giovedì 30 maggio 2013

Prigionieri - 2

Fèrmati per andare avanti. È il motto dell’Eremo del Silenzio.

E pensare che pochi mesi fa, all’arrivo a Perth, avevo sorriso, vedendo, proprio all’uscita dall’aeroporto, la pubblicità dalla vecchia galera di Fremantle. Che, con squisito senso dello humour australiano, recitava: dando il benvenuto ai visitatori da centocinquanta anni. Il nuovissimo mondo. Talmente recente da non avere nient’altro di più antico o di più rimarchevole da visitare. Che idea bizzarra, vero, visitare una prigione?


Invece, una domenica di maggio, mi capita di passare davanti alle Nuove, a Torino. Fin da ragazzo ricordo di aver osservato quei muri in mattone pieno con un senso di inquietudine e di curiosità insieme. Curiosità di sapere che mondo ci fosse dietro quella recinzione, dietro quelle sbarre, attraverso le quali ogni tanto capitava di vedere un detenuto comunicare con qualche parente – prima degli anni di piombo, che porteranno misure più severe e ancor più spinto isolamento dal mondo esterno. Inquietudine per quel senso di ovvia pericolosità del luogo, dell’ambiente, il pensiero teso all’auspicio di non dover mai, neppure per errore, trovarsi a dover frequentare da ospite tale luogo di pena ed espiazione.

E la curiosità mi ha sopraffatto, quando ho trovato un nuovo varco laterale spalancato di recente nel muraglione. Impossibile resistere. Bastano pochi, timidi passi, ed eccomi dentro al perimetro del carcere. Una signora mi chiede: vuole visitare il Museo delle Nuove? Forse, dico, ma mento. Certo che voglio. La seconda e la quarta domenica del mese ci sono visite guidate, alle nove di mattina. Unico viandante mattiniero, ho la fortuna e il privilegio di avere una guida tutta per me. Michele, volontario, mi accompagna attraverso un percorso di oltre un’ora. Attraverso il camminamento interno, recintato dalle due cinte murarie, si entra nella struttura. Non prima di aver reso un omaggio ad una teoria di fotografie d’epoca, ritratti seri, fieri, volti non sconfitti, vittime delle rappresaglie naziste in tempo di guerra. Persone che oggi si ritrovano nella toponomastica di Torino. Il generale Perotti, Massimo Montano, Paolo Braccini, Eusebio Giambone, Ignazio Vian, Emanuele Artom. E tanti altri sconosciuti combattenti morti per darci un’Italia migliore. Chissà se lo rifarebbero, vedendo l’odierno stato miserevole della nostra penisola.

Michele alterna interessanti notizie storiche e architettoniche con le vicende di umili eroi, come suor Giuseppina, che salvò uomini, donne e bambini, in tempo di guerra. Come padre Ruggero, cappellano carcerario, cinquant’anni tondi passati lì dentro, dalla guerra alla seconda repubblica.

E poi ci sono le odissee di ignoti reclusi, raccontate dai graffiti incisi sui muri delle celle. Disegni, incerte parole in dialetto, ma anche le ultime lettere dei partigiani condannati, piene della loro straziante certezza di morire, pur confortata dalla serena fierezza di aver lottato per un mondo migliore, che lasciavano in eredità a mogli, figli, parenti.

Fra tutte queste testimonianze scarabocchiate da animi angosciati, c’è chi, nella sezione femminile, è stata capace di sintesi massima, mentre esternava cosa si prova a stare in cella: qui si fa solo strage di sogni.

Michele mi chiede, alla fine, di far conoscere il loro oscuro lavoro di volontari, retribuito solo dall’apprezzamento e dalla riconoscenza dei visitatori. E di lasciare due parole sul registro. Faccio entrambe le cose molto volentieri. Ci sono esperienze che vale la pena fare, nella vita. Come questo viaggio attraverso un luogo opprimente, ancora grondante dolore e echeggiante grida e lamenti di sofferenze passate. Per capire il valore della parola libertà, spiegata nell’ambiente in cui è costretto a vivere – e spesso a morire – chi la libertà l’ha persa. Giusta o sbagliata che sia la ragione per cui si son trovati lì.

Sono di nuovo fuori da quelle mura alte e scure. Respiro a pieni polmoni l’aria tersa e fresca. Il sole non mi è mai sembrato così caldo e scintillante.




giovedì 16 maggio 2013

Prigionieri – 1

Bloccato per un giorno e mezzo a Torino da uno sciopero delle ferrovie, per fortuna sul weekend. Sul momento mi sento intrappolato dalle circostanze. Strana sensazione, essere in un posto e non poterlo lasciare. Poi decido di fare di una seccatura un’opportunità. Prigioniero della mia città natale, mi metto a girovagare, riscoprendo angoli che mi piacciono. Turista per caso. Complice il tempo bellissimo, scatto foto a destra e a sinistra.

Il palazzo con il piercing. Mi metto a naso in su, e mi accorgo di non essere l’unico che non conosceva questa estrosità architettonica. Altri seguono l’esempio, sfoderano telefonini e macchine fotografiche e se ne vanno soddisfatti della scoperta.

Mi piacciono i campanili. Ce ne sono di bellissimi in giro per Torino, e nemmeno i più famosi. Ecco San Donato al tramonto, illuminato in tralice, con i colori sgargianti sulle pareti e l’oro delle statue che scintilla. E San Secondo colto proprio sul rintocco di mezzogiorno, con le campane che si agitano festose e riempiono l’aria di suoni.

Ci sono scorci, dalle parti del quadrilatero, che mi ricordano la Toscana. Raro vedere case dalle facciate ricurve a Torino, città squadrata e ordinata per eccellenza. Ma cercando bene qualcuna se ne trova. Aria di Granducato, più che Regno di Sardegna...

Le sfigatte. Simpaticissimo il nome scelto da questa associazione: aiutano gli animali in difficoltà a trovare un umano che abbia voglia di ospitarli e dar loro una buona vita. E il motto è umilmente memorabile: ci piacerebbe cambiare il mondo, ma per ora ci accontentiamo di migliorarlo.

Quando la natura si risveglia, certi alberi hanno una luce abbacinante. Come questo, nei giardini Lamarmora. Attorno a lui, bambini che corrono spensierati. Cani a passeggio. Babbi che spingono carrozzine. Perfino un’inaspettata rondine, lassù, proprio sopra la vetta del manto di foglie di un verde tenero. È esplosa la primavera.

Poche statue hanno la potenza plastica del Conte Verde. Per non parlare del raffinato e intricatissimo lavoro di cesello sulle maglie delle armature. Non è un Re che sprona lontane truppe con gesto ieratico, dall’alto della cavalcatura. È un guerriero dal minuscolo scudo e dalla spada pronta all’offesa. Non fosse per la corona di cui è cinto, potrebbe confondersi con un soldato qualsiasi. Ai tempi in cui le guerre non si fotografavano, c’erano degli scultori che le sapevano ritrarre magistralmente. Come il Palagi.



Seguirà il racconto Prigionieri 2 – ma non si sa quando...


giovedì 2 maggio 2013

Pum pum! Sei morto! (sul serio)

Chi è causa del suo mal, pianga se stesso. Non trovo un detto più adatto, per commentare la notizia di quel bambino – di cinque anni – che nel Kentucky ha ucciso la sorellina – di due – con un fucile.

Ma non un fucile mal custodito da genitori negligenti e sconsiderati. No. Proprio il suo fucile.

Allora mi vengono alcune domande, che sarebbe bello trovassero risposta.

Americani: è normale che un bambino di cinque anni debba già possedere un fucile? Autentico? Con tanto di proiettili? Avete presente la comprensione della realtà di un bimbo di quell’età? La sua capacità di giudizio critico? La sua percezione di azione e reazione, di vita e di morte?

E ancora: con quali aspettative dei genitori regalano al figlio - di quattro anni, perché non erano due giorni che l’armina girava per casa – un fucile, sapendo che è fatto apposta per ferire e per ammazzare? E per non farsi mancare nulla, con tanto di munizioni? Ben consci che in famiglia, oltre al piccolo armigero, c’è anche una bimbetta di due anni? Perché non avete regalato anche una pistolina a lei, così almeno poteva difendersi?

E non pensate che affermare, quasi a giustificarsi: non sapevo che ci fossero ancora cartucce nel fucile, sia una dichiarazione di resa della vostra missione di genitori? Ancora? Quindi il fucile non era un oggetto inanimato, per far finta di giocare alla guerra, nascondendosi dietro il divano e facendo pum pum con la bocca. Lasciavate un figlio in giro per casa con un’arma carica: non vi è mai passato per la testa che qualcosa prima o poi sarebbe potuto succedere? Mai temuto, nemmeno per un momento, che potesse giocare alla guerra sul serio, ignorandone innocentemente le conseguenze funeste?

Inoltre, cari americani: trovate logico, giusto, perfino divertente che debba esistere un sito dove sono in libera vendita armi formato giocattolo, peccato che siano vere? E che lo stesso sbandieri lo spensierato motto “My first rifle”, così come da noi si pubblicizza il primo orologio o la prima bicicletta per bambini? Che queste armi mortali debbano essere farisaicamente travestite da giocattoli, colorandole di rosa per le bambine? Ma dai. Siamo seri. Un fucile non è la casa della barbie.

Voi che siete fissati con le avvertenze sull’uso di qualsiasi oggetto casalingo, sortendo effetti comici come scrivere su un ferro da stiro attenzione! diventa caldo durante l’uso, oppure non introdurre gatti o bambini, sull’oblò di una lavatrice, ce l’avevate scritto: attenzione! può uccidere se lasciato in mano ad un bambino di cinque anni incustodito, su un fucile venduto appositamente per i minori? Ma scritto bello grosso, che attragga l’attenzione distratta dei genitori, visto che il povero innocente a quell’età non saprà ancora leggere – ma è grande a sufficienza, nel giudizio scriteriato dei suoi tutori, da impugnare un’arma. Vera. E carica. Robe da matti.

Molto probabilmente queste rimarranno domande retoriche e non cambieranno lo status quo. E forse troveranno un’ottima percentuale di gente, di là dall’oceano, pronta a rispondere che sì, il loro è un diritto inalienabile, quello di possedere delle armi da fuoco, sì, anche automatiche, e che quei genitori sono stati solo imprudenti, e non deficienti a regalare un fucile al proprio figlio – ripeto, di cinque anni.

Fatemi capire: non avete ancora superato la sindrome del far-west? Avete bisogno di girare col cinturone e la pistola come nei film di Sergio Leone? Vivete in una terra così pericolosa da accogliere con il fucile imbracciato qualsiasi viandante che osi passare davanti al vostro vialetto ghiaioso? Avete una polizia così poco efficiente da aver la necessità di difendervi da soli da banditi che evidentemente pullulano come formiche, vista la diffusione capillare di schioppi, pistole e mitragliere presso il popolo in generale? Non mi sembra. Eppure limitare (proibire equivale ad un intoccabile tabù) il possesso di armi ai privati è come scalare l’Everest a mani nude e senza bombole. Chiunque ci provi soccombe – politicamente parlando.

Leggendo di questo povero bambino, vittima delle circostanze quanto sua sorella, mi è tornato alla mente quando io avevo la sua età. Anch’io avrei voluto in regalo da babbo natale una pistola giocattolo. Ma quel saggio uomo di mio Padre disse poche, irrefutabili parole, la cui potenza educativa capii solo crescendo. Da vecchio ufficiale del Regio Esercito, disse: in guerra le ho usate abbastanza io le armi. Non voglio che mio figlio cresca con in mano una pistola. Nemmeno giocattolo. E mai ne ebbi.

Forse in America ci vorrebbero più uomini come mio Padre.