta, vive a metà. Quando chiede: come va?, si sente spesso rispondere, non c’è male, per essere lunedì. Ce n’è uno ogni sette giorni. Il che vuol dire che quando arrivi a settant’anni hai vissuto “non male” dieci anni della tua vita.

Graeme impara il significato profondo delle scelte. La forza, la saldezza di spirito stanno tutte in una frase, la pietra miliare della rinascita: coscienza è fare quello che devi fare quando lo devi fare. Non fare quello che vuoi quando vuoi.

Graeme smette di bere, di fumare. Lascia la facile illusione della droga. In una parola, cambia. Tutto se stesso. Ritornato fisicamente in forma, si prepara a correre una maratona. Non per il risultato sportivo, ma per mettersi alla prova, per testare la sua determinazione. Per arrivare fino al traguardo. Si domanda, ce la faccio a finirla? Ce la fa.

Una opportunità dopo l’altra, un esito positivo dopo l’altro, Graeme è un uomo nuovo. Lavora. Si relaziona con gli altri. Ritrova l’amore, si sposa. Un giorno, quasi per caso, comincia a fare conferenze e scopre quanta gente ha voglia di ascoltare la sua storia, il suo passaggio dal baratro al riscatto. Al successo. Ormai affermato, con alle spalle l’esperienza carceraria, affronta nuove sfide. Portare in Australia dei personaggi pubblici, gente che ha sempre detto di no. Schwarzkopf. Lee Iacocca, che gli risponderà no per nove volte prima di dire finalmente di sì, e che lascerà una lezione-spiegazione ai suoi ripetuti dinieghi. Rispondi sempre di no almeno quattro volte, giusto per capire se chi chiede è veramente serio nelle sue intenzioni.

Bussando una porta dopo l’altra Graeme realizza quelle che molti chiamano missioni impossibili. Porta Gorbachev a Melbourne, e successivamente, solo attraverso una rete di conoscenze pazientemente costruita, riesce a far venire Nelson Mandela in Australia.

Graeme è un intrattenitore nato, commuove e diverte e fa riflettere. Brandisce come un testo sacro il suo libro intitolato Non rinunciare mai! Devo parlargli a quattr’occhi. A me totalmente sconosciuto, sono libero da influenze e condizionamenti che me lo facciano giudicare. Ho ascoltato il racconto della sua vita con maggior meraviglia. Gli chiedo che cosa rappresenti di così speciale quella data citata a mente all’inizio: sedici ottobre dell’ottantadue. È il giorno dopo il suo arresto per rapina a mano armata, mi dice. Quel giorno ha capito che doveva diventare il padrone del proprio destino. Non ha mai smesso.

Forse solo in Australia può succedere che un vasto e attento uditorio applauda sinceramente e ponga una filza interminabile di domande ad un ex galeotto redento che ha fatto tesoro dei propri errori per non rifarli, e soprattutto per evitare che altri li facciano. Esopo, ci ricorda Graeme, dice: meglio esser saggi con gli sbagli degli altri che con i tuoi.

Alla fine ho stretto la mano di chi l’ha stretta a Mandela. Per la proprietà transitiva, oggi mi sento toccato da un calore speciale. Graeme mi lascia con un esempio di determinazione oltre ogni ragionevole speranza: la foto del tecnico NASA che, per tutto il tempo del loro interminabile rientro, ha accompagnato il viaggio degli astronauti della missione Apollo 13. Motivandosi, trovando forza e risorse nelle semplici ma fondamentali parole: failure is not an option. Se tutti decidessimo che in certi casi il fallimento non è un’alternativa contemplabile, otterremmo di più e ci compiangeremmo di meno.

lunedì 5 luglio 2010

La baia del massacro

The Cove, film vincitore di Oscar, girato a fatica – e non senza scontri con la polizia locale – da Louie Psihoyos, è appena entrato in programmazione, più o meno con la stessa fatica, nelle sale cinematografiche di Tokyo.

Racconta della mattanza celebrata annualmente nella baia di Taiji, nel sud del Giappone, dove centinaia di delfini vengono intrappolati nelle reti e poi uccisi ad arpionate. Una sana tradizione nipponica, che nessuno straniero dovrebbe permettersi di criticare, insultare e men che meno documentare. Ma insomma, reclamano i manifestanti, nazionalisti che esibiscono bandiere con il simbolo imperiale e cartelli di protesta, questo è razzismo bello e buono. Ce l’hanno con noi perché siamo giapponesi. Non tartassate i pacifici pescatori. E dai. Lasciate che continuino la loro consuetudinaria simpatica attività di macelleria marittima.

Presentato dalla stampa nipponica come una pellicola di spionaggio (videocamere nascoste, stratagemmi per sfuggire all’ira dei pescatori ripresi all’opera, operatori addestrati a girare in condizioni disagevoli) è, per loro stessa ammissione, uno sconvolgente documentario. Anche se, da buona razza superiore, non capiscono tutta questa enfasi sulla supposta straordinaria intelligenza dei delfini. Figuriamoci, fanno fatica a considerare intelligenti tutti gli altri umani che hanno avuto la sfortuna genetica di non esser nati nella terra del Sol Levante, pensa te se si potranno considerare dotati di intelletto dei mammiferi acquatici, di cui – tra le altre – non è mai stato trovato neppure un esemplare che parlasse anche approssimativamente il giapponese. Mah.

E inoltre, perché mettere in guardia il pubblico sui pericolosi livelli di mercurio presenti nella carne di delfino? Come è noto, sebbene possieda il trascurabile inconveniente di essere marginalmente velenoso, il mercurio aggiunge a questa impedibile squisitezza quel pregiato tocco di inconfondibile sapidità. Lasciamoli fare. È proprio vero che l’uomo non impara mai. Anche se proprio la razza giapponese ha sperimentato, già negli anni cinquanta, a Minamata, cosa vuol dire morire di mercurio. A migliaia.

Buon appetito ai buongustai nipponici, che hanno pacatamente manifestato davanti ai cinema, ma ben si son guardati dall’entrare e documentarsi. E aggiungerei, come personale augurio a questi sostenitori di siffatta tradizione, folcloristica, delicata e soprattutto grondante sangue, pardon, volevo dire, considerazione per gli altri esseri viventi: buon avvelenamento.


sabato 3 luglio 2010

Vittorie di Pirro - seconda parte

Segue da ieri...


È passato esattamente un mese dal grande successo sindacale: oggi la Foxconn annuncia che entro l’anno l’intera struttura sarà spostata al nord, dove i salari minimi sono ben inferiori a quelli dell’esoso Guangdong. I governanti della provincia dell’Henan saranno ben lieti di accogliere il gigante fornitore della Apple. Trecentomila bocche in meno da sfamare o da far migrare alla ricerca di un posto di lavoro, purchè sia. Nel Guangdong il salario minimo – per legge – dal prossimo mese verrà portato a 1.100 Yuan (centotrenta Euro). Lo Henan si accontenta di meno: 800 Yuan al mese. Trentacinque Euro di differenza. Poca roba? Moltiplichiamoli per 300.000 operai. Fanno dieci milioni di Euro al mese risparmiati. I taiwanesi ringraziano sentitamente l’ospitale Henan.

E i quattrocentoventimila del sud? Quasi tutti a casa. Hanno sei mesi per trovarsi un nuovo lavoro. Se il pianeta Cina continua la sua galoppata impetuosa, con una crescita del GDP che quest’anno rischia di sfondare il muro del + 12% (ma qualcuno a Pechino ha già il piede sul freno, perché poca crescita significa disoccupazione delle teste pensanti, gli universitari, ma troppa significa prezzi che salgono, inflazione, malcontento, ed entrambi i panorami sono ugualmente destabilizzanti per la mania di controllo dell’apparato centrale), non ci saranno drammi a ricollocare tutta questa forza lavoro. L’importante è essere rimasti nell’anonimato e soprattutto non esser stati fotografati o intervistati nei giorni caldi della contestazione.

Nessun imprenditore cinese vuole un capopopolo tra i suoi operai. Perché i masanielli fanno male all’ordine costituito. Alla fine di ogni turno, in tante fabbriche, le maestranze si schierano in drappelli impettiti e allineati come granatieri, mentre il caporeparto li redarguisce o illustra loro l’andamento della giornata. Gli scioperi sono problemi degli stranieri. Perché la manodopera dipende in tutto e per tutto dal datore di lavoro, nelle medie imprese cinesi. I migranti non guadagnano abbastanza da affittare un alloggio proprio? Rimedio: ci sono i dormitori dentro la fabbrica, alveari con perenni gran pavesi esposti di poveri panni stesi ad asciugare. Gli operai non si possono permettere di far venire la famiglia dalla indigente campagna? La mensa pensa a loro, fornendo un pasto caldo quasi gratuito e rendendo inutile il fornelletto in camera. Ma tutto questo ha un prezzo: l’operaio è proprietà all’azienda. Se il padrone esce dal karaoke alle due di notte, dove ha discusso un ordine urgente tra un whisky annacquato e delle canzonacce latrate nel microfono, chiama il caporeparto, il quale sveglia una squadra, e tutti subito a lavorare, che domattina la merce deve essere già pronta quando arriva il boss con il cliente. Non sono leggende, l’ho visto coi miei occhi più di una volta.

Qualcuno prova ad aprire bocca? C’è la coda fuori di gente che vuole il suo posto, il suo letto, il suo piatto in mensa. Scioperare? Concetto talmente astruso che non hanno nemmeno la parola apposta. Si dice bàgōng, 罢工. Gōng è il lavoro. Bà vuol dire interrompere, ma anche finire, rinunciare. La dice lunga sulla oculata scelta degli ideogrammi in Cina. Scioperi? Lo interrompi, certo, il lavoro. Ma ricordati che con la stessa parola stai dicendo che rinunci al lavoro. Vittorie di Pirro.


venerdì 2 luglio 2010

Vittorie di Pirro

Se c’è una cosa che mi ha sempre impressionato dei cinesi è la loro capacità di aggirare gli ostacoli, di piegare alle proprie imprescindibili esigenze le situazioni che quegli inguaribili idealisti degli europei (ma siamo proprio sicuri?) amano vedere come segni di cambiamento, di progresso, di miglioramento dei fattori libertà (di pensiero e credo, di manifestare dissenso, di parola). Concetti questi quasi totalmente sconosciuti ed anzi avulsi dalla realtà, nel Regno di Mezzo.

Da circa un mese il mondo cosiddetto civile è attraversato da brividi di piacere al pensiero della inusitata ribellione degli operai cinesi del Guangdong. La sovversiva parola sciopero si affaccia prima timidamente, poi con baldanza nell’arido panorama sindacale cinese. Ma attenzione, distinguiamo bene: chi sciopera per ottenere condizioni di paga migliori e trattamenti più umani sono gli operai di aziende straniere. La Foxconn, azienda taiwanese di componenti elettronici, e la giapponese Honda hanno visto le loro linee di montaggio temporaneamente immobilizzate da una folla di operai rivendicanti a gran voce dei congrui aumenti salariali.

Ha fatto clamore, perfino per i non ineccepibili standard cinesi di sensibilità, la sequela di suicidi tra i lavoratori della Foxconn. Dieci operai si sono gettati dalle balconate dei dormitori negli ultimi mesi. Soluzione? Delle belle grigliature in stile galera, che impediscano salti inconsulti da parte di lavoratori stressati dai turni massacranti e dalle angherie dei supervisori.

Alla fine gli sfruttatori forestieri hanno dovuto capitolare. Aumenti concessi, roba dell’ordine del trenta per cento, e c’è chi sostiene che si sia arrivati a raddoppiare certi stipendi. Tutti di nuovo in fabbrica, presto che c’è da recuperare il tempo perduto - con turni extralunghi. Per inciso, stiamo parlando di gente che portava a casa centoventi euro al mese, e che ora ne guadagnerebbe il doppio.

Perché il condizionale? Perché, dopo essersi fatte ben ridere dietro dall’intera comunità industriale cinese per aver mollemente ceduto alle pressioni di qualche inutile migliaio di ribelli (giova ricordare che la Foxconn impiega al sud della Cina la ragguardevole comunità di 420.000 persone – più o meno l’intera popolazione di Firenze, per esempio), le aziende interessate sono passate al contrattacco. In perfetto stile cinese. Mai confrontarsi direttamente con l’avversario, se ciò può nuocere al risultato finale. Chinare la testa oggi (leggi: accettare le richieste di aumenti salariali) per far tornare tutti di corsa a produrre. A rialzarla ci si penserà domani, a bocce ferme e a linee di assemblaggio ben in moto.


Continua domani con la seconda parte...

giovedì 1 luglio 2010

Verità Orwelliane

We are all equal. But some are more equal than others.

Siamo tutti uguali. Ma alcuni sono più uguali degli altri.


George Orwell, Animal Farm