sabato 31 marzo 2012

Questo pazzo, pazzo mondo - 2a parte

Continua da ieri.

Scialacquare.
Vi avanzano cinque o dieci mila euro e non sapete dove buttarli? Ecco una simpatica proposta per quest’estate. Andate a vedere una semifinale degli Europei di calcio in Ucraina.

No, gli organizzatori non sono impazziti. E nemmeno i bagarini, o le linee aeree che costà portano. In compenso, gli operatori turistici di Donesk si devono essere guardati fra di loro e, dandosi di gomito a vicenda, avranno detto: ragazzi, ma quando ci ricapita un’occasione così nella vita, di avere orde di beoti pronti a spendere e spandere per vedere i propri beniamini in brachette?

E così una camera d’albergo vicino allo stadio, che di solito si rimedia con 42 euro a notte, nelle notti magiche (per i padroni dell’hotel) viene offerta a 3600 euro. Sì, avete contato bene gli zeri. No, non ci sono virgole in mezzo. Sono proprio tre mila e seicento euri. Troppo caro anche per il tifoso più accanito? Ci sono ottimi campeggi dove dormire per terra in una canadese. Un vero affare: solo 120 euro a notte.

Insomma, hanno fatto una tale esorbitante figura da ladri approfittatori che una moltitudine di loro concittadini, indignati (e già irreggimentati in un gruppo di Facebook), stanno proponendo ai turisti in arrivo per le partite di pallone di ospitarli gratis a casa propria.

Se è vero, questo sì che varrebbe la pena di farlo. Non per l’evidente risparmio. Per capire davvero – seppur per poco tempo – come vive la gente comune laggiù. Questa sarebbe la vera vacanza che arricchisce. E a quel punto chi se ne frega di ventidue giovinastri viziati che corrono avanti e indietro per un prato, rincorrendo in calzoncini una palla di plastica?

Only in USA.
Per concludere in bellezza (si fa per dire): avete presente Trayvon Martin, il ragazzo nero ucciso a pistolettate in Florida da un componente di una ronda a cui non era andato a genio il suo aspetto? Ma vi pare normale che i suoi genitori, adducendo la farisaica giustificazione di voler proteggere l’immagine del defunto dallo sfruttamento da parte di terzi, abbiano fatto... richiesta di brevetto per le frasi “Giustizia per Trayvon” e “Io sono Trayvon”???

A tutti i Trayvon ancora vivi e vegeti degli Stati Uniti: occhio a quello che vi lasciate scappare di bocca. Un domani vi potrebbe arrivare una citazione per lesa proprietà intellettuale, perché qualcuno vi ha sentito declinare le vostre generalità sollecitato da un agente di polizia.

Questo pazzo, pazzo mondo. Riesce a sorprenderci ogni giorno. Mica un compito facile. Eppure...



venerdì 30 marzo 2012

Questo pazzo, pazzo mondo

Notizie assortite, di poca o molta rilevanza, tratte dal quotidiano The Japan Times di oggi.

Pretese.
Il padre di Mohamed Merah, l’assassino islamista di Tolosa, da Algeri ha sporto denuncia contro i reparti speciali francesi, rei di avergli ucciso il figlio.

Mi interrogo: per favore, fai che l’iniziativa sia pilotata. Qualcuno, ben in alto, da qualche parte, deve avere un recondito interesse a creare un caso inedito e mediatico. Faccio fatica ad immaginare che un carneade qualsiasi, padre di un carrozziere, mica di un astrofisico, decida di far causa ad un esercito straniero. Così, senza consigli, senza spinte, senza la coscienza di esser tirato dentro in qualcosa più grosso di lui.

Anche perché, se una simile bizzarria giudiziaria dovesse avere un seguito, se io fossi il genitore di uno di quei bambini ebrei trucidati a scuola dal terrorista già assassino di parà francesi, allora farei a mia volta causa alla Gendarmerie. Rea di non averlo catturato – e eventualmente neutralizzato per sempre – prima del suo ultimo infame crimine.

Pendagli da forca.
A proposito di morti ammazzati. Era dal luglio 2010 che in Giappone non si giustiziava nessun condannato a morte. Si sono messi in pari coi ritardi. Ieri sono stati impiccati tre criminali, tutti pluriomicidi, e con gustose aggiunte di efferatezze varie nell’esecuzione dei delitti.

Il Ministro della Giustizia Ogawa, da poco insediato, ha dichiarato: ho ottemperato al mio dovere. Il popolo ha il diritto di vedere i criminali puniti, e un sondaggio governativo indica che la maggioranza dei giapponesi è favorevole alla pena capitale.

Le rare voci dell’opposizione protestano con garbo e toni pacati tipicamente nipponici. Un professore universitario, docente di criminologia, afferma che il ministro “ha fatto un grave errore” e che – vista la sua recente nomina – non ha certo avuto tempo sufficiente per analizzare a fondo le storie criminali dei tre giustiziati.

Come avevo scritto tempo fa: l’ossessione per la pulizia finale. L’uomo della strada commenta, tre assassini in meno da mantenere.

Non so se giustizia è fatta, né quello che provino oggi i parenti delle vittime. Ma la gente respira a pieni polmoni l’aria diventata più pulita. In attesa della prossima forca purificatrice delle nefandezze umane.

Continua domani, con la seconda parte.

Soulmate

Scritto due anni fa. Non è cambiato nulla, se non per il meglio, in quanto provavo allora. Riproposto oggi per un anniversario davvero speciale.

Soulmate

Singolare. Perché di anima gemella ne incontri una nella vita. Nonostante le vicissitudini, le vite nuove, le distanze talvolta siderali, nulla al mondo ci potrà allontanare l’uno dall’altra contro la nostra volontà.

È bello sentirsi, mandarsi un messaggio, vedersi ogni tanto con la serenità di vecchi amici, fratelli quasi, che hanno in passato condiviso esperienze, momenti belli e momenti difficili, che hanno fatto scelte, ma nessuna traumatica, nessuna individualista, nessuna inibitoria. Anzi.

È bello ricordarsi una data speciale. Farsi gli auguri – paradossale per due persone divorziate – nel giorno dell’anniversario del matrimonio. Per questo parlo di anima gemella. Sono passati vent’anni da quel giorno, Angela. Ne dovessero passare altri cento, sono certo, il trenta marzo ci sentiremo per telefono per scambiarci un abbraccio. Solo tra soulmates può succedere un tale, semplice, sincero, affettuoso miracolo.


mercoledì 28 marzo 2012

Tokyo, Itary

Niente da dire. Il tricolore vende sempre bene. Basta una bandiera fuori da un bar per richiamare, fin da lontano, l’attenzione di avventori nostalgici di quel piatto di pasta provato nel Lazio saporito o quelle lasagne gustate nella generosa Romagna.


Talvolta i tabelloni fuori dai locali esibiscono pochi, essenziali lemmi italiani: i soli capiversi, le grandi categorie. Sai che ci sono paste, pesci, pizze, dolci. Ma i piatti sono descritti esclusivamente in giapponese. Senza delle salvifiche foto sul menu ordinare diventa un dramma. Provate a imbroccare delle penne all’arrabbiata o un tiramisù, in quella selva di caratteri. E poi. Sempre originali, i nipponici. Nel resto del mondo si tira tardi sul weekend. Questo ristorante, per festività e fine settimana, chiude alle ventitrè. Nei giorni feriali alle quattro di mattina. Valli a capire.


Ci sono cose che un partenopeo verace non perdonerebbe mai, sebbene davvero esilaranti. Passi che una pizza margherita te la facciano pagare sedici euro (attenzione: non si tratta della magnanima ruota da trenta centimetri sbordante dal piatto come s’usa alle pendici del Vesuvio, ma di uno striminzito e malcotto modellino in scala che uno scugnizzo di otto anni accoglierebbe a pernacchie). Ma che perfino la città patria della pizza cada vittima del più famoso errore ortografico giapponese, questa è una faccenda da risolvere con le buone o con le cattive. Caro chef Matsumoto: Napori? Ma vulimme pazzià?!?

mercoledì 21 marzo 2012

Un’Altra Dannata Acqua

Prima che tu chiami angosciato il dottore, o faccia i bagagli, dia un bacio alla mamma e ti arruoli nel Circo Viaggiante dei Mostri, ti possiamo garantire che non hai accidentalmente mangiato dei funghi sospetti.

Questa è davvero la nostra nuova bottiglia arrotondata. Sì, abbiamo messo su curve e perso peso, che va bene perché gli spigoli sono fuori moda e le rotondità invece sono in. Ciò significa usare il 40% in meno di plastica, e la notizia fa eccitare anche l’ambiente.

La nostra nuova bottiglia è sempre riempita con la stessa acqua pura di sorgente delle Alpi del Victoria, dove non ci sono nè veleni nè prodotti chimici. In sostanza, gli unici parassiti che troverete lassù stanno guidando dei caravan, indossano calzettoni al ginocchio e guardano perplessi le loro carte topografiche Melways del 1974 chiedendosi quale è la strada per Coffs Harbour.

Allora, mettete le mani sulle nostre curve e godetevi un’Altra Dannata Acqua.


Tutto questo è – testualmente – riportato sull’etichetta di una bottiglia di acqua, trovata in un qualsiasi negozio di Melbourne. Riuscite a immaginare un creativo italiano, seppur il più trasgressivo, che oserebbe mai mettere insieme un simile sproloquio politicamente scorrettissimo, per descrivere, anzi celebrare una mercanzia che qualche suo collega australiano ha avuto l’audacia di battezzare Un’Altra Dannata Acqua?

Per apprezzare meglio lo humour, giova ricordare che Coffs Harbour dista qualcosa come mille e cinquecento chilometri da Melbourne, e che parassiti non rende appieno il gioco di parole in inglese, perché “pests” significa sia insetti nocivi che scocciatori, rompiscatole.

Straordinari australiani. Senza timori e senza pudori. Pieni di ironia, sempre pronti a ridere di se stessi. Ecco perché li adoro.

venerdì 16 marzo 2012

Fantasia al potere

Oggi mi sono svegliato in vena di filosofeggiare. Che cosa spinge un produttore cinese a creare una imitazione da quattro soldi di un articolo di fama? L’ovvio desiderio di profitto, sfruttando la pavlovica tendenza della gente di restare fedeli all’uso di mercanzie, della cui immagine la pubblicità provvede a bombardarci quotidianamente il cervello, finchè non siamo – a livello di subcosciente – convinti della necessità di possedere quel bene, quale viatico alla felicità nella nostra vita.

Perfino un processo non proprio legale ha le sue regole non scritte. La scelta del marchio, per esempio. Anche i meno scafati trafficoni sanno che falsificare pedestremente un prodotto può metterli nei guai. Bisogna fare qualcosa il più possibile assomigliante, ma che ancora differisca un po’. Tanto da poter dire, in caso di necessità, no, non è mica quello. È un’altra cosa. Ma abbastanza simile da ingannare l’occhio inesperto del consumatore. Tanto la maggioranza dei fruitori, cinesi, manco sa leggerlo l’inglese. Va a occhio, un po’ come noi europei con quei simpatici ideogrammi orientali, carini da vedere ma assolutamente inintelligibili.

Così si creano capolavori come questo. Avete presente la catena francese di profumerie e prodotti di bellezza vari? Guardate un po’ cosa sono riusciti a tirare fuori degli artisti dello scimmiottamento. E nel pieno centro a Shanghai, mica in qualche sperduto borgo di campagna!

domenica 11 marzo 2012

Drogati da lavoro

L’autista che di prima mattina ci porta dalla parte opposta dell’isola di Xiamen guida peggio della media dei taxisti cinesi. Scatti repentini. Spostamenti di corsia all’ultimo minuto. Appeso al volante in una postura del tutto innaturale. Ci sono momenti che sembra quasi cadere sul parabrezza.

Visto dal sedile posteriore non è un bello spettacolo. Mi viene in mente una battuta, per cercare di sdrammatizzare l’impalpabile tensione tra i tre passeggeri – tutti italiani – del mezzo disordinato. Ma questo ha imparato a guidare sugli autoscontri? No, mi dice il collega esperto di Cina seduto accanto al guidatore. È drogato. Ah, bene, fa piacere essere in balia di un taxista drogato. Non posso dire il nome cinese, continua, se no capisce che parliamo di lui, ma si è fatto di betel. Guidano tutta la notte, e la mattina, per riuscire a continuare il turno, masticano la noce del betel. Così rimangono svegli, ma in una specie di trance drogata, che causa improvvisi risvegli di coscienza e relative reazioni al volante. Il turno medio è dodici ore, a Shanghai c’è gente che per arrivare a fine mese lavora senza mollare il volante per sedici ore. Due terzi di giornata nel caos del traffico shanghainese. Drogati da lavoro.

Tutto provato sulla nostra pelle in quei pochi chilometri che però sembrano molti di più. E poi qualcuno mi chiede ogni tanto, con tutti gli aerei che prendi, ma non hai paura di volare?

Noce di betel. Mi ricorda un vecchissimo racconto mai pubblicato, Binlang xishi, scritto a fine secolo scorso durante una visita a Taiwan.

Gli automobilisti si fermano per strada, per comprare dalle Xishi, avvenenti signorine succintamente vestite, il Binglan, l’eccitante betel. Come per i sudamericani la foglia di coca. Binglan, il chewing gum dei taiwanesi.


Binlang Xishi (檳榔西施)

Se qualche ignaro forestiero si trovasse per la prima volta nel traffico di Taipei, potrebbe sorprendersi o preoccuparsi (o magari stare male, se particolarmente sensibile), nel vedere un guidatore di camion che ha un improvviso sbocco di sangue mentre è alla guida. Niente paura. Si tratta solo del chewing-gum taiwanese. Molto diverso dal nostro concetto. È un piccolo involucro fatto con una foglia ripiegata, nel cui interno c’è una sostanza rossa, a base di calcio, che si mastica e poi si sputa (per la strada, dal finestrino), lasciando tracce indelebili ed oscene, che imbrattano il suolo – e decorano a strisce purpuree le fiancate dei camion. Al punto che un recente regolamento prevede che le venditrici del suddetto, insieme con la dose giornaliera, forniscano anche dei bicchierini di plastica per gli espettorati dei fruitori. E dose non è un termine ambiguo. Anzi. C’è gente qui che arriva a spendere anche duecentomila lire al giorno, per mantenersi il vizio del chewing-gum. Dipendenti. Peggio del fumo, peggio di una droga.

Si trova dappertutto, e chi lo vende sono fanciulle in vetrina, parcheggiate in gabbiotti ai bordi delle strade, presenti ovunque in quantità imponente. Filari di lucine colorate, quelle degli alberi di Natale, lampeggianti rossi rotanti, presi a prestito da qualche trasporto eccezionale, ed altri ingenui richiami visivi servono ad attirare i clienti. Ma il richiamo maggiore sono le gambe delle fanciulle, ostentate attraverso la vetrata che si affaccia sulla strada. Gonne microscopiche, gambe accavallate. Facile fermarsi. E non c’è neppure bisogno di scendere dalla macchina. Sollecite, le ragazze escono dal gabbiotto, esibiscono le loro scoperte grazie e forniscono il necessario. Chewing-gum, sigarette o altri generi di conforto, che talora sconfinano nella profferta di una veloce prestazione amorosa, da concordarsi sul momento, da consumarsi nel retro – attrezzato all’uopo – del box. Non c’è, probabilmente, un solo posto al mondo privo di prostitute. Mai viste, però, camuffate da venditrici di chewing-gum.


Prima redazione di Binlang Xishi : febbraio 1999

sabato 10 marzo 2012

Dieci piccoli lemmi - 2a parte

Continua da ieri.


I giochi (d’azzardo), online e non. Ormai è diventata un’ossessione. Ovunque ti giri trovi qualcuno pronto ad appiopparti la tua dose oraria di potenziale buona sorte. Sono andato in posta e mi son sentito chiedere dall’impiegata, lo comprerebbe un gratta e vinci? No, le ho risposto secco. Mai comprato nemmeno uno per scherzo. Perché si comincia sempre con la dose gratuita che lo spacciatore ti rifila per accalappiarti. Ho giocato, lo confesso. Da giovane, ai cavalli, roba da pochi spiccioli. Più per rendere avvincenti le corse all’ippodromo che per la voglia – o la necessità – di vincere dei soldi. Rare, rarissime volte alla roulette. E con un principio basilare: è un divertimento come un altro. Finiti i soldi stanziati per la serata, finito il gioco. Una volta – l’unica – in vita mia, ho sognato una zia che mi dava dei numeri. Credeteci o meno, ho provato a giocarli. Mi sentivo veramente ridicolo. Non sapevo nemmeno dove diavolo fosse un banco del lotto, né come si facesse a giocare. La gente lì dentro, professionisti della giocata con la smorfia tutta a memoria, mi guardava come un marziano. Non uscì nemmeno un numero. Capii il messaggio: perfino le zie defunte non volevano che io giocassi. Toglietemi di torno tutte queste icone con fanciulle ammiccanti che promettono vincite e premi. Voto: uno. Diseducativo. I soldi si fanno lavorando, non giocando. Con un’eccezione. I biscazzieri, reali o virtuali che siano, alle spalle dei sempliciotti che credono alle lusinghe della dea bendata.

Il canale tivu del poker. Che razza di società è quella che sente il bisogno di avere una emittente televisiva simile? Tutto il santo giorno mostra primi piani di sfaccendati, spesso vestiti come degli imbecilli, seduti attorno ad un tavolo verde a piluccare angoli di carte da gioco cercando di vincere montepremi oltraggiosi con i quali arricchire collezioni di catenazze d’oro e di pacchiani orologi da polso tempestati di pietre alla maniera degli emiri. Qualcuno mi dirà: c’è il telecomando, cambia canale. Cancellalo dalla lista di sintonizzazioni. Maledette tivu moderne. Ogni tre giorni ti aggiornano automaticamente l’elenco dei canali trovati. Fatti i fatti tuoi, dannato aggeggio piatto. Non voglio – neppure per sbaglio – cadere nella visione di un branco di scioperati scommettitori. Voto: lo stesso della voce sopra. Uno. Doppiamente diseducativo. Perché illude, e fa vedere anche i risultati. Come ci si riduce a giocare tutto il giorno a poker. Catene al collo che manco un rapper di Harlem.

VIP. Un evergreen. Detestabile da sempre. Con tendenza in aumento, come dicono i meteorologi parlando delle perturbazioni. Tutto ciò che è etichettato come VIP dovrebbe essere, d’istinto, evitato come la peste. Perché è da gonzi pensare che una tessera, un biglietto d’invito, una qualsiasi profferta commerciale possano automaticamente trasformare un tapino in una personalità. Si vende un’inesistente esclusività con tale liso, consunto, abominevole acronimo. Voto: Inqualificabile.

Assolutamente sì. Quanto mi urta sentire qualcuno che risponde così a una mia domanda. Pleonasmo? Ridondanza? Vanesia necessità di riempirsi la bocca di suoni superflui? Esiste forse un sì relativo, sì ma non del tutto sì, tanto da sentir il bisogno di rafforzare lo splendido, lapidario monosillabo con un tanto inutile quanto vacuo avverbio? Vuoi tu prendere in sposo il qui presente? Assolutamente sì. E tu, vuoi prendere la qui presente come tua sposa? Sì. Manco usciti dalla chiesa, e già la prima litigata da coniugati: solo sì? Io ho detto assolutamente sì. Allora non mi ami abbastanza. Aveva ragione mia madre. Ma no, cara, è la formula di rito: si dice sì. Sei sempre il solito arido insensibile. Io ti amo di più, per questo ho detto assolutamente sì. E via discorrendo. Voto: tre. Ho le orecchie doloranti a furia di sentir ripetere da troppa gente questo ipocrita sbrodolamento attorno ad un semplice, puro, inequivocabile "sì".

Choc. Dovremmo essere tutti costantemente choccati (orrendo neologismo), stante la frequenza con cui si infila questo prezzemolo lessicale nei titoli di articoli. Bossi-choc. Cina-choc. Juve-choc. E così via. Una parolina buttata lì in mezzo al discorso come un assordante petardino che scoppia all’improvviso, facendo trasalire dallo spavento. Mentre basterebbe usare le proprie conoscenze per non turbarsi né sorprendersi. Conoscete Bossi e le sue sparate. In Cina si sa come funziona. La Juve? Di cosa volete ancora stupirvi nel calcio? Vi prego. Lasciate lo choc alle rare punture di api andate a finire molto male. Voto: Quattro di incoraggiamento, perché lo choc anafilattico esiste e la parola rende l’idea. Mentre invece, a furia di sentirsi invitati a scioccarci per questo e quello, come il re Mitridate, diventiamo assuefatti ed insensibili, perfino a ciò che davvero dovrebbe sconvolgerci e indignarci. E questo non va bene.


venerdì 9 marzo 2012

Dieci piccoli lemmi

Ma fastidiosi. Le dieci parole (alcune sono concetti compositi) il cui uso – ed abuso – meriterebbe loro l’immediata elisione dal dizionario. Basta. Non se può più di ritrovarcele tra i piedi – o meglio, tra gli occhi e le orecchie – ogni tre per due. Per favore.

Fashionista. Uuh, che brutta parola. Già di per sé suona male, come tutte le storpiature dell’inglese adattate alla lingua di Dante. Per non parlare del significato. Personifica la vacua attenzione al superfluo, quando siamo in momenti di mancanza – per molti – del necessario, del basilare per sopravvivere dignitosamente. Rappresenta l’ostentazione di una spesso mal meritata e superficiale opulenza. Promuove l’assenza di pensiero, strangolato dalla assoluta mancanza di tempo per esercitarlo, tutta presa come è la fashionista nell’apprendere e memorizzare il calendario degli eventi mondani a cui non si può assolutamente mancare. Per sfoggiare l’ultima mise e il totale vuoto di argomentazioni. Voto: Due. A casa, il lemma e la schiera di nullafacenti fashioniste.

Sondaggi. La maledizione quotidiana ci investe in ogni campo dello scibile umano sondabile. A casa anche i manipolatori del nostro pensiero, che ci sussurrano subdolamente quali obbligatorie opinioni avere. Come è messo il tale partito? Sondaggio. Come va a finire la guerra in Vattelappesca? Sondaggio. Come reagiscono gli italiani all’ostensione di farfalle inguinali? Il sondaggio ve lo dice (un bel chi se ne frega non ci sta proprio bene ora??). Roba di oggi: meglio Messi o Maradona? Vi sentite tagliati fuori? Nessuno ha mai chiesto il vostro parere? Niente paura. Ci pensano gli instant poll: le maggiori - e perfino le minori - testate, con una strizzata d’occhio esterofila, vi invitano a dire la vostra, spesso in questioni talmente ininfluenti e scontate da rasentare la banalità. E potete vedere subito se siete nella maggioranza o fate parte dell’opposizione: eeeh, son soddisfazioni. Utilità: tendente allo zero. Perdita di tempo: cento per cento. Proposta: radiazione dal vocabolario e dall’uso quotidiano.

Spread. Insieme con downgrade, junk-bonds e austerity fanno parte della litania diuturna che ha sostituito, come potere iettatorio, il funebre frac nero con cilindro e occhiali in tinta coordinata. Ogni volta che si sentono nominare questi quattro cavalieri dell’apocalisse finanziaria la gente esegue complicati riti di scongiuro con toccamenti nemmeno reconditi di parti auspicali. Lasciateci in pace. Abbiamo capito che siamo nella melma. Non c’è bisogno di ripetercelo ad ogni piè sospinto. Soprattutto per quel vago ma aleggiante sentore di manipolazione. Perché i soloni della finanza creativa cadono quasi sempre in piedi? Per un Madoff in galera, quanti artisti della manovra ai limiti dell’illecito internazionale sono a piede libero e pontificano dagli scranni di consigli d’amministrazione di banche e istituzioni finanziarie che vendono due gatti da un milione di euro per comprare un cane da due milioni di euro? Voto: zero. Perché non se ne può più di questo subdolo terrorismo dell’informazione, che va ripetendoci, con voce chioccia e melensa: stai fallendo, stai fallendo, guarda che stai fallendo...

Mito. Non passa giorno che i nostri giornali e notiziari non riportino almeno una notizia chiosata dal fastoso termine. Ora, va bene parlare di miti classici. Una mostra dedicata a Leonardo può a buon diritto intitolarsi il genio, il mito. Archimede: mito e realtà? Ottimo. Ma che a calciatori in disarmo, boy-band di trent’anni fa, serie cinematografiche con agenti segreti più lesti nello smutandare giovani spione di coscia lunga che nel combattere il cattivo di turno, perfino chitarre rock vengano attribuiti meriti tali da giustificare l’uso della parola mito, questo proprio mi indispone. Perché, per la legge dell’assuefazione, se si tende a mitizzare ogni cosa, alla fine si banalizzano anche gente come Omero, Archimede e Leonardo. Equiparandoli a tizi in brachette che prendono a calci un pallone, a degli sfiatati strimpellatori e ai loro strumenti elettrici. Sette in condotta: manteniamo le distanze.

La profezia Maya. Ragazzi, abbiamo nove mesi davanti. Manco un figlio riusciamo più a fare. Penitenziagite. La fine del mondo è dietro l’angolo. Ma guarda un po’ tu che razza di sfiga. È cinque miliardi di anni che questo cavolo di pianeta gira, e proprio quando ci sono io deve decidere di autodistruggersi, come l’astronave di un pessimo film di fantascienza? Ci sono già schiere di buontemponi che vanno in giro con cartelli appesi al collo, invitando alla redenzione dei propri peccati, prima che l’apocalisse ci spazzi via tutti. Un momento: ma il mondo non doveva finire già lo scorso ventuno ottobre? Ah, no, il pastore rincitrullito si era sbagliato. Aveva fatto male i calcoli, ha dichiarato. E non doveva succedere qualcosa di terribile allo scattare dell’anno duemila? Mille e non più mille, tuonavano degli arcigni catastrofisti. Si son sentiti dei buddisti, che sono avanti di più di cinquecento anni rispetto al nostro calendario, farsi delle grasse risate. Ahahah, il duemila. Mi ricordo. Quand’ero piccolo il bisnonno mi raccontava che a quell’epoca i suoi avi… Voto: Uno. Lasciateci campare in pace. Avete delle certezze? No. E allora tenetevi le vostre profezie e le vostre superstizioni. E non ci fracassate i gioielli con iettatorie previsioni calamitose.


Continua domani, con la parte alta della classifica...

mercoledì 7 marzo 2012

Margaritas ante porcos

Uno screanzato gruppo di coreani in transito all’aeroporto di Singapore si affaccenda intorno al banco della degustazione del cognac di uno dei numerosi Duty Free Shops. La ragazza addetta alla mescita serve solerte dei bicchierini in plastica riempiti per un terzo del prezioso nettare che fa bella mostra di sé sul banco, con tanto di prezzo dotato di svariati zeri.

I coreani fanno sparire di malagrazia il frutto di decenni di invecchiamento nelle voraci budella, subito sollecitando con gesti imperiosi l’erogazione di ulteriori assaggi e contornando il tutto con l’emissione di volgari suoni di apprezzamento.

La ragazza comprende la situazione e ricerca con lo sguardo l’intervento di un collega che dirima la questione. Sa che da sola non ha alcuna possibilità di fare valere le proprie ragioni con un gruppo di uomini, in special modo coreani. Al sopraggiungere del cortese ma fermo direttore della boutique del bere, gli scrocconi sciamano via come piccioni al rintocco di mezzogiorno, palesando la già manifesta intenzione non di acquistare, bensì di ingollare a ufo quanto più possibile liquore. Quando si dice: tutto il mondo è paese.



Prima pubblicazione : 14 gennaio 2008

lunedì 5 marzo 2012

Politically incorrect

Ogni nazione, ogni popolazione ha le sue vittime predestinate, nel creare barzellette o calembour che alludono alle non proprio esaltanti virtù intellettive di un certo gruppo, etnico o meno che sia. I francesi hanno i belgi. Gli svedesi hanno i norvegesi. Da noi si contano infinite storielle sui carabinieri che, bontà loro, in generale non si offendono (ricordo peraltro un amico, ex benemerita, che anche a distanza di anni dalla leva digrignava i denti tutte le volte che in compagnia qualcuno, ignaro dei suoi precedenti, faceva una battuta su di loro). Gli inglesi e – per estensione coloniale – gli australiani hanno gli irlandesi.

Un piccolo incidente, di quelli che ti aspetteresti in Italia ed invece, guarda un po’, accadono anche in Australia, nella civilissima Sydney. Parcheggiamo per un paio d’ore la macchina per andare a cena. Al ritorno, un vetro è sfondato, alla ricerca di qualcosa di valore da rubare. Errore. Mai lasciare in vista una borsa da lavoro. Anche se il computer è al sicuro a casa, c’è sempre qualcuno che si fa attrarre da quella promettente, seppure deludente, visione. E intanto il vetro te lo tieni in briciole.

Insomma, pezzetti di vetro dappertutto e nulla che manca. Visto che dentro non c’erano altro che inutilissime cartacce di lavoro, non hanno nemmeno fatto la fatica di portare via la borsa. Il giorno dopo, sabato, è vano sperare di trovare un volonteroso meccanico che ripari il danno. Ma il mio amico, in una crisi di infingardia, e complice anche il beltempo, non ci mette neppure un pezzo di cellophan, classico rimedio all’italiana alle spaccate. Così viaggiamo con un buco vistosamente aperto dove c’era il finestrino posteriore.


Arrivati al mercato del pesce, che il weekend pullula di turisti e per una vera fesseria ti danno dei piatti di ostriche fresche che ci senti ancora l’odore salmastro di un mare limpidissimo, ecco il capolavoro di humour. Gli domando: ti fidi a lasciare la macchina parcheggiata così? E lui, serio: sì. E se poi troviamo un altro vetro spaccato, perlomeno sappiamo che è stato un irlandese. Grandioso. Credo di avere riso, incontrollabilmente, per dieci minuti. Ho sempre detto che adoro lo humour inglese. Al suo meglio.


Prima pubblicazione : 24 giugno 2008

sabato 3 marzo 2012

La piccola bottega degli orrori - 2

Ogni tanto mi capita, più per compiacenza nei confronti di altri commensali che per genuino piacere, di accettare inviti in ristoranti italiani o presunti tali. E in questi simposi, di menu raffazzonati o impregnati di castronerie ne ho letti più di qualcuno in vita mia. Ma pochi possono contendere il primato ad un locale di una nota catena di pizzerie che finge di essere italiana, in un brulicante centro commerciale di Singapore.

Mi è venuto il sospetto che il supporto linguistico tricolore sia opera di consulenti foraggiati dalla concorrenza intenzionata a danneggiare la suddetta impresa. Perché altrimenti non si spiegherebbe un tale accanimento nei confronti del nostro vocabolario.

È già poco accettabile che, sia pur con la scusa dell’incombente stagione natalizia, si propini ad un’innocente avventore una pizza decorata nel centro da una ciliegia completa di picciolo, di quelle dall’inquietante colore rosso ferrari, che ti chiedi sempre che diavolo di tinture chimiche usino per conciarle così. Ma tant’è. Puoi sempre togliercela, se proprio ti fa ribrezzo l’idea. E in fondo, se ci sono dei vicini di tavolo che si strafogano con una pizza all’ananas, che meraviglia può destare una ciliegia fosforescente?

Ancor meno tollerabile è che pretendano di pubblicare sul menu amenità e fatti curiosi sul Natale, ed informino, udite udite, che non dappertutto il vecchio barbuto che porta doni su una slitta tirata da renne volanti è conosciuto come Santa Claus, ma che per esempio in italiano si chiama (sic) Le Befana. Voltiamo pagina.

Grazie alla mania americana di abbreviare le parole per rendere tutto più veloce e più pratico, che non abbiamo mica tempo da perdere qui, ecco infine la perla che vado ad illustrare. Una pasta seminata di tocchi di pollo ed altri ingredienti che ora mi sfuggono, nella foga del succingere, trasforma il troppo lungo chicken in chic’. Si suppone che il redattore della carta fosse in vena di estrosità geografiche, vista la conclusione del suo capolavoro. Chic’… Chic’…? Come le battezzo queste linguine al pollo? Ecco l’idea! Trovato. Chiamiamole come la città americana. Chic’ cago. Proprio così, verbatim. Potessi morire. Gli ho fatto una foto perché non ci credevo. Defeco elegantemente. In pizzeria.

Il candido, ingenuo peto di pollo letto una volta in Australia è surclassato. Maledetti creativi, quando imparerete a consultare i dizionari delle lingue che violentate con i vostri cervelli bacati, per il vile profitto di qualche pizza o di qualche piatto di pasta venduti in più?


Prima pubblicazione : 2 dicembre 2007

giovedì 1 marzo 2012

Quale allegria

Di recente ho riascoltato per caso alla radio uno dei pezzi più magicamente tristi di Lucio Dalla. Mi ha riportato indietro nel tempo, ho rivissuto per un attimo sospeso dei momenti di quasi trent'anni fa. Subbuglio interiore. Ci sono canzoni che non si rimuovono da dentro. Ci sono frasi che ti fanno d'improvviso avvertire che hai un cuore. Lo senti muoversi. Pulsare forte, imperioso. Tolgono il fiato, e capisci che non potresti aggiungere altro, nemmeno con un milione di parole a disposizione, a quella perfetta armonia malinconica. Allora oggi lascio che il maestro Lucio ci racconti ancora una volta la sua poesia antica ma sempre attuale:

Quale allegria
se ti ho cercato per una vita senza trovarti
senza nemmeno avere la soddisfazione di averti
per vederti andare via

quale allegria,
se non riesco neanche più a immaginarti
senza sapere se strisciare se volare
insomma, non so più dove cercarti

quale allegria,
senza far finta di dormire
con la tua faccia sulla mia
saper invece che domani ciao come stai
una pacca sulla spalla e via...
quale allegria,

quale allegria,
cambiar faccia cento volte per far finta di essere un bambino
con un sorriso ospitale ridere cantare far casino
insomma far finta che sia sempre un carnevale…
Sempre un carnevale.

Senza allegria
uscire presto la mattina
la testa piena di pensieri
scansare macchine, giornali
tornare in fretta a casa
tanto oggi è come ieri

senza allegria
anche sui tram e gli aeroplani
o sopra un palco illuminato
fare un inchino a quelli che ti son davanti
e son in tanti e ti battono le mani.

Senza allegria
a letto insieme senza pace
senza più niente da inventare.
Esser costretti a farsi anche del male
per potersi con dolcezza perdonare
e continuare.

Con allegria
far finta che in fondo in tutto il mondo
c'è gente con gli stessi tuoi problemi
e poi fondare un circolo serale
per pazzi sprassolati e un poco scemi

facendo finta che la gara sia
arrivare in salute al gran finale.
Mentre è già pronto Andrea
con un bastone e cento denti
che ti chiede di pagare

per i suoi pasti mal mangiati
i sonni derubati i furti obbligati
per essere stato ucciso
quindici volte in fondo a un viale
per quindici anni la sera di Natale...


Veni, vidi, risi

Impareggiabili. Per la fantasia. Per la spudoratezza. Per il collettivo disconoscimento del concetto di proprietà intellettuale.

Parlo dei cinesi e della loro furiosa voglia di arricchirsi, che li spinge a copiare, produrre, buttare fuori roba, purchè sia.

Viaggiare in Cina è una sorgente continua e quasi inesauribile di sorpresa e divertimento. Come non cedere alle lusinghe dello scatto, di tanto in tanto? Foto rubate, al volo, là per là. Veni, vidi, risi.

E a volte perfino gli amici locali sghignazzano di gusto, senza vergogna, di certe stravaganze. Come l’altra sera, all’uscita da un ristorante del centro di Shanghai, quando abbiamo avvistato, su uno scooter regolarmente parcheggiato sul marciapiede, questo piccolo capolavoro di creatività imitatoria cinese.



Prima pubblicazione : 28 novembre 2009