giovedì 31 maggio 2012

Cinque candeline

Milleottocentoventisette giorni e molti nuovi amici dopo quel timido, dubbioso, esitante tentativo di aprire un blog, avvenuto il trentun maggio di cinque anni fa, eccomi qui a celebrare un traguardo. Che come molti traguardi, non rappresenta altro che una nuova partenza, oltre che un punto d’arrivo.

Ho raccontato di terre lontane. Di un’Italia che vorrei migliore, perché sono un inguaribile ottimista e, nonostante tutto, credo ancora che gli italiani possano migliorare, tutti insieme. Qualche rara volta anche di un piccolo microcosmo, la città che mi ospita.

Ho ricevuto e raccolto parole belle, talvolta speciali. Parole che danno la voglia, da sole, di continuare a scrivere. Ho scoperto che c’era chi leggeva i miei pezzi, magari non commentava, ma mi visitava con assiduità.

Il mio blog è nato come un gioco e tale voglio che rimanga. Con la libertà di raccontare episodi minimi, di parlare di fatti personali, di illustrare luoghi e genti che molti vorrebbero visitare, conoscere, capire. Di fotografare emozioni con la penna. Via l’ansia da prestazione, che ci inquina già la vita in troppe altre circostanze. Scrivo quando qualcosa colpisce la mia fantasia, non per vedere una serie di numerini crescere.

E divulgo quel che scrivo perché una notte di parecchi anni fa, in una piccola città del Minas Gerais, dopo una festa di matrimonio, un’armoniosa maestra di danza di nome Rosa mi disse delle parole che mi fecero capire il senso profondo della questione. Ero egoista, sosteneva, a tenere per me i miei racconti. Perché, le chiesi. Come spesso fanno le donne, mi rispose con una domanda. Ma quella era la spiegazione: che cosa proveresti, se il tuo autore preferito smettesse di colpo di scrivere? Capii quella sera, dopo aver ballato come mai più avrei ballato in vita mia, tra le braccia di una ballerina che, come le fate, doveva avere le ali nascoste da qualche parte, il significato della privazione. Il non poter leggere qualcosa che avrebbe fatto star bene uno sconosciuto. Che forse gli avrebbe dato forza. Che forse gli avrebbe dato una ragione in più per vivere.

Da quel giorno decisi che avrei condiviso i miei pensieri con chi aveva voglia di leggerli, di ascoltarli. Perché era giusto non essere egoista. Non ho mai smesso. Buon compleanno, homing pigeon.



lunedì 28 maggio 2012

S.O.S.

Metti che, una decina di anni fa, tu sia in vacanza in un paese centroamericano. Su una barca. Che tu abbia a cuore la sorte di certe specie di animali, minacciate di estinzione dall’uomo scriteriato. Che tu assista alla crudele – e, per inciso, illecita – fine fatta da degli squali, mutilati da vivi delle pinne e poi ributtati in mare, condannati a una morte lenta e atroce per asfissia, perché senza pinne non son capaci di nuotare, e se non nuotano l’acqua non filtra nelle branchie irrorandole di ossigeno.

Metti che tu provi a opporti a questa barbarie. E che i vili delinquenti, feccia umana al servizio delle mafie, cerchino di speronarti. Per poi andare a dire che invece eri tu a tentare di affondarli, mentre esercitavano il loro diritto a torturare dei pesci con la sola colpa di aver delle pinne appetite dai cinesi.

Metti che questi sadici, invece di limitarsi a menzionare l’increscioso episodio in qualche localaccio da angiporto frequentato da baldracche in disarmo, lo vadano a raccontare alla polizia. E che parta una denuncia internazionale nei tuoi confronti. Con tanto di richiesta di estradizione, per comparire davanti ad un tribunale del Costa Rica, dove verrai processato e rischi di finire in galera, magari per un bel pezzo.

Metti infine che, dopo essere stata dormiente per un decennio, qualcuno decida di rispolverare quella citazione in giudizio, perché nel frattempo forse hai dato fastidio agli interessi di qualche lobby di ipocriti assassini, riducendo sensibilmente il loro sporco giro d’affari.

Credo non piacerebbe a nessuno trovarsi in un ginepraio del genere. Ma proprio questo sta accadendo in questi giorni – salvo il fatto che non fosse in Centroamerica per una vacanza – a Paul Watson. Arrestato a Francoforte l’altra domenica, con sulla testa una richiesta di estradizione verso il Costa Rica, accusato – ribaltando la realtà dei fatti – di tentato omicidio, ha trascorso qualche giorno in cella, per poi essere rilasciato su cauzione, ma con obbligo di non lasciare la Germania fino alla decisione del giudice se estradarlo o meno.

Quando viaggio, non sempre riesco a tenermi aggiornato sui fatti del mondo. Solo l’altro giorno, di ritorno a casa, ho scoperto che il capitano coraggioso stava passando dei seri guai. E mi è presa un’irrazionale rabbia, perché forse, pur nel mio piccolo, avrei potuto contribuire a fare informazione, affinchè chi ha a cuore le sorti della natura scrivesse alle autorità tedesche, per caldeggiare sia la liberazione di Paul Watson sia la ricusazione della richiesta di estradizione.

Per fortuna moltissimi sapevano, e hanno risposto agli inviti di Sea Shepherd. Migliaia di email hanno testimoniato quanto sia importante che il capitano possa continuare la sua crociata ecologista, contro chi fa strage di balene, delfini, pescicani ed altri grandi abitatori dei mari. In Germania, ma anche in Italia, sono stati esposti striscioni di supporto: S.O.S. Save our skipper.

Salviamo il nostro capitano. Perché colpire Paul Watson significa lasciare al loro destino di morte e di sofferenza centinaia di balene, migliaia di delfini, milioni di squali.

Chi pensa che lo squalo sia l’animale più pericoloso del mare si sbaglia di grosso. Per qualche decina di umani attaccati dai Big White sulle coste australiane o della California, ogni anno – provate a dire un numero... - settanta milioni di squali vengono uccisi, e spesso amputati da vivi, per le loro pregiate pinne. Ora chi è il vero terrore del mare: il pescecane o l’uomo?

S.O.S. Lo chiede la natura. Perché gli squali appartengono agli oceani, e non alle zuppe di qualche cinese arricchito in vena di esotiche estrosità culinarie.



martedì 22 maggio 2012

L’uomo non è di legno

Se proprio la necessità lo impone, ogni tanto, seppur a malincuore, ricorro anche a dei ristoranti italiani all’estero. Per esempio quando non ho voglia di mangiare finto cinese, o finto tailandese, o finto vietnamita, come spesso capita in Australia. Purtroppo, con le ondate migratorie recenti, la terra di Down Under è piena di trattorie che sono diventati indecorosi miscugli, dove alla zia Pina, vecchia padrona sempre vestita di nero di una generazione fa, sono subentrati dei cinesi, oppure dei libanesi, che si mimetizzano meglio, da mediterranei dell’altra sponda, agli occhi non esperti di turisti e autoctoni, pur mantenendo le pretese di originale italianità del locale.

Insomma, non sempre qualità del cibo e redazione del menu vanno indenni dal passaggio di mano. Generando talvolta delle inesattezze, tanto involontarie quanto clamorosamente spassose. Come questa.


E ora chi glielo va a spiegare alla mia contabilità che in realtà la prima voce dello scontrino era un’innocentissima pasta alla puttanesca? Per fortuna c’è la tariffa, pardon, il prezzo, che taglia la testa al toro. Con l’inflazione galoppante di oggi, con quindici miseri dollari australiani una professionista dell’amore prezzolato credo non risponda nemmeno al campanello. Figuriamoci se ti fa pure la ricevuta.



sabato 19 maggio 2012

Il primo bacio

Non si scorda mai? No: è quello del padre della sposa all’appena acquisito genero. Gesto di benvenuto in famiglia suffragato da una suocera finalmente rilassata e una dolce metà che più raggiante non si può.

Auguri a questa coppia di sconosciuti sposini, sorpresi oggi pomeriggio in un momento di estatica felicità, appena fuori dalla Cattedrale di Santa Maria di Sydney.





mercoledì 16 maggio 2012

Assassino

Ma Chi è. No, non mi sono dimenticato il punto interrogativo. L’assassino – sovvertiamo le regole dei gialli e riveliamolo all’inizio – si chiama Ma Chi. Per chi volesse dargli una faccia, eccolo qui.

Ma perché assassino? Era un po’ che non toccavo uno degli argomenti che mi infiammano. Questo lestofante ha ammazzato due innocenti. Non con armi da fuoco o con coltellacci. Con una Ferrari, lanciata a velocità folle nella notte di Singapore, bruciando un semaforo rosso e schiantandosi contro uno sfortunato taxi, appena ripartito allo scattare del verde, che si è trovato sulla sua scriteriata traiettoria.

Così sono morti la passeggera giapponese e il guidatore del taxi. E l’assassino.

I singaporeani si scoprono improvvisamente razzisti? Un plebiscito di condanne del folle gesto si è sollevato contro l’assassino. Perché Ma Chi è cinese, è arrivato a Singapore quattro anni fa con famiglia al seguito ed il pomposo titolo di investitore finanziario (non è tuttora ben chiara la provenienza né la legittimità del suo patrimonio) e nel frattempo – sentite un po’ – si è comprato un alloggio da tre milioni di dollari, una BMW da 400 mila e come regalino per i suoi trent’anni sprecati la Ferrari 599, pagata la ragguardevole cifretta di un milione e ottocento mila dollari (di Singapore), ma il cui prezzo più esosamente alto è la morte di due innocenti e un deficiente (al volante della stessa).

La gente di Singapore non è razzista. Io, per quel che vale, sono con loro in pieno. Perché sono giustamente infuriati per l’assoluta mancanza di rispetto di ogni regola, per il cinismo e l’esibizionismo tipico dei cinesi arricchiti (poi qualche solerte ispettore fiscale sarà così cortese da spiegare le ragioni di tale sorprendente opulenza). Sono increduli che per l’imbecillità criminale di un “talento straniero” abbia perso la vita un padre di famiglia, unica fonte di reddito per una moglie casalinga e tre figli ancora in età da liceo e con dei sogni di università che chissà se si avvereranno mai. E una giovane giapponese, col solo torto di essersi trovata nel momento sbagliato sulla linea di mira di un assassino.

I singaporeani sono indignati con i propri giornali, che preferiscono discettare della Ferrari e dei retroscena piccanti : chi è la misteriosa giovane ospite dell’assassino, vestita discintamente e ferita a sua volta nell’impatto, mentre la moglie – incinta – aspettava a casa con la figlioletta il maritino che alle 4 di mattina aveva preso il centro di Singapore per la pista di Imola?

I singaporeani vorrebbero che si parlasse di più della famiglia del taxista morto per l’idiozia di un tronfio cinese che crede di potersi comportare all’estero come di sicuro faceva a casa sua. I colleghi della compagnia di taxi hanno iniziato una raccolta di fondi. Ma c’è chi chiede che siano i parenti dell’assassino a risarcire finanziariamente la vedova dell’autista investito, affinché i propri figli possano completare gli studi avviati.

I singaporeani sono disgustati per la sorprendente celerità con cui è stata celebrata la cremazione del colpevole di queste morti inutili. Incidente avvenuto sabato mattina, lunedì già eseguita la cerimonia. E si interrogano: è stata fatta un’autopsia? Era in condizione di guidare o era ubriaco? Perché tutta questa fretta sospetta di far pulizia di eventuali prove?

I singaporeani sono offesi dalle reazioni stizzite della famiglia del morto: né hanno chiesto scusa a suo nome per aver causato tanto dolore evitabile, né hanno proposto di contribuire alla raccolta fondi per la vedova del taxista ucciso. Hanno invece dichiarato ai giornali locali di lingua cinese: la gente dovrebbe trattenere le proprie lingue velenose. E soprattutto: chi non si può permettere una Ferrari 599GTO non deve andare in giro a dire che chi può è un figlio di papà. Nemmeno un po’ arroganti.

Chi è sensibile è invitato a smettere di leggere qui. Perché per concludere voglio ricordare a tutti i coglioni che si credono immortali come Ma Chi, che morire schiantandosi in macchina alla velocità con cui viaggiava in una strada di città, porta ad alcune curiose modifiche della propria fisionomia: tipo che la testa tende a staccarsi dal collo, lasciando in bella vista carotide e giugulare recise, e che gli arti – per l’enorme istantanea decelerazione – si strappano dal torso. Certo una morte veloce – alcuni commentatori estremisti hanno scritto troppo veloce, meritava di soffrire di più – ma non un bello spettacolo per la parentela che lo deve riconoscere.

Pensateci bene, o imbecilli e potenziali assassini al volante. Perché se della vostra pellaccia non ve ne frega nulla, né peraltro - da infami egoisti - di quella della gente innocente che rischiate di ammazzare, magari a casa ce l’avete qualcuno a cui vorreste risparmiare la visione del vostro puzzle sanguinolento su un tavolo mortuario. Sono sicuro che se vi mostrassero una bella foto con i risultati granguignoleschi delle vostre gesta al volante, a qualcuno passerebbe la fantasia di imitare Nicky Lauda per fare il ganzo con la squinzia di turno. Mentre la moglie, povera cretina, lo aspetta inutilmente a casa.



lunedì 14 maggio 2012

Prosit

Amici cultori della degustazione di un buon bicchiere di vino a tavola: preparatevi al peggio. Ho visto cose – dell’altra parte del mondo – che voi umani non potete immaginare. L’Australia sembra terra di sperimentazione. E puntualmente, dopo qualche tempo, la stessa viene esportata verso la vecchia Europa, Italia compresa.

Molti anni fa scoprii con sorpresa i tappi di silicone sul collo di alcuni buoni vini australiani, bianchi ma anche rossi. Non passò molto e, con varie farisaiche spiegazioni, tipo il sughero è sempre più raro, oppure che vuoi che sia, in fondo i bianchi son di pronta beva, anzi, pensa che bello, niente più bottiglie che san di tappo da mandare indietro sotto gli sguardi truci di camerieri a percentuale, ecco presentarsi puntuali i tappi di silicone sui nostri vini. Passi per la pronta beva: ma ogni tanto ci vuole la forza d’Ercole per stapparli, e hai sempre paura di spaccare il bordo della bottiglia o di troncarci dentro il cavatappi, mentre tiri disperato il riottoso turacciolo plastico, avvinghiato al vetro come piovra inamovibile.

In tempi più recenti ho notato con orrore che dei rossi anche di pregio, corposi Shiraz e profumati Cabernet Sauvignon delle calde e generose vallate sud-australiane venivano sigillati da... tappi a vite. Sì. Davvero. Di metallo, proprio come quelli che si usavano sulle bottiglie di vermouth tanti anni fa, quando non era stato ancora inventato quel sistema a labirinto con la pallina, contro gli abusivi rabbocchi di sottomarche in recipienti con etichette di pregio. Ora delle voci del settore (ho amici e colleghi che si occupano di macchinari per stampare le bottiglie di vetro) mi dicono che anche da noi si comincia a parlare di colli con il filetto. Ahimè. Vi garantisco che ordinare al cameriere un Barbaresco d’annata e vederselo stappare come fosse una gazzosa non fa un bell’effetto. Ma che volete farci? Sono un nostalgico, e apprezzo ancora quando il sommelier mi offre il sughero da annusare, a comprova della bontà del rubicondo contenuto.

Oggi ho avuto un’anticipazione di un presumibile squallido futuro. Già temo che, come tutte le trovate che fanno guadagnare qualche soldo in più, magari per il discutibile effetto novità, prima o poi sugli scaffali dei nostri supermercati debutterà questo nuovo modo di servire il vino. Manco fosse un integratore per maratoneti in carenza di sali. I giovani, anime facilmente influenzabili dalle pubblicità più cretine, abboccheranno a frotte. È la moda, baby.

Prosit.


domenica 13 maggio 2012

Talmente…

Dazaifu

Talmente armonico, geometricamente perfetto, immacolato da sembrare finto. Questo scorcio di un tempio nel sud del Giappone è un’assoluta icona della cultura dominante. Che esalta i valori della pulizia, dell’ordine, della bellezza.


Giants

Talmente allegri, informali, disponibili allo scatto e alla socievolezza verso uno sconosciuto gaijin da non sembrare nemmeno giapponesi. I miracoli del tifo. Noi abbiamo il calcio, i nipponici il baseball. Entrambi sport d’importazione, ma non per questo meno elettrizzanti per le folle. Solo all’uscita dallo stadio si incontrano tipi così poco conformi all’immagine convenzionale del giapponese.


Kirin

Talmente fiero e possente, dettagliato nelle volute del vello, gli occhi di fuoco vivacissimi, da sembrare reale. Anche se è un mostro fantastico delle antiche leggende nipponiche. Oggi, che tristezza, è noto ai più solo perché prosaicamente dà il nome ad una marca di birra giapponese.


Ciac, si sale

Talmente privo di pericoli da non aver bisogno di adottare molte di quelle utili misure anticrimine che invece si vedono dappertutto. Come questo monitor all’esterno dell’ascensore di un parcheggio, rivelante ciò che avviene nel vano mentre va su e giù. Paradossi di un Giappone ossessionato dall’ordine, con buona pace della privacy, ma con tanta serenità in più da parte degli abitanti. Le donne ringraziano, specie di sera.



sabato 12 maggio 2012

È tutto finito

Quattro anni fa, il terremoto nel Sichuan, Cina. Circa settantamila morti. Tante tragedie. Ricordiamone una, per commemorarle tutte.

È tutto finito

Sono queste le uniche parole che evoca l’immagine di un padre, con una smorfia di indescrivibile dolore sul viso, che stringe disperatamente la mano spettrale e coperta di polvere del figlio morto, appena estratto dal nulla che resta di una scuola di Juyuan.

Una scena di insopportabile strazio, che si ripete all’infinito, crudelmente uguale a se stessa, con una torma di genitori sgomenti che vagano inebetiti alla ricerca di un figlio o una figlia, tutto quello che la società cinese gli ha concesso di procreare. E quando lo trovano tra le vittime, la perdita è totale.

Madri affrante che non si capacitano, e parlano al figlio morto usando il presente, disperatamente gettate come stracci logori su quei corpi freddi e insanguinati che fino a due giorni fa erano la loro gioia, la loro speranza, il loro futuro. Sei un ragazzo così brillante. È roba da impazzirci, a pensarci.

Una teoria di corpi adagiati su delle assi di legno, il viso pietosamente coperto da dei panni o da dei libri sgualciti e macchiati di sangue, quelle divise tutte uguali ad indicare l’appartenenza alla stessa scuola, dei tragici burattini irrigiditi nel deforme gesto finale in cui sono stati sorpresi dalla morte venuta da dentro alla Terra.

Un dramma, una sofferenza inenarrabile, un crollo di impossibili illusioni che si ripete ogni volta che viene estratto un cadavere da quelle macerie contorte. Genitori costretti a identificare la propria creatura dalle unghie, o dal colore delle calze, o magari dal tipo di scarpe, e a subire il tormento estremo di vedere che scempio ha fatto il terremoto dei suoi lineamenti, spesso deturpati fino a renderli irriconoscibili.

Affiora il corpo di un altro studente dalle rovine. Un urlo. Due cuori che sprofondano, gambe che non reggono più. Lacrime. Prostrazione.

Due genitori si fondono in un abbraccio disperato, cercando la forza di sopravvivere a quello spettacolo osceno, la capacità di andare avanti, le motivazioni per non crollare di fronte a quel tragico, immobile, straziato figlio morto che giace lì, su quel tavolaccio polveroso e imbrattato di sangue. È tutto finito.

Prima pubblicazione : 14 maggio 2008

venerdì 11 maggio 2012

Engrish

Non sarebbe stato creato questo neologismo, né il sito che raccoglie tutte le piccole bestialità linguistiche provenienti dalla terra del Sol Levante, se i giapponesi, con ammirevole costanza, non provvedessero quotidianamente a rifornire gli improvvisati cacciatori di errori con una pletora di amenità lessicali, con un pastrocchio di erre al posto delle elle (o, più raramente, viceversa).

Ecco un esempio fresco di giornata. Signori, vi chiedo una fragorosa esprosione di applausi per questo locale di Okayama.


giovedì 10 maggio 2012

Invidia delle ali

Ogni tanto anche ad un vagabondo incallito capita di fare nuove esperienze. E di assaporare ancora il fascino della novità, della primizia, del sapore dell’innovazione, prezioso pizzico di sale nell’ormai scipito pasto quotidiano del globe-trotter.

Mi sono scoperto malato di una invidia tipica da piccione viaggiatore: quella delle ali. Avevo già scritto parecchi anni fa un racconto che si intitolava proprio così: deve essere bello avere le ali. Ma vedendo quanta armonia, bellezza estetica, funzionalità estrema sono in grado di offrire, in un solo manufatto tecnologico, le sinuose e curvilinee ali del nuovissimo Boeing 787, ultimo nato della casa di Seattle, battezzato enfaticamente Dreamliner, il trasvolatore da sogno, ho provato una profonda invidia nei confronti di chi non ha bisogno di strumenti meccanici per librarsi in volo.

Perché se a noi, poveri animali terricoli, occorrono necessariamente l’ingegno, il coraggio e la maestria di qualcuno della nostra specie per poter rapidamente attraversare oceani e terre emerse, agli instancabili pennuti basta spiegare le ali e seguire quello che un meraviglioso istinto dice loro di fare, per osservare il mondo dal cielo.

E siccome sono serenamente rassegnato ai miei limiti di elevazione da modesto bipede implume, mi accontento di ammirare il fascino di quanto di più vicino alla perfezione della natura l’uomo sia stato capace di progettare: delle ali degne di un Museo Guggenheim. O del MOMA. Fate voi.


martedì 8 maggio 2012

L’aviatore

Trent’anni oggi dalla morte di Gilles Villeneuve. Lo voglio ricordare con un racconto maturato durante un gran premio vissuto in diretta, nella lontana Malaysia. Ma con il cuore a Maranello.

Storie di passione (e di interesse)

Mattinata a Sepang, torrida anteprima di un Gran Premio in bilico sui capricci atmosferici. Una coda esorbitante di umanità eterogenea, pronta a farsi arrostire per più di un’ora sotto un sole implacabile, malamente schermata da bandiere nazionali usate come mantelli, ombrelli multicolori, stendardi delle squadre. Un’arcobaleno di maglie rosso Ferrari, verde Lotus, argento Mercedes, blu Red Bull. Tutti in ordinata e mite attesa del momento di gloria. L’autografo del pilota. Finalmente, salutati da un’ondeggiare di folla assiepata attorno alle transenne, e da un simultaneo levarsi al cielo di mille macchinette fotografiche alla ricerca dello scatto memorabile – tipica conversazione, di ritorno a casa: Guarda qui! Chi è? Ma come, è un pilota di Formula Uno!! Ahhh… – approdano dei pulmini neri dai quali saltano fuori prima dei truci guardiani dalla camicia alonata, e poi quattro giovani piloti. Mormorio della torma fotografante, con qualche accenno di urletti da fans di rockstar.

Tra i quattro, giovani reclute dello sparuto plotone di superveloci funamboli della pista, anche un italiano: Vitantonio Liuzzi, al soldo della Force India. Anto’, mi verrebbe da chiamarlo, per offrirgli un sentore di casa, di Italia, di strapaese. Perché l’espressione è disorientata, tesa quasi, si guarda intorno con gli occhi sgranati, come alla ricerca di un suo posto dove rifugiarsi da quella anonima schiera osannante. Nemmeno un vago sorriso.

Poi arriva un altro mezzo, e si scatena il putiferio. Dopo i pesci piccoli, ecco i pezzi da novanta. Folla in delirio, braccia alzate e bandiere agitate: Michael Schumacher e Nico Rosberg. Osservare così da vicino – e insieme distaccatamente – questi divi ultraterreni porta a considerazioni curiose. Nico si muove rilassato, allegro, e ne ha ben donde: giovane, bello, biondo, figlio di campione e campione in fieri, padrone di varie lingue con equanime proprietà. A volergli proprio trovare un difetto (ma è questione personale, derivante da una lancinante antipatia nei confronti del soggetto, certo a causa di interpretazioni di passati filmacci), una contenuta rassomiglianza con il bambolotto Di Caprio dei tempi del Titanic. Auguri a Nico di una bella carriera, che lo porti, come il padre Keke, a vincere un titolo mondiale. Magari su una Ferrari.

E che dire del personaggio Schumi dal vivo? Appena sceso dal furgone esibisce subito un sorriso soddisfatto, un’aria di orgoglio e di assoluta sicurezza di se stesso, portamento marziale a petto in fuori. Il linguaggio del corpo comunica, senza aprir bocca, rieccomi, sì, sono io, quello che ha vinto tutto e ha vinto più di tutti, e allora? Un quarantunenne, dall’aspetto sorprendentemente fresco e quasi imberbe, che compete con i ventenni appena approdati al circo, di cui Michael potrebbe essere il babbo.

Nonostante gli evidenti sforzi dei tuoi PR, non sei mai stato un campione di simpatia, Michael. E questa tua adesione al partito avversario è dura da digerire per un vecchio fan di Maranello. Specie dopo tutta la manfrina a base di improvvisi mal di schiena della fine di stagione appena trascorsa, quando si trattava di sostituire Massa per poche corse. Ma tant’è. La Formula Uno, si sa, si fonda sugli Euro (a milioni) e non sui sentimenti. Ovviamente la Mercedes ha spalancato il suo dovizioso borsellino per averti, oltre che come pilota, come testimonial delle sue vetture.

A noi tifosi ferraristi non resta che renderti il giusto merito per averci fatto vincere una straordinaria cinquina di titoli all’inizio del millennio. Era dai tempi di Scheckter (1979) che non si vedeva il cavallino rampante campione del mondo.

Al Drake – che il dio dei motori lo riposi in pace – questo non sarebbe piaciuto. Lui, abituato a portare degli sconosciuti in scuderia e a trasformarli in campioni, senza mai offuscare la macchina. Era la Ferrari la protagonista, allora. Ma questa è un’altra storia: di passioni, di amori e di umori.

E per raccontarla bastano le immortali parole di Enzo, incise su un monumento celebrativo all’interno dell’autodromo di Imola, toccante epitaffio dedicato da un burbero vecchio ad un giovane impavido che se ne andò troppo presto per non lasciare un vuoto doloroso nel cuore di tanti appassionati: Gilles Villeneuve.


Sì, c'è stato chi lo ha definito "aviatore" e chi lo valutava "svitato".

Il giorno che lo assunsi, prelevandolo dalle motoslitte, si sollevò un plebiscito di critiche e quando l'ho paragonato a Nuvolari c'è stato chi mi ha rimbeccato.

Gilles? con la sua generosità, con il suo ardimento, con la capacità "distruttiva" che aveva nel pilotare le macchine, macinando semiassi, cambi di velocità, frizioni, freni, ci insegnava cosa bisognava fare perchè un pilota potesse difendersi in un momento imprevedibile, in uno stato di necessità.

E' stato campione di combattività ha regalato ed ha aggiunto tanta notorietà alla Ferrari.

Io gli volevo bene.

Enzo Ferrari



Prima pubblicazione : 5 aprile 2010