domenica 23 marzo 2014

L’umanizzazione della macchina


Post ispirato da Irene, cara amica scrittrice (sì, a chiamarla blogger mi sembrerebbe di privarla di un titolo più alto, che so io, come rivolgersi a un marchese dandogli del barone…), che si descrive come, tra gli altri attributi, “blog-sitter”.

Buffo neologismo. Vedo immagini di gente troppo indaffarata per riuscire a coltivare quel contenitore immaginario di recente nascita ma già apparentemente sulla ripida china del viale del tramonto tecnologico che chiamiamo blog. E qui viene in soccorso la figura dell’amorevole e paziente bambinaia delle idee inespresse di chi proprio non ha il tempo, ma ha un’imprescindibile esigenza di tenere costantemente innaffiato il vaso con la piantina dei pensieri. Facendo così crescere la notorietà e la visibilità del VIP di turno, democratico e populista - che va tanto di moda – al punto da mantenere perfino un suo blog, come un carneade qualsiasi.

Mi piace immaginare Irene come un’autorevole tata di altrui bebè informatici. E – pensa un po’ – con l’indubbio vantaggio di non dover cambiar pannolini, pulir sederini, sedare pianti di bambini, disinfettare tagli e metter cerottini. Mica poco.




venerdì 21 marzo 2014

Rogo di ricordi


Ci sono giorni che sanciscono davvero la fine di qualcosa. Da vari anni il Pajo Vejo era chiuso, ma stamani all’alba l’edificio che lo ospitava, ormai mezzo espugnato da rovi e sterpaglie, è bruciato. Era diventato un rifugio di senzatetto e a marzo la notte fa ancora freddo. Si fa presto, cercando di scaldarsi alla meglio, a dar fuoco a pagliericci e a povere masserizie facilmente combustibili.


Ci volevano le fiamme per cancellare il vuoto simulacro – ma pieno di ricordi – di un ristorante tra i miei prediletti a Cuneo negli ultimi trent’anni.

Era uno di quei locali dove il menu non cambiava granchè. Ma ti offriva con prodigalità quelle rassicuranti certezze, quei sapori casalinghi – era gestito dai Balestra, e l’intero nucleo familiare lavorava lì – che magari si ripetevano ma non deludevano mai.

Con gli anni ero divenuto un cliente affezionato. Ricordo la figlia, Monica, che agli inizi degli anni ottanta arrivava da scuola sul suo vespino all’una in punto, giusto il tempo di parcheggiare e passava subito all’azione, cassa o sala, a seconda di dove servisse il suo impegno. Il figlio Davide col tempo affiancò il papà e la mamma in cucina, per reiterare quei piatti della tradizione che attiravano clienti fin dalla riviera francese, specie il martedì, giorno di mercato. Non ho mai saputo i nomi dei genitori, ma li salutavo sempre ed ero ricambiato con inalterabile cordialità.

Ricordo, pinzata alla meglio su un muro, una foto mezza stinta di Alberto di Monaco, allora giovane principe ereditario, che evidentemente si era fatto sedurre da quei vassoi di funghi porcini che in stagione formavano il cuore della cucina, crudi affettati o trifolati, con i tajarin rigorosamente in bianco o meravigliosamente fritti di fresco, in un tripudio di profumi e di sapori.

Ricordo Ermanno, lo storico cameriere del locale, che sempre recitava come una dolce filastrocca la serie dei nomi degli antipasti, a mano a mano che arrivava al tavolo con la guantiera colma di bontà genuine. La carne cruda, che nel cuneese non può mancare, il manzo coi finocchi affettati, il vitello tonnato, il vol-au-vent con la fonduta fragrante di tartufo, le salsicce calde coi funghi, il flan di porri, e chi si ricorda più tutti gli altri, freddi o caldi che fossero. So solo che non ne mancavo mai uno.

Ricordo la delusione ed il rammarico del giorno in cui scoprii che il ristorante non era chiuso per ferie, ma per sempre. I muri non erano della famiglia, i costi dell’affitto erano lievitati e – forse a malincuore, certo lasciando un vuoto sia nel cuore che nello stomaco di molti clienti – i Balestra chiusero per l’ultima volta la catena del cancello.

Ora il fuoco ha completato l’opera. Per questo mi è affiorata di getto la voglia di raccontare di questo luogo di ghiottonerie ormai defunto. Perché se tra qualche tempo non resteranno nemmeno quelle quattro mura bruciacchiate a ricordarci di quando la famiglia Balestra sfamava e deliziava torme di viandanti golosi, almeno rimarrà questo mio pensiero. E la gratitudine per averci così a lungo appagato le papille gustative, con la semplicità e l’amore per il mestiere dell’onesto vivandiere.

Meglio tardi che mai: grazie, famiglia Balestra.



giovedì 20 marzo 2014

Scoprite le differenze


Facciamo un gioco. Io vi fornisco gli elementi di confronto da una parte. La controparte ce la mettete voi, con le – spero poche – esperienze che avrete maturato di persona o per sentito dire. E poi mi direte se avete trovato delle differenze.

Singapore, ingresso del National University Hospital. Un cartello spiega il percorso del paziente dal suo arrivo in ambulanza al pronto soccorso, illustrato come se fosse un allegro gioco dell’oca, con tanto di punto di partenza indicato dalla freccina.

Ecco alcuni dettagli rimarchevoli: controllo temperatura, immediato; registrazione, immediata. Poi si prendono da due a cinque ore per una diagnosi fatta da un team medico capeggiato da un primario. Alla fine di ciò, il bivio: il paziente o viene dimesso, o viene ricoverato. A casa, oppure in reparto.

E i reparti del NUH sono immacolati, con un buon profumo di pulito ma senza l’invasivo lezzo di disinfettante, le sale d’aspetto per i parenti con la televisione accesa ma a basso volume per discrezione, ascensori lustri e dal movimento soave, giardinetti interni ben curati con una scultura informale dal benaugurante nome Hope, speranza. Per non parlare del personale, attento, garbato e professionale da lasciare a bocca aperta.

A Singapore la tecnologia è di casa. Volete partecipare ad un sondaggio sulla qualità del servizio ricevuto in ospedale? Compilate il questionario con il telefonino, leggendo l’ormai onnipresente codice QR. Temete di perdervi mentre siete alla ricerca di un parente ricoverato? Niente paura: basta scaricare la mappa interattiva che vi guiderà attraverso i reparti. Codice QR disponibile per Android e iPhone. Sembra una pubblicità. Invece è tecnologia al servizio della civiltà.

Siamo a metà del gioco. Ora tocca a voi completarlo: pensate ad un qualsiasi ospedale pubblico italiano, e scoprite le differenze. Non si vince nulla, ma magari – come diceva Benigni – ci si incazza parecchio. Come quando ti senti dire che ci vogliono sei mesi per fare un esame, che guarda caso nel centro privato si fa in pochi giorni. Basta pagare.



domenica 9 marzo 2014

Il senso degli affari


Supermercato cuneese. Offerta speciale! Due pacchi di crackers - tenuti insieme da un vivace e ammiccante adesivo rosso - con uno sconto di ben ottantanove centesimi. Tre euro al chilo. Più in là, nella stessa fila, la confezione singola. Cinquecento grammi, un euro e venticinque. Aspetta un attimo. Al chilo fanno 2 euro e 50, se so ancora far di conto.

Allora come si spiega che della "promozione" da tre euro rimane un solo pacco sullo scaffale deserto, mentre i vantaggiosi pacchetti singoli giacciono invenduti?

Gente: smettiamola di farci attrarre dal clamore e dalle apparenze degli strilli pubblicitari e prestiamo più attenzione ai caratteri piccoli che - come nei contratti delle assicurazioni - sono quelli che contano davvero.




sabato 1 marzo 2014

L’angolo giusto


Un tizio trentenne di Nagoya, tale Ryota Onogi, domenica scorsa ha noleggiato una macchina e dopo poche centinaia di metri è salito di proposito su un marciapiede puntando diritto su una folla di pedoni. Tredici feriti, per fortuna nemmeno un morto. Il mancato assassino ha terminato la sua corsa stampandosi contro un albero. Subito bloccato dalla solertissima polizia, ha dichiarato che voleva fare fuori qualcuno.


Interviste di prammatica a vicini e conoscenti dello squilibrato. Risposte banali a domande imbecilli. Se ne deduce che l’alienazione è tra - se non dentro - di noi, e talvolta solo una sorte cieca ma benevola ti aiuta ad evitarla, anche se purtroppo a qualcun altro toccherà.

Non solo nessuno lo avrebbe mai sospettato capace di una simile impresa, ma anzi, sembrava una persona così normale. La perla la offre un vicino: salutava sempre. Certo. L’importante è sapersi inchinare correttamente, per esser considerato a posto in Giappone. Poi si sorprendono se uno che ha perso il lavoro un giorno decide di noleggiare una macchina (una buona percentuale di giapponesi, pur avendo la patente, non ha una vettura, o perché non se la possono permettere, o perché è superflua, visto il perfetto funzionamento del trasporto pubblico, o anche perché non hanno un posto dove parcheggiarla, e in mancanza di questo non sono autorizzati a comprarsela, almeno a Tokyo) e in un lampo di lucida follia mette sotto della gente scelta a casaccio. Così, tanto per vendicarsi della società perfetta dalle mille regole. Incluso l’angolo esatto a cui inchinarsi, variabile a seconda della persona che si riverisce. Chi l’avrebbe mai detto? E pensare che salutava sempre. Anche all’angolo giusto.