lunedì 30 agosto 2010

Reunions - Convivii

A group of 40 year old buddies discussed where they should meet for dinner.

Finally it was agreed upon that they should meet at the Ocean View restaurant because the waitress's there had low cut blouses and were very young.

Ten years later at 50 years of age, the group once again discussed where they should meet for dinner. Finally it was agreed that they should meet at the Ocean View restaurant because the food there was very good and the wine selection was good also.

Ten years later at 60 years of age, the group once again discussed where they should meet for dinner. Finally it was agreed that they should meet at the Ocean View restaurant because they could eat there in peace and quiet and the restaurant had a beautiful view of the ocean.

Ten years later, at 70 years of age, the group once again discussed where they should meet for dinner. Finally it was agreed that they should meet at the Ocean View restaurant because the restaurant was wheel chair accessible and they even had an elevator.

Ten years later, at 80 years of age, the group once again discussed where they should meet for dinner. Finally it was agreed that they should meet at the Ocean View restaurant because they had never been there before.

From: my friend Rids, 79 years young!


Un gruppo di amici quarantenni discuteva dove incontrarsi per una cena conviviale.

Alla fine fu deciso di trovarsi al ristorante Bellavista, perchè le cameriere avevano le camicette scollate ed erano giovani.

Dopo un decennio, a 50 anni, il gruppo discusse di nuovo dove andare. Fu scelto il ristorante Bellavista, perchè il cibo era ottimo e la scelta dei vini superba.

Dopo un decennio, a 60 anni, il gruppo discusse di nuovo dove trovarsi. Fu scelto il ristorante Bellavista, perchè lì potevano mangiare in pace e c'era una bella vista sul mare.

Dopo un decennio, a 70 anni, il gruppo si trovò di nuovo a dover scegliere un posto. Questa volta si optò per il ristorante Bellavista, perchè aveva la rampa per le sedie a rotelle ed aveva perfino l'ascensore.

Dopo un decennio, a 80 anni, il gruppo si ritrovò con l'ardua scelta da fare. Alla fine decisero di andare al ristorante Bellavista, perchè era un posto dove non avevano mai mangiato prima.

Da: il mio amico Rids, 79 anni suonati!


giovedì 26 agosto 2010

Bellezza


Incomparabile. Dall’alto credo sia la città più bella al mondo. Solo Rio de Janeiro forse può competere con Sydney in questa particolare classifica.

Eccone una prova, fresca di giornata.


martedì 24 agosto 2010

Carne da macello


Che differenza c’è tra la fotografia qui sopra e quella sotto?


Otto vittime innocenti, del tutto casuali, solo ieri mattina ancora totalmente ignare del destino balordo e brutale che stava per abbattersi su di loro. Otto turisti di Hong Kong ammazzati a colpi di mitraglia dopo dodici ore da ostaggi in un autobus a Manila.

I fatti: Rosario Mendoza, ex-poliziotto filippino di 55 anni, cacciato dall’arma e privato dei benefici pensionistici per una storia di tentata estorsione, rapina, minacce gravi (quisquilie dunque…) ferma un bus di turisti, ingannando l’autista con la sua divisa indossata abusivamente e criminalmente. Dopo una intera giornata di trattative, che portano almeno al rilascio di nove degli ostaggi, la sera la situazione precipita, il bandito spara, i poliziotti attorno al mezzo cercano di spaccare i vetri, rispondono al fuoco, gettano lacrimogeni, sembrano scoordinati e senza un piano d’azione serio, non tentano l’assalto perché il criminale si fa scudo degli ostaggi, alla fine un cecchino riesce a inquadrare l’ex collega e lo fa secco con un colpo in testa.

Le notizie iniziali, che parlano di un paio di morti, sono purtroppo destinate presto ad essere smentite. Nell’isteria del momento, tra donne urlanti, gente sanguinolenta che viene calata fuori dall’autobus attraverso i finestrini sfondati, poliziotti che finalmente osano avvicinarsi, dato che il bandito è lì penzoloni a braccia in giù, mezzo dentro e mezzo fuori, e ormai non rappresenta più un rischio, perché gli hanno aperto il cranio come un cocomero, non ci si rende conto che Mendoza ha portato con sé, nell’ultimo gesto di follia della sua vita, otto stranieri che erano a Manila per una vacanza. E speriamo si salvino tutti i feriti, visto che alcuni sono gravi.

Questo piccolo massacro ha scatenato la stampa asiatica. E non solo la stampa. Una mela marcia danneggia l’intero cesto. Le Filippine, governo e polizia, sono accusate senza mezzi termini di incapacità, quando non di idiozia, per come hanno gestito una situazione di crisi. Tutta la vicenda, fino al drammatico epilogo, è stata trasmessa in diretta da vari canali televisivi. Rendendo un ottimo servigio al sequestratore, che poteva controllare minuto per minuto non solo le mosse dei poliziotti attorno all’autobus (che, come la maggioranza dei mezzi turistici, è dotato di televisore), ma anche seguire dibattiti e interviste a politici, funzionari di polizia e opinionisti vari.

Hong Kong lamenta la perdita di suoi cittadini, e biasima il fatto che la salvezza degli ostaggi non sia stata la priorità dell’azione di polizia. I politici si dicono allibiti e rattristati, e questo è il massimo della partecipazione che sanno esprimere (si sa, sono politici). La gente protesta, offesa dall’incompetenza di chi doveva gestire la situazione innanzitutto tutelando quegli innocenti turisti. Si temono gesti di ritorsione, già ci sono voci che, sull’onda emozionale del fatto, qualche domestica filippina sia stata licenziata dal padrone honkonghese, come se il semplice fatto di esser connazionale di un delinquente fosse sufficiente per ricevere una gratuita punizione.

La ritorsione in realtà è già in atto: il governo cinese ha emesso un’allerta, invitando tutti i cittadini cinesi in visita nelle Filippine ad esercitare cautela, ad innalzare le misure di autodifesa e ad avvisare immediatamente l’ambasciata in caso di qualsiasi emergenza. Come dire: turisti, non andateci. E se ci andate e vi succede qualcosa, non dite che non vi avevamo avvisato.

Gli operatori turistici filippini possono dire un bel grazie al signor Mendoza. Anni di pubblicità, di immagini paradisiache, di spiagge bianchissime e sconfinate, tutto buttato nell’immondizia.

Tutto questo perché un ex poliziotto corrotto (la storia racconta che, insieme a dei colleghi, ha cercato di ricattare uno chef di hotel, accusandolo falsamente di possesso di droga per estorcergli denaro), nonostante fosse stato cacciato, è stato in grado di procurarsi un M16 (un fucile mitragliatore alla Rambo, per intenderci) e con questo gingillo tenere in ostaggio per una giornata 21 persone che erano lì per una gita. Bello, vero? Viva la libertà di armamento. E viva i giudici che mandano liberi dei delinquenti, più delinquenti degli altri perché dovrebbero esser quelli che la legge la fanno rispettare invece di infrangerla.

Che le Filippine non fossero il posto più sicuro dell’Asia era risaputo. Che il livello di corruzione e di disonestà di chi dovrebbe fare e far applicare le leggi (forze dell’ordine, politici, militari) sia endemico è anche una triste realtà. Chiunque vada al potere si trova a combattere (o forse a far finta di combattere) un sistema di clientelismi, di potere fatto di sopraffazione e violenza, di lotte e faide in stile mafioso (l’ultimo clamoroso episodio risale a qualche mese fa, quando 57 tra giornalisti, politici e sostenitori di un candidato a governatore locale sono stati fermati da un commando ingaggiato dal rivale e uccisi a raffiche di mitra; le donne – per aggiungere un tocco machista, sempre apprezzato nelle Filippine – sono state prima violentate).

Le Filippine mi ricordano il Brasile. Una forbice spaventosa tra pochi ricchi ed una maggioranza di poveri. Favelas dove si vive ai limiti della dignità umana. E dei ladroni che invece di governare pensano ad arricchirsi e non esitano a fare ammazzare gli avversari che fossero d’ostacolo nella loro ascesa al potere.

Le Filippine sono l’unico posto dove ho partecipato al funerale di un giovane conoscente, ucciso a colpi d’arma da fuoco da dei banditi che lo hanno aspettato, di sera, all’uscita dall’ufficio.

Le Filippine sono la nazione che se di colpo si prosciugassero i trasferimenti di valuta dall’estero, inviati ogni mese da milioni e milioni di emigrati che fanno i muratori, i marinai, i cantanti e musici, le domestiche, perderebbe la sua maggiore fonte di reddito.

Le Filippine sono un posto dove un ex attore diventa presidente, poi viene messo in galera per una faccenduola di corruzione, talmente irrilevante che i giudici gli danno l’ergastolo, dopo qualche annetto richiede ed ottiene il perdono dalla presidente che gli è succeduta, ed ora, libero come un uccellino, ha pensato seriamente a ricandidarsi per un altro termine presidenziale. Tanto per non perdere il vizio.

Le Filippine sono una terra di sorrisi gentili e di gente rassegnata alla propria povertà.

Le Filippine non si meritano l’incompentenza, l’ignoranza, il menefreghismo, l’arroganza, la violenza di chi dovrebbe governare e tutelare i filippini. Che sono troppo poveri e miti – ma non abbastanza disperati – per fare una rivoluzione.

domenica 22 agosto 2010

Non fate i furbi

What to engrave on the inside of my husband-to-be’s wedding ring? I turned to my sister and said, “I want something that has meaning and will remind him of me.”
Her suggestion? “Put it back on.”


Che cosa incidere all’interno dell’anello nuziale del mio imminente marito? Ho chiesto consiglio a mia sorella, spiegando: voglio qualcosa di eloquente e che gli parli di me.
Il suo suggerimento? "Rimettitelo."

giovedì 19 agosto 2010

Men will be men (Ah, questi uomini!)


This has to be one of the best singles ads ever printed. It is reported to have been listed in the Melbourne Herald Sun...

SINGLE BLACK FEMALE seeks male companionship, ethnicity unimportant.
I'm a very good girl who LOVES to play.
I love long walks in the woods, riding in your Ute, hunting, camping and fishing trips, cosy winter nights lying by the fire.
Candlelit dinners will have me eating out of your hand.
I'll be at the front door when you get home from work, wearing only what nature gave me.
Call 0140.94XXX and ask for Daisy, I'll be waiting....

Questo deve essere uno dei migliori annunci personali mai pubblicati. Risulta essere stato diffuso dal Melbourne Herald Sun...

SIGNORINA NERA cerca compagnia maschile. Non importa la nazionalità o l’etnia.
Sono una brava ragazza, ed AMO giocare.
Mi piacciono le lunghe passeggiate nei boschi, viaggiare in macchina, fare delle gite, la caccia, la pesca e campeggiare alla macchia. Le intime serate invernali, sdraiata davanti al fuoco del caminetto.
Una cenetta a lume di candela, con te che mi imbocchi direttamente dalla tua mano.
Mi troverai dietro la porta di casa quando torni dal lavoro, vestita solo di ciò che mi ha dato la natura.
Chiamami allo 0140.94XXX e chiedi di Daisy, ti aspetto...





Over 15,000 men found themselves talking to the RSPCA (Royal Society for the Prevention of Cruelty to Animals) StKilda.

Più di 15.000 uomini hanno risposto all’annuncio, trovandosi al telefono con la Reale Società per la Prevenzione della Crudeltà sugli Animali di StKilda. [ndt: quartiere di Melbourne]


lunedì 16 agosto 2010

Bandiera rossa

Il mare porta via. E rende quando vuole lui. Ieri pomeriggio Abid Jerrick, filippino di 29 anni, fatti pochi passi oltre la battigia, è scomparso tra le onde burrascose, tra Viareggio e Torre del Lago.

Stamani non era stato ancora ritrovato, nonostante gli sforzi di un grosso gommone da ricerca, caracollante nel mare sempre gonfio e fragoroso.

D’improvviso appare sulla spiaggia un piccolo, mesto corteo. Qualche candida divisa di capitaneria di porto, un paio di cameramen da tivu locali con videocam a spalla, alcuni filippini, forse parenti, forse solo solidali verso un connazionale scomparso. E poi una donna minuta e prostrata, sorretta a malapena da un ragazzo più alto di lei, nonostante i soli undici anni. Fissano immobili e attoniti quel mare enorme e inclemente, sordi ad ogni evento che li circonda. Lei si continua ad asciugare con un fazzoletto bianco degli occhi ormai privi di lacrime, entrambi congiungono le mani in un dolente segno di preghiera.

Quanto dolore, quanti pensieri devono attanagliare le menti e i cuori di questa moglie, di questo figlio che hanno visto marito e padre scomparire tra i flutti, ed hanno assistito alla coraggiosa ma vana lotta dei bagnini per cercare di trarlo in salvo. Una vacanza trasformata in tragedia. Un passo di troppo, forse una buca traditrice, le onde che ghermiscono e tirano sotto.

Quelle mani atteggiate a preghiera stanno chiedendo l’impossibile miracolo della restituzione del loro caro in vita? O magari solo l’estrema pietà del mare imperterrito, di poter riavere la salma e dare al familiare una degna sepoltura?

Il mare prende, il mare forse renderà. Le ricerche continuano, la barca un puntino sballottato tra i marosi violenti. È come cercare un ago in un pagliaio. Quando la burrasca sarà passata, se i caparbi uomini del soccorso marittimo non avranno vinto la azzardata scommessa della loro perlustrazione, il mare alla fine riporterà a riva, magari a trenta chilometri di distanza, i poveri resti dell’annegato.

Oggi nessuno si avventurava tra i cavalloni in quel tratto di spiaggia. Paura? Rispetto? Entrambi. Rispetto per il tacito e dignitoso dolore di questa famiglia filippina. Paura di un mare che ogni tanto ci ricorda, nell’unica crudele maniera che conosce, quanto sia infinito e più potente di questi piccoli, insignificanti esserini che talvolta credono di poterlo sfidare. E vincerlo.



B2B (Il Palio)

Nuova categoria negli argomenti classificatori del mio blog. Criptica sigla derivata dall’inglese, lingua principe della sintesi. Blog to blog. In pratica, da un blog all’altro. Spinto dalla non imminente – ma quasi certa – perdita del mio vecchio e romanticamente amato contenitore de La Stampa, ho deciso di riproporre, sotto questa famiglia, racconti che mi era piaciuto scrivere, e che vorrei continuare a condividere con gli amici di passaggio qui.

Oggi, sedici agosto, è il giorno del Palio dell’Assunta. Riecco la cronaca – differita di due anni – della sfida di Siena.


Mission impossible

Cercare di far capire ad una persona non senese, non italiana, e neppure europea, che cosa è davvero il Palio di Siena.

Per me è una specie di rito dionisiaco. Se sono in Italia (ed una volta riuscii perfino a Pechino) devo cibarmi, due volte l’anno, di una gara tra le più illogiche, scorrette, irrazionali che esistano al mondo, compresa l’ora e passa di ansia che la precede. Forse, in quanto a mancanza di razionalità, la corsa dei tori di Pamplona la batte. Ma in Italia è unica, nonostante un fiorire di palii, tornei, giostre cavalleresche e manifestazioni similari. Quelle due date, due di luglio e sedici d’agosto, le segno sul calendario per paura di dimenticarmele.

Bisogna partire da un presupposto fondamentale. Il Palio, contrariamente a quanto dicono le apparenze, non è una corsa di cavalli. È una delle maniere di sublimare l’italianissimo campanilismo, nutrito da delle rivalità che possono sfociare in autentiche inimicizie quando non odii. Esso si manifesta a tutti i livelli: tra nord e sud, tra regione e regione, tra provincia e provincia della stessa regione, ed in calando, tra paesello e paesello, per arrivare finalmente allo spirito della corsa di Siena. Diciassette contrade (di una città che fa a malapena cinquantamila abitanti) che riproducono, nel loro microcosmo, quello che in grande è l’Italia. Con le loro alleanze, le contrade amiche, e l’irriducibile antagonismo verso i perenni rioni nemici. Se non si vince – o non si partecipa, stante il meccanismo di selezione delle dieci contrade che corrono ogni palio – il secondo obiettivo, altrettanto sadicamente godereccio, è che il nemico perda. Molto italiano. Io non ho vinto, ma tu hai perso.

Non so come convincere una persona asiatica, abituata alla logica ed alla razionalità, beneducata all’ordine costituito ed al rispetto delle regole, cresciuta nel credo della lealtà e dell’onestà e della correttezza, che l’essenza, l’anima stessa della corsa senese è nella furbizia, nella soperchieria, nell’accordarsi prezzolato tra fantini per danneggiare un nemico comune, nel cercare di ottenere il massimo vantaggio facendo innervosire i cavalli avversari, nell’essere sordi al pubblico che rumoreggia spazientito, perché tutto quel che conta è vincere, e al diavolo tutto il resto!

E che sarebbe snaturare l'antiquata sacralità della corsa, se i cavalli fossero ordinatamente schierati in una tecnologica gabbia, come negli ippodromi di galoppo, e poi oplà, via tutti insieme all’apertura degli cancelli, e non l’incertissimo ondeggiare di nove cavalli tra due canapi tesi a fatica da quattro uomini che governano, come vecchi marinai, un verricello degno di un ponte levatoio medievale. È vero, si risparmierebbe anche quella mezzora di manfrine, girotondi, cavalli che travolgono il canape e pastette in diretta televisiva, ma l’attesa e la crescente trepidazione fanno parte dello spirito della corsa, come quel suo senso di arcaico, di manuale, di immutabile. Di tradizionale. Ed in fondo è quello che il pubblico vuole e si aspetta dai preparativi, due false partenze ed un paio di chiamate fuori dai canapi per manifesta incapacità di tenere la sequenza giusta, il fantino dell’Aquila che intraversa il cavallo sul varco per impedire al Drago di entrare di rincorsa, la Torre e l’Oca che si scambiano sgarberie mentre la Pantera guarda di sottecchi l’odiata Aquila, il mossiere che si sgola per metter ordine in quella bolgia di stinchi fasciati, di nerbi di bue agitati minacciosamente, di redini tese e di froge dilatate dal nervosismo...

Non si spiega tutto questo. Solo un senese, o forse solo un toscano riesce a trovare bello, avvincente, entusiasmante aspettare un’ora vedendo quel marasma di zampe, dorsi sudati e bocche ammorsate schumanti bava, di fantini che contrattano e bisbigliano e si guardano torvi mentre cercano di tenersi in equilibrio su quella bestia priva di sella che dovranno portare all’unico obiettivo possibile, il primo posto.

Non conta nient’altro nel Palio di Siena. Chi arriva secondo non si ricorda nemmeno. Vale meno che zero, secondo o ultimo è lo stesso. Quello che conta è mettere il muso del proprio cavallo davanti a tutti gli altri. Le regole delle normali corse negli ippodromi son tutte ribaltate. Se il fantino cade, il cavallo scosso, da solo, non solo non viene squalificato, ma può perfino vincere il Palio, ed a volte è successo davvero.

E cosa spinge tutta quella moltitudine compressa all’interno del Campo a starsene lì ad ore, sotto un sole canicolare, a farsi calcinare le cervella per un minuto scarso di violenta, isterica emozione? Impossibile trovare delle motivazioni razionali. Certo, il Palio si vede meglio, molto meglio in televisione. Ma vuoi mettere, per un vero contradaiolo, essere lì, in prima fila, sentire l’odore delle bestie accaldate e il rumore sordo degli zoccoli sul tufo e – gioia suprema – vedere il proprio cavallo vincere? Poter scavalcare le barriere e correre in pista mentre i cavalli stanno ancora arrivando, a rischio di farsi travolgere da qualche animale, pur di poter abbracciare il proprio campione a quattro zampe tutto sudato e irrequieto, pur di poter disarcionare e spogliare il fantino che lo ha portato alla vittoria, e poi tutti insieme portare in un trionfo seminudo chi ha contribuito alla gloria della contrada per l’anno a venire?

Ogni volta che guardo un Palio, sono in uno stato di eccitazione e apprensione nello stesso tempo. Che sia bello, che sia combattuto, ma che non sia cruento. Che nessun cavallo, povera bestia, si faccia male, si sa che fine fanno i cavalli dalle zampe spezzate. Che nessun fantino finisca ribaltato malamente, calpestato dagli zoccoli, schiantato contro le deboli protezioni del Casato. Il campo di gara in sé è espressione massima di illogicità. Un corto rettilineo, due curve a gomito, una in salita, l’altra in discesa, raccordate da un ampio curvone. Trecento e pochi metri da percorrere tre volte a rotta di collo. Dei materassi foderano i bordi, all’uscita dalle due curve, e spesse volte i concorrenti ci rimbalzano contro. Con un po’ di fortuna si rimettono in carriera, e continuano la loro sfuriata verso quel traguardo annunciato dall’esplosione di un petardo. A volte ci si fanno male, e seriamente.

Questa volta è stato un bel Palio. Anzi bellissimo. L’unico brivido, lo scivolone della cavalla del Drago, il fantino che ruzzola sul tufo, e poi quella disperata rincorsa della bigia giumenta che, libera dal peso dell’uomo, cerca di superare gli avversari. Ma non ce la fa, due giri senza guida sono troppi, la scarica lievità non basta a vincere la malizia degli altri fantini, che la costringono a traiettorie larghe, faticose, impossibili da tenere senza perder metri. Al terzo giro si conclude la battaglia in testa tra l’Oca e il Bruco, con un sorpasso all’interno degno di una formula uno. Il morello del Bruco vola solitario verso il traguardo, lo supera in scioltezza, bum, il botto annuncia la fine della corsa e l’inizio delle selvagge celebrazioni. Invasione di campo.

Come faccio a spiegare ad una persona di Singapore che la gente piange davvero, e sono lacrime di gioia, che gli abbracci a Giuseppe Zedde detto Gingillo ed i baci al cavallo sono veri, che quei pazzi che si stanno arrampicando su un palazzo vogliono solo raggiungere un drappo che è la loro agognata e sofferta conquista, e che non ha nessun valore materiale ma per loro ne ha – ed incommensurabile – morale? Non si può. Semplicemente non si può. Bisogna essere nati lì, per capirlo. Perché queste non son cose che si spiegano. Si provano, e basta.

Prima pubblicazione : 19 agosto 2008

sabato 14 agosto 2010

Repetita iuvant

Orsù, celebriamo tutti insieme il debutto del nuovo stupendo codice della strada all’amatriciana. Tra le varie perle coniate dai nostri ineffabili legislatori troviamo: l’innalzamento del tasso alcolemico nel sangue da 0,5 a 0,8 g/L, la facoltà concessa alle società gestrici delle autostrade di portare il limite di velocità da 130 a 150 km/ora, la possibilità di chiedere la revoca a tempo della sospensione della patente – tre ore al giorno, per andare a lavorare o per opere socialmente utili, così ora tutti gli ubriaconi al volante non avranno neppure quel piccolo incomodo di dover trovare un collega che li porti in fabbrica, oppure fare addirittura ricorso a mezzi pubblici o a una sana bicicletta, con tanti saluti allo scopo educativo del ritiro della patente.

Evviva. Seguendo l’inoppugnabile logica per cui se nessuno rispetta un limite innalziamolo, così magari la gente rientra nella legalità, ci faremo ridere dietro da una moltitudine di paesi con un senso civico più elevato del nostro (ci vuol poco), e soprattutto con autorità e rappresentanti del popolo maggiormente attenti al benessere della comunità.

Intanto si continua a leggere quasi quotidianamente di maledetti assassini, ubriachi o drogati al volante, che investono e ammazzano gente innocente, bambini in carrozzina, ragazzi su dei motorini, vecchiette in bicicletta, famiglie di ritorno da una gita. E di giudici che – applicando la legge – li mandano liberi in quattro e quattr’otto. Ognuno di noi è a rischio. Nessuno è esentato, salvo che non si chiuda in casa senza nemmeno uscire per andare a comprare il pane.

Queste nuove norme sono una offesa al buonsenso ed alla sicurezza di tutti noi. In una società dove chi segue le regole non è considerato un buon cittadino, ma un imbecille che non ha il coraggio di ribellarsi a leggi liberticide, innalzare limiti di velocità e la quantità di alcool legalmente assumibile equivale a dare ragione a questa scuola di pensiero.

Fiero di essere un imbecille. Di osservare i limiti di velocità in autostrada, non per paura delle multe ma per rispetto degli altri e soprattutto di me stesso. Di non bere nemmeno un bicchiere di vino la sera al ristorante, se so che dopo dovrò guidare, fossero anche duecento metri. Di indossare le cinture di sicurezza, al volante e perfino quando sono seduto dietro. Il mio sogno – temo irrealizzabile – è di appartenere ad una nazione con sessanta milioni di imbecilli come me.

Il nuovo codice della strada mi ha spinto a rileggere un mio pezzo pubblicato tre anni fa, ma sempre attuale. Ve lo voglio riproporre perché repetita iuvant: se salverà anche solo una vita, meritava scriverlo – e leggerlo.


Basta saperlo

Una ragazza di sedici anni travolta e ammazzata da un ubriaco a cui era già stata ritirata la patente tre volte. Evidentemente in soli due anni di guida, visto che risulta che il tizio in questione ne abbia venti, di anni. Roba da pelle d’oca.

A leggere certe cose passa quasi la voglia di scrivere. Ti senti impotente, davanti a tanta ignoranza e presunzione. Come si fa a morire a sedici anni uccisi da un quasi coetaneo che si ubriaca e poi insiste a guidare? Non andrebbe ritirata a vita la patente ad uno così? Ma prima che ammazzi qualcuno, non dopo, quando ci sarà qualcuno che piange veramente, e un sacco di coccodrilli a dire poverina, e a non fare un bel niente perché non continui a succedere. Fino alla prossima volta. Fino al prossimo ubriaco che sale in macchina, e nessuno gli dice nulla, e continua ad ammazzare. Fino alla prossima strage del sabato sera.

Invece per le persone consapevoli, per quelli che guidano tutti i giorni senza essersi imbottiti di alcool, per quelli che ci tengono alla propria pelle e a quella degli altri, siano gli altri un perfetto sconosciuto o i propri cari che condividono il viaggio, per questa gente di una categoria che merita salvaguardare, voglio raccontare qualcosa che forse può salvare delle vite, e varrebbe già la pena farlo se questo ne salvasse pure una sola.

Non pensate che avere agganciato le cinture, avere fatto il tagliando, avere gli airbag, l’ABS, e tutte le altre ingegnosità elettroniche che equipaggiano oggi le vetture, sia tutto quello che occorre per evitare guai in caso di incidente.

Ci sono altri – gratuiti – accorgimenti che ognuno dovrebbe adottare. Basta saperlo. E provvedere. Chi ha mai pensato che un telefono cellulare, una borsa della spesa con delle scatolette, una bottiglia di vetro, un ombrello, insomma un qualsiasi oggetto lasciato libero di circolare per la macchina, si possa, per un urto improvviso, trasformare in un proiettile che può ferire, mutilare, uccidere?

Chi ha mai immaginato che un bagagliaio stracolmo di borse e valigie, specie nelle vetture familiari, dove i sedili posteriori sono l’unica incerta paratia che separa l’abitacolo dal vano bagagli, potrebbe, in caso di incidente, schiacciare con il proprio peso gli occupanti dei posti di dietro, che di frequente sono bambini?

Quanti di voi guidatori attenti si sono fatti lo scrupolo di consigliare almeno, se non di imporre, ai passeggeri seduti dietro, di indossare la cintura? E, badate bene, non per la loro sicurezza. Per la vostra, e di chi sta seduto accanto a voi. Perché se un cellulare può tramutarsi in un corpo contundente letale, immaginate che cosa devastante è un passeggero di settanta chili (che la velocità e la forza d’inerzia trasformano in una tonnellata) scaraventato contro lo schienale del vostro sedile. È capace di sradicarlo e schiacciarvi contro il volante, o contro il finestrino. O di strozzarvi contro la vostra stessa cintura di sicurezza.

Esagerazioni? Casi estremi? Combinazioni fortuite, che capitano una volta su un milione? Non è così. Sono tutti eventi avvenuti e documentati. E se anche fosse, a nessuno piace fare il milionesimo.

Non occorrono corsi speciali, né doti straordinarie per evitare una tragedia assurda. Se non volete correre il rischio di essere ammazzati da una scatoletta di fagioli o dal vostro telefonino, o peggio ancora da un vostro familiare o amico che state trasportando, abbiate questa piccola ma vitale accortezza.

Non lasciate oggetti sparsi per la macchina. Assicuratevi che i bagagli dietro non si muovano, che non possano prendere una mortale rincorsa, in caso di urto. Suggerite ai vostri passeggeri che si allaccino le cinture. Tutti. E se ridono, o sbuffano, o vi prendono in giro, tacciandovi di essere troppo prudenti, ditegli in faccia che non lo fate per loro. Che lo fate per salvaguardare la vostra, di pelle, prima di tutto. Se hanno del rispetto, magari capiranno. E eseguiranno.

Sarebbe bello e tutto più facile se anche in Italia, come in Australia, il guidatore perdesse punti patente per ogni passeggero sorpreso senza cintura. E in più la polizia applica una doppia sanzione, una al viaggiatore riottoso ed una al conducente, che è responsabile dell’incolumità di tutti, a bordo. Nessuno ama pagare una multa e perdere punti per colpa dei propri trasportati. Per cui diventa il loro – salvifico – controllore.

In mancanza di questa cultura della sicurezza, costruiamocela da soli con il fai-da-te e con il passaparola, cose in cui noi italiani eccelliamo. In fondo, che cosa è qualche minuto di attenzione, prima di iniziare il viaggio, a petto di una vita – la vostra, o quella di chi vi sta a cuore – salvata?

Prima pubblicazione : 15 luglio 2007

mercoledì 11 agosto 2010

Pan per focaccia (Snap shot)

An amateur photographer friend was invited for dinner and took along a few pictures. The hostess looked at his work and exclaimed, “These are very good. You must have an excellent camera.” Later, as my friend was departing, he turned to the hostess and said, “That was a delicious meal. You must have some excellent pots.”

Un mio amico, fotografo dilettante, invitato ad una cena ha portato con sè alcuni scatti. La padrona di casa, dopo avere osservato le sue foto, ha esclamato: sono molto belle. Lei deve avere una macchina fotografica eccellente. Al momento del commiato, il mio amico si è rivolto alla padrona, dicendole: la cena era deliziosa. Lei deve proprio avere delle ottime pentole.

lunedì 9 agosto 2010

Happy birthday!

Buon compleanno. Ad una città? Ad uno stato? Sì. Singapore festeggia il suo compleanno, il National Day, tutti gli anni il nove agosto.

Proprio oggi la giovane repubblica compie 45 anni. Solo nel 1965 Singapore è diventato uno stato indipendente dalla confederazione malese a cui fino ad allora apparteneva.

Buon compleanno, Singapore. Auguri ad una nazione che ha sempre messo l’armonia tra le diverse razze e religioni al primo posto nei valori da praticare e rispettare. Auguri ad una comunità dove i politici sembrano davvero al servizio del popolo, e non viceversa. Auguri alla tua gente così garbata e politicamente corretta da chinarsi quando si fanno le foto celebrative della laurea, per non mostrare la differenza di altezza.


Buon compleanno, Singapore. Anche se hai quel curioso vezzo di permettere l’ostensione della tua bandiera solo nei giorni immediatamente precedenti il National Day. Allora si può, anzi quasi si deve. Condomini, case private, negozi. Tutti con il loro bravo stendardo esposto. Ma le bandiere, quando le tirate fuori tutte belle ripiegate dall’armadio, per favore stiratele prima di appenderle. Se no ecco i risultati.


Buon compleanno. La gente tirerà un sospiro di sollievo dopo la National Day Parade. Da due mesi ogni sabato si tenevano le prove del fatidico evento. Traffico bloccato, pullman e pullman di scolaresche affluivano alle tribune, sfilate di mezzi militari e coreografie. Perfino i provini dei fuochi artificiali (altra cosa proibita, salvo quelli ufficiali e autorizzati del giorno del compleanno). Passaggi a volo radente delle pattuglie acrobatiche. Formazioni di elicotteri. Due mesi di minuzioso training, non sia mai che qualche dettaglio fosse lasciato all’improvvisazione.


Buon compleanno ad una terra dove tutto è pulito, lucido, ordinato. Il Giappone del sud est asiatico. Con una buona dose si autoironia, si vendono magliette con scritto “Singapore is a fine city”, giocando sul doppio senso di fine, che vuol dire bella ma anche multa. La città dei cento divieti ben si riassume in questo cartello, con un visuale – e talora criptico – elenco di oggetti, animali o persone non ammessi in un certo bar. E mentre si può ben comprendere che colà non siano graditi cani che facciano i propri bisogni, torna francamente difficile immaginare qualcuno che insista per portarsi una gallina a prendere l’aperitivo. In ciabatte, canottiera e magari con uno zaino in spalla.


Buon compleanno ai tuoi gatti randagi che sembrano dei puma, e che hanno la fortuna di non esser maltrattati, anzi, di avere della buona gente che tutte le sere, sulla spiaggia della East Coast, porta loro del cibo, avanzi di pesce e carne, ma imbanditi rigorosamente su dei giornali vecchi che poi, finita la refezione felina, vanno ordinatamente a finire nei cestini del pattume. Nemmeno una lisca per terra. Questa è civiltà.


Buon compleanno ai tuoi alberi incredibilmente contorti, ai tuoi parchi pubblici che son tenuti meglio di certi campi da golf. E tali rimangono perché ognuno sa, dentro di sé, di dover contribuire, non sporcandoli con rifiuti e cartacce, alla pulizia e all’igiene.



Buon compleanno all’anonimo omino del risciò, che dormiva beato lungo il fiume Singapore, in una notte con meno turisti del solito da scarrozzare in giro raccontando la storia di questa antica cala di poveri pescatori trasformata in metropoli scintillante e multicolore. Non portatevi i filtri per fare le foto in notturna. Non serve. Quelle luci vivide e dense sono gentilmente offerte da Singapura, la città del leone.

sabato 7 agosto 2010

La vita

Life is a dream for the wise, a game for the fool, a comedy for the rich, a tragedy for the poor.


La vita è un sogno per il saggio, un gioco per lo sciocco, una commedia per il ricco, una tragedia per il povero.

Sholom Aleichem [1859 - 1916]

giovedì 5 agosto 2010

Saigon o cara

Cara Saigon, come sei cambiata in due anni. La bolgia oscena di motorette arrembanti e rumorose è sempre la stessa. La disarmante cordialità dei tuoi abitanti anche. Ma molto ribolle nel tuo ventre inquieto ed affamato di crescita.

Sei cambiata. E di recente, molto in fretta. Proprio nel tuo centro basso e coloniale, non lontano dagli storici alberghi Rex e Continental, antiche costruzioni a due, massimo quattro piani, ricche di boiseries e dall’atmosfera ovattata da Indocina francese, sta sorgendo un arrogante siluro di ferro, cemento e vetro, con tanto di elisuperficie laterale, dal quale si sovrasterà il sinuoso e lento incedere del fiume Saigon, con le anse che disegnano la topografia della città. Nuovi colonizzatori: scritte in coreano costellano gli ultimi piani ancora da finire. Presto sarà completato, e offenderà per sempre la delicata armonia fatta di teatri barocchi, viali larghi e fioriti, case color ocra e vetrate art-decò.

Anche le persone si adattano al rapido sviluppo. Una nazione giovane e scalpitante attorno alle nascenti opportunità. Molti imprenditori sono a malapena trentenni. Un’azienda con cinque anni di storia è già un traguardo di cui vantarsi. Thong è il personaggio del giorno. Si racconta nello stentato inglese di chi ha imparato a masticarlo per necessità, non sui banchi di scuola. Voglia di rivincita, di arrivare, di dimostrare con la propria caparbia determinazione che non occorre la laurea per aver successo. I vecchi compagni di scuola, quelli più bravi, hanno cominciato ad apprezzarlo. Ha conosciuto la fame, Thong. Trent’anni o poco più, i ricordi sono vividi, i crampi allo stomaco ancora freschi. Parla delle condizioni miserabili (dice proprio così, miserable) in cui viveva la sua famiglia. Cresciuto in campagna, tutti lavoravano come somari senza saper bene per cosa. Se non per il diritto ad unirsi a quelle lunghe file pazienti, una volta al mese, per ricevere l’essenziale, in mano il libro che sanciva le razioni di riso e di vestiario – quando ce n’era, se no ci si accontentava di scampoli di stoffa e poi si confezionava a casa, la sera, dopo la giornata nei campi o nelle officine. Troppo recente la fame per averla già dimenticata. Troppo grande l’occasione offerta dall’apertura delle frontiere nel non lontano 1993. Fino ad allora non si usciva dal Vietnam. Né gli investimenti stranieri erano permessi. Tutto cambia. Ora Thong ha un’azienda sua e importa macchinari, parla anche cinese con la stessa esuberante approssimazione con cui si esprime in inglese, fuma sigarette costose dal pacchetto multicolore, ride di gusto e guida nel traffico orrendo una inutilmente spaziosa Honda. E non se la prende se l’occasionale motociclista lo tampona con un botto sordo di plastica deformata, vai vai sembra dire magnanimo, è stato a lungo un forzato dello scooter e sa quanto sia difficile divincolarsi in quel caos. Il tapino fa la faccia mortificata, chiede scusa con gli occhi di cane bastonato, forse teme che gli si chiedano dei soldi per il minimo danno al paraurti, ma Thong è gentile e tollerante, non ha dimenticato cosa vuol dire arrivare a fine mese avendo fame e nemmeno un soldo in tasca.

Per i mille Thong – e per molto altro ancora – continua a piacermi il Vietnam. Perché la gente non ha perso quella genuina dose di rispetto per gli altri. Perché tutti ti sorridono per strada, e senza necessariamente volerti vendere qualcosa. Perché mi sembra di essere tornato indietro nel tempo, e di rivivere la Cina di quindici anni fa. Anche se, cara Saigon, non mi parli più in francese come facevi un tempo. Anche se non trovo più il venditore ambulante che mi saluta la mattina presto, dicendomi bonjour monsieur e offrendomi l’Equipe. Sei meno coloniale e solo un pochino più puttana. Ma sei bella lo stesso, Saigon, o cara.