mercoledì 24 dicembre 2014

M** Bun


C'era una volta un piccolo locale di nome mac bun, che in piemontese vuol dire semplicemente “soltanto buono”. Dove soltanto, nel sobrio stile savoiardo, sta per proprio: proprio buono. E siccome vendeva svizzerine di carne messe dentro a dei panini, un brutto giorno una nota multinazionale del cibo (si fa per dire) rapido da di là dell'oceano, non conoscendo il dialetto piemontese, si sentì offesa da questo apparente scimmiottamento e decise che l'onta andava lavata, non col sangue, ma con la rimozione della similitudine.

E poiché le multinazionali hanno potenza di fuoco a sufficienza da vincere contro i piccoli Davide armati solo di vivande proprio buone e niente più, finì che qualche tribunale sentenziò che davvero di scimmiottamento si trattava e che quindi quell’insegna andava cambiata.

E fu così che da allora l’onesta bottega subalpina si chiama M** Bun. Giusto qualcuno non si accorgesse della differenza, nonostante la bontà della carne.

Tutto questo per dire cosa? Per porci una semplice domanda: ma non sarà che per caso noi italiani siamo un po’ succubi delle multinazionali? Perché se no non si spiega come a Tokyo sia possibile vedere, serenamente esposta nel dedalo di negozi proprio sotto la stazione ferroviaria centrale, questa insegna di un venditore di hamburger.


Dai, andate voi a far causa a dei giapponesi a casa loro. E vediamo chi vince stavolta, se Mc Donald o Mc Daniel. Mi sa che sarebbero gli americani a far la fine di Golia, anche se il fromboliere si chiama Daniele e non Davide.




venerdì 5 dicembre 2014

Ho visto un re


Oggi è festa nazionale in Tailandia. Si celebra il compleanno di re Bhumibol, il monarca in carica col primato dell'insediamento più lungo. L'immagine del re da settimane campeggia in ogni dove. Perfino sugli schermi dei telefoni pubblici in aeroporto.

Mi associo alle celebrazioni, ripubblicando un pezzo scritto sette anni fa, quando re Bhumibol compiva ottant'anni.

Ho visto un re

Non di persona. Ma dappertutto. Bangkok è tappezzata di foto, manifesti, gigantografie. Si sta per celebrare l’ottantesimo compleanno di re Bhumibol. Ieri sera passeggio per le strade del centro e incontro una spropositata quantità di persone che indossa alcune varianti su un tema fisso: una polo color giallo brillante con sulla tasca lo stemma simbolo del regno.

Oggi, diretto in aeroporto, ho la rara fortuna di trovare un autista che comunica civilmente in inglese. Ha voglia di parlare. La classica domanda per rompere il ghiaccio, di dove sei. Appreso che sono italiano, ottengo l’associazione mentale che sboccia invariabilmente sulla bocca della totalità dei tassisti asiatici: football. Con la gustosa recente aggiunta, pronunciata con tono ammirato, campioni del mondo. Mi dice che tra Francia, Germania, Brasile e Italia, i più forti siamo noi. Annuisco. Mi parla di Maldini, il miglior difensore del mondo. Ora mi sembra veramente brutto deludere le sue aspettative, rivelandogli che ha caricato un italiano anomalo che se ne impippa totalmente del calcio.

Allora provo a cambiare cautamente discorso. Cosa sono tutte quelle maglie gialle che ho visto ieri sera? Eccoci. Un fiume in piena mi investe. Sono l’omaggio del popolo tailandese al re. Ogni lunedì (il giorno in cui è nato il monarca) la gente si veste di giallo, colore celebrativo, per comunicare visivamente la propria partecipazione alla gioia per il raggiungimento il prossimo 5 dicembre di un bel traguardo, gli ottant’anni dell’amato sovrano. Proprio così. Non è una frase fatta.

È raro percepire un tale genuino, profondo rispetto ed affetto per un leader. Ma re Bhumibol deve essere una persona speciale, per suscitare un simile consenso plebiscitario. Questo giovane tassista dice my king, che bello, il mio re. Il re è di tutti e quindi è anche suo. Ci si sente l’orgoglio in quella dichiarazione. Ci si sente la stima di cui questo sovrano gode presso la sua gente. Ogniqualvolta lo cita, si batte il pugno serrato sul petto, sul cuore, a manifestare un senso di appartenenza reciproco. Roba d’altri tempi. Il mio re.

Una figura magra, quasi fragile, che ispira calma e fiducia, vedendolo non nei ritratti ufficiali ammantato di pesanti broccati dorati ma nelle foto non protocollari, più belle e più autentiche, in semplice giacca e cravatta, dove dimostra di essere persona che sa uscire dallo scrigno prezioso del palazzo reale e scendere tra la sua gente, tra i suoi sudditi, per regalare un’apparizione in un ospedale, una visita in aree difficili, insomma una sincera attenzione per il suo popolo. Uno sguardo vivo e attento dietro alle lenti degli occhiali che indossa. Espressioni intense, partecipi. Non il lontano, ieratico distacco dalle terrene cose di altre maestà fuori dal mondo.

Un curioso vezzo che me lo rende particolarmente simpatico è il fatto di farsi talvolta ritrarre con una macchina fotografica al collo. Come un normale turista. Mi accentua quella sensazione di re della gente comune che i tailandesi percepiscono e apprezzano. Mi piace pensare che, nonostante gli ottant’anni, malgrado il fatto di essere pur sempre un monarca, che potrebbe permettersi cento fotografi pronti a inquadrare e scattare per lui, abbia ancora voglia e passione per fotografare un panorama, un gruppo di persone, un tramonto sul mare. È il re, è tutta roba sua. E con questi comportamenti mostra una grande considerazione per le sue proprietà.

Come dicono innumerevoli cartelli, in giro per Bangkok: lunga vita al re.




Prima pubblicazione : 20 novembre 2007

domenica 30 novembre 2014

A volte ritornano (2)

Dopo una lunga assenza, di quasi due mesi, Homing Pigeon ritorna. Con alcune immagini, visive o solo descrittive, di quel calderone di umanità varia che è Manila.

Raccolta differenziata. Ecco come si applica il concetto, su un camion della spazzatura a zonzo per Manila. Un uomo sta confortevolmente seduto sul tetto e spulcia con cura i materiali, separando la carta dal resto e mettendo ogni foglio che trova in un grosso sacco bianco. Quale ammenda dovrebbero dare al guidatore del mezzo, considerando che...

Ogni uomo ha il suo prezzo, diceva una volta un taxista bahiano. Sono seduto accanto al guidatore di un furgoncino che arranca nel quasi immobile traffico di Manila, e compio un'inusuale imprudenza. Non mi allaccio la cintura di sicurezza. Grave, direbbero i filippini nella loro lingua infarcita di spagnolismi. Un giovane pingue poliziotto si pianta davanti al furgone e mi fissa con interessata attenzione. Cala il finestrino del povero autista, che consegna con fare rassegnato la patente. Il poliziotto recita a mio beneficio ma in uno stentato inglese una litania di articoli di codice, che prevedono la responsabilità del guidatore se i passeggeri non vestono le cinture. Poi non succede altro, sembra una partita di scacchi. Siamo allo stallo. Finalmente, dopo varie chiacchiere in tagalog, il guidatore scende con in mano un paio di fogli da cento. Risale, visibilmente sollevato, patente alla mano. Aveva ragione il mio amico bahiano. E qui il prezzo per poter ripartire senza ulteriori noie è davvero modesto. Meno di quattro euro. Di noi con quei soldi non corrompi nemmeno un cameriere per farti portare una porzione più generosa di antipasto.

A proposito di poliziotti. Parliamo di quello malmenato dal guidatore di una Maserati Ghibli blu senza targa, fotografato dalla guardia alle sei di mattina mentre faceva una svolta a sinistra non permessa. Il tipo se n'è accorto, ha fatto inversione, ha chiamato l’agente e quando gli è stato a tiro da dentro l'auto ha cominciato a tempestarlo di pugni ed è pure ripartito, trascinando il malcapitato per una decina di metri. Permaloso e nemmeno tanto furbo. Quante Ghibli blu ci sono nelle Filippine? Due. L'altro proprietario è già stato sentito dalla polizia, risultando estraneo (magari grazie anche al decisivo indizio di avere perfino una targa sull'auto). La polizia, dichiarano i giornali, è sulle tracce del colpevole. Dei veri Sherlock Holmes!

Clichès, ovvero nomi assurdi dei ristoranti etnici. Qualcuno mi spiega perchè i ristoranti italiani (si suppone siano tali, visto che vendono pasta e pizza) invece di chiamarsi da Gennaro o Peppino di Mergellina debbano esibire degli improbabili Marciano’s o Balboa (solo degli americani possono credere che Rocky, con un cognome così, sia di origini italiane)? E per quelli giapponesi si tirino in ballo i panzoni del sumo, i mostri robotizzati dei manga e perfino la buonanima di John Lennon e della vedova Yoko?

UCPB. Le noci di cocco devono essere un affare serio nelle Filippine, se hanno intitolato una banca ai piantatori delle relative palme. La United Coconut Planters Bank è addirittura uno degli istituti di credito più importanti e vanta alcuni primati, tra cui l’essere stata la prima banca ad avere introdotto i bancomat nell’arcipelago. Mai trascurare la forza dei prodotti più semplici, anche quelli della terra.

In pieno giorno un bambino, con addosso solo dei pantaloncini verdi, dorme sdraiato per terra, su un ruvido impiantito di cemento, vicino alla bocca di sfiato dell'aria condizionata di una stazione. I capelli si agitano per quell'innaturale, forse malsano vento che fuoriesce dalle griglie. Le piante dei piedi sono nere al di là di ogni speranza di ritornare pulite. Il fisico è esile ma non denutrito. Ho riscoperto il piacere della fotografia, ma ci sono immagini che tuttora non riesco a scattare. Questa, paradigma di degrado e povertà, proprio non ce l'ho fatta. Non ho un’istantanea, ma il ricordo è indelebile comunque perché non riuscivo a distogliere gli occhi dall’ennesima scena di un’infanzia rubata.




giovedì 27 novembre 2014

Mariano


Un taxi mi porta a Guarulhos, aeroporto internazionale di São Paulo. Ci sono volte che non amo viaggiare sul sedile posteriore, così mi siedo accanto ad un nero di aspetto interessante, che guida una scalcagnata Fiat Uno.

Leggo, incuriosito, un adesivo applicato sul lunotto di una macchina che ci precede. Mi vergogno degli assessori di São Paulo. Chiedo spiegazioni sul significato, e si avvia un colloquio che si protrarrà fino alla fine del viaggio. Si tratta di una campagna contro la corruzione (che novità!) della gente detentrice del potere.

Il Brasile, mi dice, è una terra benedetta da Dio: niente terremoti, niente uragani, niente grandine. La compensazione che Dio ci ha dato, prosegue, è che ci ha lasciato questi ladroni. L’argomento mi interessa, mi piace ascoltare quello che la gente normale pensa. La disamina del taxista è di una lucidità e di una competenza insospettate: mi parla di deputati che hanno ammazzato gente con la motosega, incriminati solo perché qualcuno li ha filmati all’opera, di cameramen investiti dall’autista di un politico che non gradiva di essere ripreso dalla telecamera di una certa emittente, e di ulteriori atrocità (usa proprio questo termine, che trovo adattissimo) commesse da pazzi che vestono la divisa di rappresentanti del popolo.

Il dibattito è aperto, non mi limito ad ascoltare, voglio stimolarlo nella sua capacità di giudizio, non solo di critica. Mi viene spontaneo domandargli, ma scusa, quella gente non ce l’avete messa voi, lì? Noi siamo colpevoli, ammette con prontezza, ma anche quelli che dimostrano le migliori intenzioni, quando arrivano al potere diventano tutti così! Tutti?, chiedo io. Tutti. E chiosa l’affermazione lapidaria con una frase ad effetto: ogni uomo ha il suo prezzo. E allora, non c’è una soluzione? Forse la soluzione sarebbe emendare la Costituzione. Ma ci rendiamo conto? Un taxista che parla di emendare la Costituzione? E questo lo chiamano il terzo mondo?

Ma non mi basta. Lo stimolo a spiegare cosa farebbe lui per emendarla. Altra frase bellissima: bisogna dare più rispetto al valore della vita. Ossia? Fammi degli esempi. E lui, derivando gli stessi – con originale arbitrio – dal suo mestiere: se io investo un animale protetto, vado nei guai; se perdo i venti punti della mia patente, per un anno non guido, e come campo? Mentre se uno gira armato (e quanti ce ne sono!) e ammazza qualcuno, ha buone possibilità di passarla liscia. Soprattutto se ha i soldi.

Hai ragione, Mariano. Bisognerebbe ristabilire delle priorità. Ma per fare questo, occorrerebbe innanzitutto che quella famosa scritta che incombe nei tribunali, la legge è uguale per tutti, non avesse il sapore di un’amara barzelletta.

Si è fatto tardi, Mariano. Una parola via l’altra, siamo arrivati all’aeroporto. Peccato. L’unica volta che avrei voluto trovare un taxista che ti imbroglia, facendo la strada più lunga, per parlare ancora un poco. Vieni almeno a bere una birretta con me? Non posso, devo lavorare. Un’altra volta. Va bene, un’altra volta. Mi dà un suo bigliettino, se torni chiamami sul cellulare, ti tratterò bene e possiamo parlare ancora. Leggo il nome, Mariano, che coincidenza, come un mio caro amico. Di dove sei, Mariano? Di Salvador, Bahia. Toh, proprio lì sto andando. Allora salutamela. Lo farò, stai certo; ciao, bahiano. Ciao, italiano. Un abbraccio.



Prima pubblicazione : 18 luglio 2007

venerdì 3 ottobre 2014

La fortuna è cieca...


Ma la sfiga ci vede benissimo.

Sei una delle tante giovani cicliste partecipanti ai Giochi Asiatici in corso in Corea. Ti sei allenata strenuamente, per affrontare i 126 chilometri della gara su strada, sognando l'oro. Sei arrivata al grande giorno. Hai l'appoggio della tua squadra nazionale, che ti aiuterà nei momenti di crisi.

Parti. Attacchi. Combatti. Arrivi a condurre. Dopo quasi quattro massacranti ore sei in testa e vedi in lontananza il traguardo e la realizzazione del tuo sogno. Manca un chilometro. Cinquecento metri. Duecento metri. Non ti prendono più. Senti già odore di vittoria, di podio, di festeggiamenti.

Ma a cento metri dal traguardo la sorte decide di colpire duro. Una foratura alla gomma posteriore. A quelle velocità da sprint è come correre nel catrame invece che sull'asfalto. Le inseguitrici ti sono addosso. Una, due, tre concorrenti ti sfilano inesorabili. Mors tua vita mea.

Cento maledetti metri e passi dall'oro al collo ad essere appena fuori dal podio. Quel quarto posto che nessun atleta vorrebbe mai.

Nemmeno un misero bronzo hai racimolato dopo tutta questa fatica inutile. Ma la medaglia per la ragazza più sfortunata dei giochi non te la leva nessuno. E con essa la nostra immensa simpatia verso di te, tenera Diao Xiaojuan, atleta di Hong Kong, per un giorno regina dei Paperino ambosessi di tutto il mondo.








lunedì 29 settembre 2014

What were they thinking?


Chi seleziona le fotografie non parla con l’articolista. Che di rimando non controlla quali immagini verranno accoppiate all’articolo.

Ditemi che a La Stampa funziona così. Almeno nelle redazioni rivierasche dell’imperiese.

Perché altrimenti non si spiega come un innocuo trafiletto relativo a piccanti retroscena di saloni di massaggio gestiti da cinesi si trasformi in un capolavoro di umorismo involontario.

Questo è il pezzo.


Questa è l’immagine centrale, ingrandita. Fate caso alla didascalia (e per favore trascurate l’ortografia).


Tanto valeva titolare: avvocato sorpreso sotto le capaci mani di una masseuse.






sabato 27 settembre 2014

Alla ricerca del metano


Sui giornali italiani fa notizia il ragazzo indiano che è stato ucciso da una tigre nello zoo di Delhi. Invece in India questo non merita che un trafiletto senza neppure una foto.

Il clamore mediatico è riservato a una sonda spaziale indiana che dopo circa trecento giorni di viaggio ha raggiunto Marte e si è correttamente posizionata in orbita attorno al Pianeta Rosso.

Quello straordinario uomo di marketing che è il nuovo Primo Ministro Modi, prima di saltare su un aereo e andare a trovare Obama, ha trovato il tempo per annunciare in diretta il successo della tecnologia aerospaziale indiana, congratulando il team di scienziati che hanno permesso questa impresa. La navicella spaziale si chiama Mars Orbiter Mission, in breve MOM. Qualche genio della battuta gli ha perfino messo in bocca uno slogan da fare invidia a Renzi: MOM doesn’t disappoint. Chi conosce l’inglese sa che potrebbe anche esser letto come, la mamma non delude mai. Sembra quasi di vederlo che strizza l’occhio mentre lo dice.


Al contrario delle poche altre nazioni che hanno già raggiunto Marte, ma solo dopo alcune prove fallite, gli indiani hanno fatto centro al primo colpo: altro motivo di orgoglio nazionale. I giornali raccontano delle altrui vicissitudini interplanetarie, come satelliti persi in fase di lancio o durante il lungo tragitto. Dopo tanto dispiego di tecnologia rasenta il comico che una sonda giapponese abbia fallito la missione... per un errato calcolo del carburante necessario, come una qualsiasi Panda dispersa sull'autostrada con la spia arancione accesa.

Finalmente qualcuno si degna perfino di spiegarci che cosa cavolo ci vanno a fare su Marte, visto che i marziani sono una fantasiosa invenzione utile solo per barzellette e scadenti film di fantascienza. Alla ricerca del metano. Ovviamente non come alternativa per riscaldare i nostri appartamenti in vista delle ripicche di Putin, perché sarebbe obiettivamente complicato costruire e soprattutto tirare una tubazione fin laggiù. Il metano come prova di esistenza, anche passata, di qualche forma di vita compatibile con quella terrestre, viste le similitudini dei due pianeti. Qualche scienziato già ipotizza che la vita possa essere iniziata su Marte, e che si sia fortuitamente trasferita sulla Terra alcuni miliardi di anni fa, magari trasportata da un meteorite che, come un enorme pallone impazzito calciato da un titano, ha battuto su Marte e poi, rimbalzando, è andato a impattare sulla nostra cara vecchia Terra, seminando violentemente il germe della vita.

Certi scienziati hanno più fantasia degli autori di Star Trek.




giovedì 28 agosto 2014

Tragedie americane


In Arizona un trainer di un poligono muore mitragliato da... una bambina di nove anni. Nove. E la chiamano tragedia. Le vere tragedie sono altre: laggiù è normale che una coppia di genitori in vacanza per divertirsi non trovi di meglio da fare che andare a sparare a delle sagome (e non stiamo parlando di un lunapark coi suoi sgangherati fucilini ad aria compressa). Non solo: è normale che si portino appresso - a scopo educativo - una figlioletta di nove anni. Di più: è normale che la suddetta, invece di baloccarsi con bambole o videogiochi tascabili da fanciulle, possa avere accesso alla zona di tiro. È normale, infine, che le venga messo in mano un Uzi, una mitraglietta che spara a raffica, e che venga incoraggiata a testarne le più nefaste capacità.

La tragedia è che questo episodio sia solo percepito come un disgraziato incidente di percorso, una fatale imprudenza dell'istruttore. Esperti ora dichiarano: non si può mettere in mano un Uzi ad una bambina di nove anni...

La tragedia è che la frase non finisca qui, come buon senso e sensibilità suggerirebbero, ma continui cosí: ... aspettandosi che sia in grado di controllarlo.

Dai. Come puoi confidare che una bimbetta, oltretutto anche un po' gracilina, riesca a tenere, a mano libera, un fucile mitragliatore sulla corretta linea di tiro? Che pretese, signori istruttori! Mica sono tutti dei rambo questi turisti della sparatoria fai da te!

Capite: non viene considerato profondamente immorale e sbagliato che un'arma automatica e letale venga spacciata per un divertente gioco agli occhi ancora innocenti di una bimba. Non è scandaloso e osceno che questa povera fanciulla si sognerà di notte l'immagine del tizio mentre gli fa saltare le cervella, in perfetto stile Pulp Fiction, roba da fare invidia a Tarantino. Non è vergognoso che la madre stesse orgogliosamente filmando l'edificante scenetta, come si fa coi figli quando si tuffano in piscina o costruiscono un castello di sabbia in riva al mare, del tutto inconsapevole che stava per riprendere un assassinio.

No. Tutto questo negli Stati Uniti continuerà ad esser normale. Fino al prossimo impallinamento. Ecco la vera tragedia: che nulla cambierà.

Lobby delle spingarde 1 - Vita 0. Palla – di fucile – al centro.





sabato 16 agosto 2014

Burocratese


C’era chi aveva parlato di precipitazioni atmosferiche. Dilettanti. Con quelle misere ventisei lettere, non lega neppure le scarpe a questo capolavoro di vacuità burocratese.

Facciamo un confronto. Come si descrive la stessa situazione nella lingua di Albione? Innanzi tutto ci mettono dei disegni, che possono essere interpretati anche da chi non conosce l’idioma locale. Un semaforo – rosso. Una macchina fotografica che scatta.

Basterebbero già le figurine. Ma gli inglesi (o americani, o australiani) ci vogliono umiliare. Gli piace vincere facile. Allora sotto alle silhouettes aggiungono la didascalia. Disarmante nella sua semplicità e sintesi mirabile: red light camera. Tre parole, 14 caratteri. Nessun riferimento al codice stradale, che tanto gli automobilisti mica viaggiano con tomi legulei appresso.

Noi ne abbiamo impiegate – per spiegare che se passi col rosso ti fanno una foto e poi ti arriva comodamente a casa una contravvenzione – la bellezza di sette per un totale di 61 caratteri! Ogni parola, se trascuriamo le preposizioni, è lunga in media undici lettere. Più, in piccolo, come nei contratti delle assicurazioni, il numero di articolo del Codice della Strada, per dare un’aura di boriosa ufficialità al tutto. Ma né uno straccio di traduzione, né un agevolante disegnino.

Maledetti burocrati. Ma voi non viaggiate mai all’estero? Evidentemente no, se no provereste un minimo di vergogna ad offrire ai turisti stranieri simili impervi trabocchetti linguistici.

Che, per inciso, servono perlopiù ai nostri compatrioti, perché all’estero sono già abituati al concetto che se bari col semaforo c’è il fondato rischio di beccarsi una multa. Mentre qui da noi c’è ancora chi si stupisce. Poi addirittura c’è chi si indigna per questo attentato alla libertà di passare con il colore che più gli aggrada, e chiede a gran voce che queste cento trappole siano dichiarate arbitrarie e illegali, con buona probabilità di trovare un giudice spiritoso che gli dà retta. Ma questa è un’altra storia – tutta italiana.





giovedì 14 agosto 2014

Benvenuti in Italia


Che in Italia non ci sia una gran conoscenza dell’inglese è fatto conclamato. Siti turistici ufficiali, spiegazioni su monumenti, riviste bilingui sono una inesauribile fonte di sollazzo per la stirpe della lingua di Albione. Consoliamoci. Non siamo gli unici storpiatori dell’esperanto universale. Evidentemente siamo in buona compagnia, se qualche spirito allegro si è preso la briga di creare un sito come engrish.com, dove si raccolgono le bestialità e gli errori dagli effetti comici nelle traduzioni in inglese dal giapponese o dal cinese. Visitare per credere (e ridere).

Ma qui sappiamo fare di meglio. Avendo una quantità di turisti estivi comparabile ai biblici sciami di locuste, noi pensiamo a loro mettendo cartelli stradali rigorosamente in italiano. Giusta rivalsa per il fatto che nel resto dell’Europa nessuno si sogna di considerare e rispettare l’esigenza del turista italiano medio (totalmente ignorante di qualsiasi lingua straniera e talvolta anche della propria) di trovare indicazioni stradali comprensibili anche nell’Iglesiente o nelle valli della Bergamasca? Può essere.

Per dimostrarsi superiori a questi stranieri che non ci accontentano, in fondo basterebbe prendere qualcuno che abbia un inglese appena migliore di quello raggiunto dopo dieci giorni di corso a dispense comprate in edicola, e già si potrebbe scrivere qualcosa di decente sui segnali. Perché qui non sto parlando dei segnali universali, quelli che basta un’occhiata e non occorre leggere nulla. Qui in Italia infatti abbiamo la specialità di inventarci i segnali “condizionali”, quelli con il simbolo e sotto la chiacchierata esplicativa (solo in italiano).

Il limite dei 50, in autostrada, vale solo in caso di nebbia (per fortuna). Il divieto di parcheggio sui viali è a tempo. Dalle 10 di sera alle 5 di mattina, onde evitare frotte di clienti che affollano le strade per i soliti commerci carnali notturni. Per entrare in una ZTL occorre leggere regole fitte e complicate come il retro delle polizze dell’assicurazione.

E così gli stranieri, per cercare di capire come funziona (se così si po’ dire) la viabilità in Italia, devono viaggiare con dizionario, taccuino e matita per scriversi la prosa sotto ai cartelli e cercare di decifrarne il significato.

Ma sfido chiunque a trovare qualcosa che batta la genialità di chi ha messo una serie di cartelli sulla superstrada litoranea tra Livorno e Grosseto. Premessa: la velocità consentita è 110 km all’ora. Col maltempo è giusto consigliare prudenza ed invitare a ridurre la velocità. Nulla da eccepire sul concetto. Ma considerando la zona ed il clima marittimo si suppone che le nevicate siano un fatto piuttosto eccezionale. Eccettuiamo qualche sporadica grandinata, che comunque costringerebbe i guidatori a ridurre la velocità anche senza bisogno di inviti o cartelli. Dunque che altro potrebbe cadere dal cielo se non della pioggia?

Allora chiamiamola così. Perché un cartello che recita, sotto al simbolo velocità massima 90 km/ora, “in caso di precipitazioni atmosferiche” (le ho contate, due parole fanno ben ventisei lettere) mi suona francamente una presa in giro nei confronti dei turisti. Precipitazioni atmosferiche. Vi immaginate una coppia di inglesi che stanno viaggiando sotto l’acqua a cento all’ora, e passano davanti a tale segnale? Cosa c’era scritto? Non so, ho fatto in tempo a leggere preci.. Aspetta il prossimo. Ah, eccolo. Allora? Ora sono arrivato a precipita.. Ma insomma, sei analfabeta? No, prova tu a leggere queste cavolo di parole italiane che sono lunghe un chilometro! Vai più piano, che così leggo tutta la frase. Sei matta, cara? Così questi indiavolati di italiani ci tamponano e ci portano fino a Roma a motore spento! Forse quando sono arrivati a Grosseto hanno decifrato l’interminabile codice da Vinci. Ora si tratta di guardare sul dizionario. E siccome anche i più attrezzati turisti non viaggiano con incunaboli da otto chili ma con dei tascabili che non brillano per selezione di lemmi, ecco che le possibilità che i tapini hanno di capire che il nostro geniale creativo quando ha scritto “precipitazioni atmosferiche” intendeva dire semplicemente “pioggia” sono tendenti allo zero.

Si dice in caso di pioggia, per la miseria! Vorrei che il nostro redattore di cartelli si trovasse una volta a guidare in un’autostrada cinese, con il volo che gli parte tra due ore, e le indicazioni per l’aeroporto rigorosamente in ideogrammi e senza facilitanti simboli di aeroplanini accanto. Forse allora capirebbe cosa significa far leggere ad uno straniero precipitazioni atmosferiche.

Piccolezze? Forse. Ma quando si viaggia all’estero così tanto come faccio io, queste minuscole sgarberie (magari involontarie, ma non per questo più giustificabili) saltano ancora più all’occhio.

Turisti? Benvenuti in Italia. Anzi. Perché farla breve e semplice? Ispirandomi al creativo di cui sopra, così magari mi capiscono meglio : benvenuti nel bel paese là dove il sì suona. E cari inglesi, se non è chiaro, oltre al dizionario portatevi appresso anche la Divina Commedia.




Prima pubblicazione : 31 dicembre 2007

giovedì 7 agosto 2014

Gli spot da urlo


Da un po’ una domanda mi assilla: è la calura estiva che scatena i peggiori obbrobri pubblicitari? Credono i creativi che il cervello dei consumatori vada anch’esso in vacanza? È questo l’assunto che li fa sentir liberi di propinarci qualsiasi oscenità commerciale passi loro per la testa?

Per il secondo anno, e stavolta con una classifica più ricca, ecco i piccoli orrori televisivi di stagione.


Quinto posto

La moglie e le altre. Una consorte apprensiva e melodrammatica sorprende il marito in atteggiamento meditabondo. Uditolo pronunciare le fatidiche parole stavo pensando… con artistica pausa ad effetto che lascia adito a un ampio spettro di scelte possibili, si porta la mano aperta al cuore, a rappresentare una fitta da ambasce tumultuose come solo quelle dei patimenti d’amore e immediata replica con voce da tragedia greca: a un’altra donna?

Poco importa che il buonuomo chiosi tranquillizzante che no, non a una specifica ipotetica amante pensava, ma alla categoria muliebre in generale, a milioni di donne, non con mire carnali e adulterine ma solo per l’appagamento dei di loro sensi gastronomici.

Signori pubblicitari, per favore. Un borghese piccolo piccolo la sera al massimo può pensare a che film scegliere senza troppe pubblicità in mezzo, se concedersi il modesto lusso della partita allo stadio domenica prossima o accontentarsi della diretta sul canale a pagamento, se farsi una grappetta o un cognacchino prima di andare a sonoramente dormire.

E signore mogli: non sopravvalutate i vostri uomini. Non sono i Rodolfo Valentino che magari sotto sotto, segretamente, fantasticate che siano. Se vi paiono assorti in trasognate meditazioni, molto probabilmente stanno pensando ai polpacci di Balotelli, non a quelli della signorina Silvani di fantozziana memoria.


Quarto posto

Tra biondi ci si intende. Biondo è Owen Wilson, come l’aperitivo che reclamizza. Parodiando James Bond si strappa di dosso una muta da sub e rivela – oltre a degli abiti impresentabili perfino su un campo da golf californiano – i suoi comici superpoteri presso una piscina ritrovo di nullafacenti.

Apre tappi di bottiglia con un dito, scatena esplosioni di gas rosso e arancio, che investono come getti di iprite (purtroppo non con gli stessi perniciosi effetti) i bighelloni, si sgargarozza nel miglior stile 007 bicchieroni di bibita colorata manco fossero cocktail Martini (shaken, not stirred).

Di questa pubblicità mi intriga immaginare la fase del casting. L’agenzia contatta il biondo attore americano: ci sarebbe da fare uno spot per il crodino. Per cosa?, replica con aria perplessa il nostro. È una bevanda analcolica estiva che piace agli italiani. Ah. Davvero? E perché proprio io? Perché il crodino è biondo, giusto come te. E cosa dovrei fare? L’agente segreto pirla in un consesso di bellone ai bordi di una piscina. Va beh, ho fatto parti peggiori in qualche mio film. Accetto.


Terzo posto

L’idiota al volante. Che in uno sconfinato parcheggio vuoto, dopo un vacuo e ciondolante peregrinare, decide di posteggiare tra le uniche due – mastodontiche – macchine lasciate lì da dei minacciosi brutti ceffi.

Ci deve essere qualcosa di ancestrale che spinge gli uomini a fare branco. Un’amica acuta osservatrice di costumi tempo fa chiosò causticamente un mio parcheggio in aree comuni, quando avevo scelto di fermarmi accanto ad una vettura pur essendoci posti circondati da spazi vuoti. Ma perché voi uomini posteggiate sempre così (sottintendendo: ve ne fregate se poi noi uscendo dobbiamo contorcerci come anguille per evitare tragiche escoriazioni alla sacra vernice dell’amata vettura, alla quale evidentemente voi tenete molto di più che alla salute della nostra schiena)?

Tutto questo per propagandare il modernissimo gadget a disposizione di questa utilitaria: la telecamera posteriore con monitor che mostra il parcheggio quando si è in retromarcia. Ma c’era proprio bisogno di ridurre l’homo sapiens al livello intellettivo del cercopiteco, per vendere qualche macchina in più?


Secondo posto

Inquinamento acustico. Spiegatemi, o copywriters, l’inquietante serie di incongruenze che ho riscontrato nella vostra creazione, ossia:

  1. Cosa ci fanno tre Mariachi su una spiaggia deserta.
  2. Perché l’uomo dello spot non reagisce o dando loro una lauta mancia perché vadano a suonare da un’altra parte, o cacciandoli malamente per aver interrotto l’idillio con l’amata.
  3. Come si spiega che la dolce metà abbia a disposizione un tablet guarda combinazione collegato a internet (si presuppone a costi di roaming stratosferici, vista la location esotica), aperto proprio alla pagina in cui va inserito il codice dell'aromatica e salvifica pasticca protagonista dello spot.
  4. Infine – so che questa è una domanda retorica, ma ciò non mi frena dal porla ugualmente – come si giustifica il loop spazio-temporale che permette alla fortunata fanciulla non solo di vincere seduta stante due cuffie con la sola immissione di un codice desunto dalla scatola dei sullodati dolciumi, ma altresì di averle magicamente e inopinatamente subito a disposizione, come materializzate dal nulla, per preservare gli orecchi con celestiali melodie dai tre assordanti messicani che continuano a fracassare i timpani di cernie e saraghi?


Campione d’estate e primo posto

L’imbecille e il tonno. Tonno perché di tale pesce inscatolato si fa la réclame. Imbecille perché non riesco altrimenti a qualificare un ganimede che, vestito come un pappone marsigliese e come questi fornito di coltellaccio da sbuzzo di rivali nel controllo del meretricio, mentre infuria una tempesta di forza mai vista neppure nei flutti perigliosi del Golfo di Biscaglia, infischiandosene di aiutare i compagni di navigazione che, mal riparati da cerate gialle e bagnati come pulcini, si dannano a sottender funi cercando di salvar la pelle sull’ingovernabile natante, preferisce sbocconcellare pezzetti di tonno estratti in punta di coltello dalla lattina in bella mostra, rischiando nell’ordine:
  • Di conficcarsi, grazie ad una provvidenziale ondata anomala, la lama nel palato molle, con buone probabilità – vista l’inusitata lunghezza dell’arma bianca – di raggiungere il cervelletto e privare di colpo il mondo della sua imbarazzante presenza.
  • Di essere scaraventato fuori bordo con lo spuntino e tutto, e di finire in pasto ai pesci a causa della palandrana zuppa d’acqua che lo trascina fatalmente verso gli abissi.
  • Di sopravvivere indenne alla procella, solo per venir punito alla maniera della Filibusta dai prodi ma indignati argonauti, ignorati nel momento del bisogno a vantaggio dell’inopportuna merenda ittica. 
Naturalmente nessuna di queste fauste ipotesi si avvererà, perché siamo nel regno del buonismo. E dell’imbecillità.





domenica 27 luglio 2014

Semplicità


Un po’ di nervosismo ma è normale. Le prime, primissime parole a caldo, appena sceso di bicicletta, di Vincenzo Nibali. Dopo aver vinto il Tour de France.

Quattro anni fa il Giro ha fatto tappa a Cuneo. Ho avuto la ventura di fotografarlo, elegante, armonioso e al tempo stesso potente, a conclusione della cronometro a squadre che lo vide indossare la maglia rosa. Premonizione di ben altri successi. Senza per questo perdere umiltà e semplicità. Ce ne fossero tanti, di atleti come te. Bravo Vincenzo.






sabato 12 luglio 2014

Amici miei irl

Avete presente la gag dei grandi burloni che nei colli fiorentini terrorizzano un paesello imbalsamato inscenando un finto progetto di transito proprio di lì della futura Autostrada delle Ginestre, con relativa plateale marcatura a gessetto delle case da buttare giù, che si conclude con uno sgonnellante parroco che in preda al panico corre in canonica gridando, presto, presto, sonate le ‘hampane?


Qualche mattacchione deve aver pensato di ripetere la cosa, ma in grande. La metropolitana di Cuneo. Stamani nel corso principale davanti al serioso e faraonico bozzetto del progetto c’era gente che telefonava a casa, commentando a caldo, pensa, arriverà fino a San Rocco...

Ragazzi, per favore. Così vi fate sgamare. Con le fermate che ci avete messo facciamo prima a farla tirare dai cavalli la metrò. Perché chi ne ha presa qualcuna ed ha dimestichezza con le distanze che copre, capirà che ogni trenta secondi sarebbe ferma. Che probabilmente ci vorrebbe più tempo a scendere sottoterra che a farne una tratta. Che infine una metrò che copre a malapena quattro chilometri è utile come un sedere senza il buco.

Comunque complimenti. La mappa è stupenda. Avete fatto le cose in grande: sette linee, trentasette fermate. A non conoscere Cuneo e le sue minuscole dimensioni sembrerebbe perfino verosimile. E poi Foro Boario Nord e Foro Boario Sud è geniale. Pure il sito web avete creato. Proprio ben congegnata come zingarata. Chi lo avrebbe detto che gli epigoni del Perozzi fossero subalpini?





mercoledì 9 luglio 2014

History in the making


Non importa il risultato della finale. Questa è la partita che rimarrà nella storia. Un brutale risveglio, una colossale sconfitta per il Brasile. Una resa senza condizioni. Una Caporetto.

Basta una parola – ma significativa del sentimento della nazione – alla Folha de S. Paulo per descrivere un match che gli annali ricorderanno come il peggior risultato in Coppa per i verde-oro.


Come diceva Bartali : gli è tutto da rifare.





martedì 1 luglio 2014

Creativi all’opera


Un brillante gioco di parole è una delle migliori prove dell'intelligenza umana. Non so resistere al fascino di un calembour ben congegnato.

Purtroppo ogni lingua ha i propri modi di dire, spesso intraducibili. Perciò questa piccola perla scovata in un centro commerciale di Manila la potranno apprezzare solo i conoscitori dell'inglese e delle sue sfumature.

Come meglio avrebbero potuto chiamare una libreria, per rendere l'idea di completezza di scelta e al contempo di ampia frequentazione di bibliofili, il tutto sintetizzato in due semplici vocaboli?


Geniale.




giovedì 12 giugno 2014

Sedici anni prima


La Coppa del Mondo. Di edizione in edizione cambiano i nomi, magari le nazioni, ma l’evento rimane sempre uguale a se stesso. La stessa frenesia, la stessa passione, lo stesso sfinimento da ridondanza mediatica che permea ogni mezzo di comunicazione e invade ogni angolo dell’orbe terracqueo fino alla vigilia del primo fischio d’inizio. Da lì in poi è una costante, ansiolitica scivolata senza freni verso la finalissima, verso il traguardo della quadriennale gloria pallonara: ecco i campioni del mondo.

Per celebrare degnamente questa giornata d’esordio, Homing Pigeon è andato a ripescare un vecchio inedito. Scritto sedici anni fa in Brasile, appena prima dei mondiali di – e della – Francia. Buon calcio a tutti, anche agli agnostici come me.


L’Evento

Alle altre passioni nazionali va aggiunta di diritto quella che, come un’epidemia, cova nascosta a lungo per poi esplodere in tutta la sua virulenza ogni quattro anni, allo scoccare dell’Avvenimento: la Copa.

Copa, sic et simpliciter, una parola per designare i mondiali, la Coppa del Mondo, l’unica degna di questo nome, l’unica per la quale merita soffrire, sperare, piangere, perfino morire. O gioire, godere, impazzire, come solo i brasiliani sanno fare.

Ed ecco una nazione trasformarsi, complice quello che non è più uno sport, non è più un gioco, non è più soltanto un business: è la vita. Il Futebol. Il fuciboli, come suona nella pronuncia brasiliana, è un valore trascendente.

L’Evento trasforma il Brasile in una curva da stadio, una torcida, formato nazione. E che nazione. Centosessanta milioni di torcidores, perfino l’aria è impregnata di tifo.

Rare sono le macchine che non esibiscono una bandierina inastata ed ancorata al finestrino del passeggero, in una improvvisa fiera dell’orgoglio nazionale.

Fanciulle belle e accattivanti, in perfetta tenuta da calciatore, con tanto di scarpette chiodate, invitano all’acquisto nei Duty Free Shop degli aeroporti, promettendo in regalo faraonici kit del tifoso, costituiti da magliette, cappellini ed altri gadget dell’autentico “torcidor”.

Insospettabili capitani d’industria mostrano, con la fierezza dei vincenti e la serenità di chi è nel giusto, piccoli computer tascabili su cui hanno registrato gli orari delle principali partite. I cerberi elettronici li difendono dalla bizzarria di qualche importuno, certo straniero, che pretendesse un appuntamento d’affari in concomitanza con un incontro importante. E quale non lo è, quando si parla di mondiali?

Vai a Rio, ti mostrano un campo spelacchiato - forse i nostri oratorii hanno più erba - e ti raccontano, con enfasi da reliquia religiosa, che proprio lì, fra quella polvere e quei sassi, tirò i primi calci al pallone il ragazzino che divenne Romario. Che ora piange in diretta televisiva per l’esclusione dalla nazionale, e con lui mezzo Brasile, mentre l’altro mezzo inveisce contro Zico, ex campione, ora dirigente e chiamato di correo in tanta crudeltà politico-calcistica.

Il Brasile gioca un’amichevole con Andorra. Andorra, si badi bene: è come dire Italia – Poggibonsi. Qualcuno è rimasto in un ufficio, a Rio de Janeiro, mentre la televisione trasmette l’incontro? La risposta è no. Cosa accadrà allo scoccare dell’ora magica, l’ora delle decisioni irrevocabili, l’ora della prima partita della nazionale? Banche e aziende chiuse, negozi a serrande abbassate, con i commessi dentro che guardano la TV (e del resto chi andrebbe a comprare qualcosa nell’ora suprema?), ristoranti che ricercano il consenso della clientela a colpi di pollici televisivi sempre maggiori, perfino i motel, luoghi deputati agli amori clandestini, cedono le armi. Chi cambierebbe un gol di Bebeto in diretta con un’avventura galante?

I giornali, già grassi e pesanti come commendatori, si arricchiscono di inserti dediti all’analisi scientifica di ogni più insignificante particolare dei mondiali prossimi venturi. Fanatismo da statistica. Dalla squadra più vecchia, e ovviamente quella più giovane, a quella più alta, e quella più bassa, e allora perché non quella più pesante, e quindi quella più leggera, e poi il giocatore con più presenze, e quello dai piedi più piccoli, ed il significato di ogni gesto dell’arbitro. Perché fare arbitrii? Anche quelli dei guardalinee. E i quiz, sai veramente tutto delle regole del calcio? E l’interessantissimo tema, come muta l’uniforme – uniforme, come i soldati – con l’evoluzione dei tessuti nel tempo. E il lancio della monetina, per sorteggiare il campo, dove lo vogliamo lasciare? Non merita anche lui un bell’articolo, con tanto di citazione che nel trentotto manca poco che la Germania e la Svizzera venissero alle mani per il sorteggio? Monete truccate, in tempi non sospetti?

Tutto vero, e manca una settimana all’Evento. Come riempiranno le pagine a venire i giornalisti in fregola? Con autocelebrazioni tecnologiche, quattro minuti per trasmettere una istantanea di un allenamento – via posta elettronica – da Parigi a São Paulo. E con foto e articoli a piena pagina sull’orecchino di Ronaldinho, come qui chiamano affettuosamente il noto giocatore dell’Inter. Dettaglio importantissimo: l’orecchino è di buon auspicio, recando i colori nazionali.

E allora via con l’orgia di verde e oro, colori sia della squadra, la Seleção, sia della bandiera brasiliana. Le pubblicità ne fanno ampio ed indiscriminato uso. Per vendere bisogna attirare l’attenzione. E nulla oggi vende meglio del verde-ouro della maglia brasiliana. Perfino le pubblicità più nobili giocano con il tema del calcio. Fantastica quella che a Fortaleza, nel Cearà, su rigoroso sfondo verde-oro, così recita: “20 Giugno, Brasile contro Paralisi – vinciamo questa partita. Vacciniamo i nostri figli contro la paralisi infantile”. Da paura.

Il calcio che salva delle vite? Ben venga. E che – tra un mese – vinca il migliore. Purché sia brasiliano.




Prima redazione : giugno 1998

domenica 8 giugno 2014

Paradossi


Riyadh, Arabia Saudita. Non credo ci sia un posto al mondo dove il carburante costa così poco. Credevo che "l'acqua costa più della benzina" fosse un paradosso o una battuta. Finchè non mi sono fermato a un distributore.

Quarantacinque centesimi di Riyal al litro. Al cambio, sono circa nove centesimi nostri. Il pieno a una macchina di media cilindrata si fa con 5 euro. In compenso l'acqua viene dalla desalinizzazione dell'acqua di mare, ed è la vera risorsa che il reame islamico non si può permettere di sprecare. Chi ti offre una bottiglia d'acqua fa un gesto la cui valenza non va trascurata.

Allora per un attimo ho pensato alle nostre fontanelle dalla testa di toro che buttano in continuazione acqua potabile e ho provato vari sentimenti contrastanti. Vedi come siamo fortunati: perché la vera ricchezza è l'acqua. Senza petrolio si vivrebbe certamente un po' peggio - si tornerebbe all'esistenza frugale dei bisnonni. Ma senza acqua si muore. Vedi quanto siamo spreconi: un bene così prezioso noi spensierate cicale lo facciamo scorrere inutilmente, a metri cubi, verso le fogne, senza che nessuno ne benefici, se non qualche sporadico cane o piccione all'abbeverata. Sarebbe come se gli sceicchi facessero sgorgare il petrolio da sottoterra e poi gli dessero fuoco, tanto chi se frega, sai quanto ne abbiamo ancora là sotto...

I catastrofisti dicono che se le ultime guerre del secolo scorso sono state combattute per il petrolio, la prima del nuovo secolo sarà combattuta per l'acqua. Cominciamo intanto a preoccuparci di non sprecarla. Almeno toglieremo ai guerrafondai una buona scusa per scatenare questo conflitto prossimo venturo.




lunedì 2 giugno 2014

Viva la privacy

Proprio vero. Paese che vai, usanze che trovi. Da noi capita talvolta che chi viene sorpreso in attività illecite sia nominato con le sole iniziali (e non è necessariamente un minore) oppure addirittura in forma anonima. Un ladro si è introdotto nella cascina ... S.G. è stato sorpreso a forzare la serranda di ...

Nell’aeroporto di Delhi troneggia il ritratto impettito e severo di Vijai Tiwari. Se fossimo in un albergo lo chiameremmo l’impiegato del mese. Ma Vijai appartiene al corpo paramilitare dei CISF, che si occupano di sicurezza aeroportuale.

Con abbondanza encomiastica di dettagli, il manifesto spiega che lo scaltro ufficiale ha scovato, meglio di un cane antidroga, la bellezza di dodici chili di sostanze proibite (anche se il principio attivo lo si trova perfino nei banali decongestionanti nasali) nella borsetta di una passeggera, menzionata con tanto di nome e cognome, paese d’origine e destinazione del suo volo. Manca solo di sapere se è libera e le misure di seno, vita e fianchi, come per le pin-up.

Cara Mjoli: non ti è passato per la testa che le borse devono passare allo scanner, con qualcuno pagato per stare lì tutto il giorno davanti a un monitor a ficcanasare ai raggi ics nelle scarselle della gente? E poi: dodici chili di pasticche? In una borsetta a mano? Avevi paura che ti facessero pagare il supplemento peso bagaglio, a metterle nella valigia da stiva?

Mah. Il prode Vijai avrà avuto anche buon fiuto. Ma non credo ci volesse Sherlock Holmes per beccare una corriera della droga così sprovveduta.




venerdì 30 maggio 2014

Gli uccelli


Sensazioni hitchcockiane. Un uomo mi vede fotografare una piccola e ben addestrata pattuglia di corvi che ha scelto l'interno dell'aeroporto di Amritsar come nido. That's India for you, mate, mi dice ridendo. Lo credo australiano, anche dall'accento, invece è inglese - ma di chiare origini locali.

Indisturbati, gli uccelli proseguono la loro esibizione acrobatica, volteggiando tra i passeggeri in coda per l'imbarco e infine atterrando leggiadramente sugli schienali delle poltroncine alla ricerca di briciole di colazioni consumate frettolosamente prima del decollo.

Un festoso cra-cra di ringraziamento accomiata i generosi umani che hanno lasciato un tangibile dono ai neri padroni di casa. That's India for you, mate!






venerdì 23 maggio 2014

Concetti e sostanza


Casa. Tempio religioso. Concetti universali, ma mai così distanti.


Casa, Emirati Arabi Uniti (Burj Khalifa, 828 metri, Dubai).


Tempio religioso, Emirati Arabi Uniti (Grande Moschea Sheikh Zayed, Abu Dhabi).


Casa e tempio religioso, Mumbai, India (la casa è quella sulla destra e ci vivono davvero degli esseri umani).




mercoledì 21 maggio 2014

Rodeo drive


Non siamo a Los Angeles ma in India. Così si viaggia, a cavalcioni di un fascio di tondini di ferro, su un camion in marcia sull'autostrada da Mumbai a Pune.


Servono altre parole?




lunedì 19 maggio 2014

Ritorno al passato


Come descrivere l'esperienza di un viaggio in autostrada in India? Benvenuti in Cina, vent'anni fa. Gli stessi antichi camion, stracarichi e affannati, ma lignei e sgargianti di colori come carretti siciliani. La stessa totale, anarchica, quasi gioiosa mancanza di regole. Lo stesso strombazzare a distesa, urgente e ammonitore, ad avvisare il mondo in movimento del proprio arrivo. Le stesse derelitte auto fumose di vapore dal cofano sbadigliante, arresesi sui tornanti come ciclisti scoppiati. Gli stessi pazienti ingorghi da incidente. Gli stessi panorami polverosi e ancora selvatici. Gli stessi pullman a lunga percorrenza, con le cuccette dove la gente dorme sdraiata sui dei tavolacci di legno, per aria condizionata i finestrini scorrevoli aperti. Gli stessi occasionali motocicli contromano a cui nessuno pare far caso, men che meno meravigliarsene.

Tutto come allora nel Regno di Mezzo. Dicono che l'India diventerà la prossima Cina? Fatte le proporzioni con il traffico, ci vorranno almeno vent'anni. E non è detto che basti.





sabato 17 maggio 2014

Un miliardo di voti

Narendra Modi. Ricordatevi questo nome. Perchè ne sentiremo parlare parecchio d'ora in avanti. Con una valanga di consensi ha spazzato via la vecchia coalizione del congresso e conquistato il potere assoluto in India. Potrà legiferare senza bisogno di metter d'accordo i tanti, troppi partitini che prima potevano influenzare o bloccare qualsiasi azione legislativa.

Mi basteranno dieci anni per cambiare l'India, questa la sua prima dichiarazione programmatica. E non scherza. Quando era ministro del Gujarat ha risolto con le maniere forti il conflitto interreligioso tra indú e mussulmani. Duro ma efficace. Questo gli era valso il farsi negare il visto per entrare negli Stati Uniti, con l’accusa di violazione dei diritti umani (senti chi parla). Oggi Obama, visto il travolgente successo elettorale, si è affrettato ad invitarlo a Washington. Vedi come improvvisamente cambiano gli atteggiamenti quando si diventa potenti.

Il quieto e poco propenso ai bagni di folla Primo Ministro uscente, Manmohan Singh, esce di scena pronunciando il discorso di commiato. La dinastia dei Ghandi rischia di non avere nemmeno un rappresentante nel governo.

A Mumbai sono magicamente già comparsi i manifesti di ringraziamento al popolo per la plebiscitaria vittoria ottenuta dal suo partito, il BJP.

La democrazia più grande della Terra ha scelto il suo nuovo capo. Non è uno che prende le cose alla leggera. Il mondo è avvertito.




giovedì 17 aprile 2014

Il tasto giusto

Una volta apparteneva al fantasioso mondo di James Bond. Oggi è realtà. Che cosa? La macchina telecomandata. No, non sto parlando dei modellini per i ragazzi, con cui alla fine giocano regolarmente gli adulti. È un'automobile vera. Con un minuscolo aggeggio grosso come un telefonino potete sterzare, far avanzare o indietreggiare la vettura. Da fuori.


Confesso che la visione di un piccolo video amatoriale realizzato da un amico filippino entusiasta dell'invenzione mi ha messo addosso un senso di inquietudine. Va beh, è risaputo che sono un dinosauro. Peggio: un dinosauro scettico. Oggigiorno sempre più congegni possono essere controllati a distanza. Il senza fili - wireless per i patiti della tecnologia - impazza. Ma una macchina? Faccio l’errore di domandare, a cosa serve un gadget del genere? Subito vengo investito da un esuberante elenco di utilissime applicazioni. Metti che piove, puoi far avvicinare la macchina fino al tuo riparo. Se non vedi quanto spazio hai per parcheggiare, scendi e posteggi finalmente davvero a vista. Sei semplicemente pigro? Invece di camminare tu fino alla macchina lasci che sia lei a venire a te. Eccetera, lasciando sbizzarrire la fantasia umana alla scoperta di altri irrinunciabili vantaggi dell'auto telecomandata.

Lo ammetto: una macchina che sterza da sola, con il volante innaturalmente in moto anche se priva di guidatore, è una cosa che colpisce. Vederla poi andare avanti e indietro da sè fa il paio con l'effetto quasi nauseabondo di quando provai per la prima volta in Giappone un'ibrida: sentirla muoversi in perfetto silenzio a motore spento inganna corpo e testa, e crea disagi viscerali.

E veniamo alla confutazione degli argomenti dell’amico fan. In caso di pioggia, portatevi un ombrello. Non so quanto tiri il telecomando, ma sarebbe carino esser sicuri che uno non possa guidare in remoto da distanze a rischio incidente da mancanza di chiara visuale. Specie se sta venendo giù un acquazzone. Parcheggi? Oggi sempre più vetture hanno cicalini che indicano l'avvicinarsi di un ostacolo - nella fattispecie, la macchina dietro di voi - e sostituiscono egregiamente la vista, agevolando chi non è dotato nell'arte del parcheggio in retromarcia. Scendere per posteggiare accrescerebbe solo il rischio di grasse risate da parte degli astanti e di erogazione gratuita di consigli non richiesti sulle modalità della manovra. Pigri? Fate due passi, che vi fa bene, invece di star sempre col sedere sulla macchina!

E poi a me fa una paura dell'accidente pensare che qualcuno si affidi ad un tastino di telecomando - e non ad una sana, fisica, energica affondata sui freni - per decidere di fermare una vettura vuota che sta per investire un bambino sbucato dal nulla. Quante volte abbiamo cambiato canale cercando di alzare il volume della tivu? Quante volte abbiamo sbagliato numero telefonando a un amico? Quante volte è finita la batteria del dannato marchingegno proprio quando ci serviva di più? Vogliamo affidare la pelle di un passante alla nostra capacità di scegliere il tasto giusto al momento giusto? Ai posteri l'ardua sentenza.




domenica 23 marzo 2014

L’umanizzazione della macchina


Post ispirato da Irene, cara amica scrittrice (sì, a chiamarla blogger mi sembrerebbe di privarla di un titolo più alto, che so io, come rivolgersi a un marchese dandogli del barone…), che si descrive come, tra gli altri attributi, “blog-sitter”.

Buffo neologismo. Vedo immagini di gente troppo indaffarata per riuscire a coltivare quel contenitore immaginario di recente nascita ma già apparentemente sulla ripida china del viale del tramonto tecnologico che chiamiamo blog. E qui viene in soccorso la figura dell’amorevole e paziente bambinaia delle idee inespresse di chi proprio non ha il tempo, ma ha un’imprescindibile esigenza di tenere costantemente innaffiato il vaso con la piantina dei pensieri. Facendo così crescere la notorietà e la visibilità del VIP di turno, democratico e populista - che va tanto di moda – al punto da mantenere perfino un suo blog, come un carneade qualsiasi.

Mi piace immaginare Irene come un’autorevole tata di altrui bebè informatici. E – pensa un po’ – con l’indubbio vantaggio di non dover cambiar pannolini, pulir sederini, sedare pianti di bambini, disinfettare tagli e metter cerottini. Mica poco.




venerdì 21 marzo 2014

Rogo di ricordi


Ci sono giorni che sanciscono davvero la fine di qualcosa. Da vari anni il Pajo Vejo era chiuso, ma stamani all’alba l’edificio che lo ospitava, ormai mezzo espugnato da rovi e sterpaglie, è bruciato. Era diventato un rifugio di senzatetto e a marzo la notte fa ancora freddo. Si fa presto, cercando di scaldarsi alla meglio, a dar fuoco a pagliericci e a povere masserizie facilmente combustibili.


Ci volevano le fiamme per cancellare il vuoto simulacro – ma pieno di ricordi – di un ristorante tra i miei prediletti a Cuneo negli ultimi trent’anni.

Era uno di quei locali dove il menu non cambiava granchè. Ma ti offriva con prodigalità quelle rassicuranti certezze, quei sapori casalinghi – era gestito dai Balestra, e l’intero nucleo familiare lavorava lì – che magari si ripetevano ma non deludevano mai.

Con gli anni ero divenuto un cliente affezionato. Ricordo la figlia, Monica, che agli inizi degli anni ottanta arrivava da scuola sul suo vespino all’una in punto, giusto il tempo di parcheggiare e passava subito all’azione, cassa o sala, a seconda di dove servisse il suo impegno. Il figlio Davide col tempo affiancò il papà e la mamma in cucina, per reiterare quei piatti della tradizione che attiravano clienti fin dalla riviera francese, specie il martedì, giorno di mercato. Non ho mai saputo i nomi dei genitori, ma li salutavo sempre ed ero ricambiato con inalterabile cordialità.

Ricordo, pinzata alla meglio su un muro, una foto mezza stinta di Alberto di Monaco, allora giovane principe ereditario, che evidentemente si era fatto sedurre da quei vassoi di funghi porcini che in stagione formavano il cuore della cucina, crudi affettati o trifolati, con i tajarin rigorosamente in bianco o meravigliosamente fritti di fresco, in un tripudio di profumi e di sapori.

Ricordo Ermanno, lo storico cameriere del locale, che sempre recitava come una dolce filastrocca la serie dei nomi degli antipasti, a mano a mano che arrivava al tavolo con la guantiera colma di bontà genuine. La carne cruda, che nel cuneese non può mancare, il manzo coi finocchi affettati, il vitello tonnato, il vol-au-vent con la fonduta fragrante di tartufo, le salsicce calde coi funghi, il flan di porri, e chi si ricorda più tutti gli altri, freddi o caldi che fossero. So solo che non ne mancavo mai uno.

Ricordo la delusione ed il rammarico del giorno in cui scoprii che il ristorante non era chiuso per ferie, ma per sempre. I muri non erano della famiglia, i costi dell’affitto erano lievitati e – forse a malincuore, certo lasciando un vuoto sia nel cuore che nello stomaco di molti clienti – i Balestra chiusero per l’ultima volta la catena del cancello.

Ora il fuoco ha completato l’opera. Per questo mi è affiorata di getto la voglia di raccontare di questo luogo di ghiottonerie ormai defunto. Perché se tra qualche tempo non resteranno nemmeno quelle quattro mura bruciacchiate a ricordarci di quando la famiglia Balestra sfamava e deliziava torme di viandanti golosi, almeno rimarrà questo mio pensiero. E la gratitudine per averci così a lungo appagato le papille gustative, con la semplicità e l’amore per il mestiere dell’onesto vivandiere.

Meglio tardi che mai: grazie, famiglia Balestra.