lunedì 31 gennaio 2011

La verità sui processi

A jury consists of twelve persons chosen to decide who has the better lawyer.

Una giuria è composta da dodici persone scelte per decidere chi ha l’avvocato migliore.


Robert Frost [1874 – 1963]

domenica 30 gennaio 2011

Esodi e trappole

Dieci Italie in movimento. Sta accadendo in Cina. Nelle settimane precedenti il festival di primavera, l’altro nome del capodanno cinese, un immane esercito di lavoratori migranti torna a casa per un periodo di celebrazioni e riposo.

Ma per far ciò, chi guadagna a malapena duecento euro al mese non si può permettere aerei e nemmeno autobus. Seicento cinquanta milioni di persone si stanno mettendo in marcia. I viaggi sono spesso estenuanti e talvolta quasi infinite odissee, con i treni più lenti e più disagevoli rimasti sulla rete ferroviaria cinese. Trenta, trentotto, perfino quarantaquattro ore per tornare al proprio paese dalla metropoli dove si lavora.

Il biglietto più economico, una dozzina di euro, non prevede neppure la possibilità di accomodarsi sui disagevoli sedili di legno. Solo un posto in piedi, se si è veloci e fortunati uno strapuntino nel corridoio lo si trova. Quasi due giorni così, un viaggio di tregenda. Eppure Jiang, ventenne operaio che guadagna 100 Yuan al giorno, non si lamenta di stare in piedi. Dice: l’anno scorso era molto peggio, il treno era più affollato, non c’era nemmeno lo spazio per chinarsi un po’ogni tanto.

Con l’annuale transumanza compaiono puntuali i truffatori, pronti ad approfittarsi della povera gente alla ricerca di un biglietto. Chi cerca di evitare le terribili code fuori dalle stazioni corre il rischio di vedersi gabbato da malfattori sempre più smaliziati e tecnologici.

I casi sono all’ordine del giorno a Shanghai, e a decine. Ecco come funziona la truffa. Al cliente viene propinato un senso di falsa tranquillità, in quanto la pubblicità dice: pagamento al ricevimento del biglietto. Mentre si reca in stazione, la vittima riceve una telefonata. Lo informano che non è possibile fare l’operazione in contanti, occorre un bonifico bancario. Il tapino non è in grado di farlo sul momento. Telefona alla fidanzata, le dà disposizioni su come eseguirlo. Ma niente paura, lui la richiamerà quando ha in mano il biglietto, e solo allora lei darà il via alla banca. Tutto regolare, no?

E invece una decina di minuti dopo lei richiama, dicendo che ha fatto il bonifico (1100 Yuan, ovvero 130 Euro, mica poco per un cinese medio), come lui le ha confermato di fare. Stupore. Ma io non ho telefonato, dice il povero ignaro signor Meng.

La coppia improvvisamente capisce di essere stata truffata da dei furfanti specialisti in telecomunicazioni. Abili al punto da usare un software per rilevare i numeri di telefono, e addirittura far sì che chi riceve la chiamata veda un numero a loro piacere (di modo da ingannare la fidanzata, che riconosceva come chiamante Meng). E sorprendenti imitatori di voci, per dare il fraudolento assenso al bonifico, per derubare di una bella cifretta chi vuole solo tornare a casa dopo un anno di lavoro.

Nelle ultime settimane si sono moltiplicati i casi del genere. Se una truffa funziona si sa che dilaga. Ad un altro viaggiatore sono riusciti a sottrarre 4000 Yuan con lo stesso metodo, probabilmente per un biglietto aereo, merce altrettanto rara e ambita in vista dell’esodo del capodanno.

La polizia è a caccia della gang, e intanto mette in guardia tutti, come può. Raccomanda di fare una telefonata in più, invece di farsi abbindolare dagli impostori. Infatti se uno richiama il telefono da cui arriva l’assenso a versare i soldi, allora compare il vero numero e non quello simulato dagli abili hackers.

A chi non è riuscito a procurarsi un biglietto non resta che rivolgersi ai bagarini, attivi come allo stadio prima di un derby decisivo. Nelle principali stazioni della metropolitana delle donne ripetono lo stesso ritornello tutto il giorno, biglietti, biglietti. Finchè non capita da quelle parti un poliziotto. Allora sono fughe precipitose, che si concludono spesso con l’arresto. È un reato maggiorare i prezzi dei biglietti per trarne profitto. Oltre cento bagarini sono stati già messi in guardina nella sola Shanghai.

Mentre si combatte la quotidiana, pigra battaglia tra il bene e il male, la Cina si prepara a salutare la Tigre, e a dare il benvenuto al nuovo segno: il Coniglio.
兔年快乐.

sabato 29 gennaio 2011

Concorrenza sleale

Il premio discarica. Oggi La Stampa offre, nella rubrica Multimedia, non una, ma ben dieci invenzioni assolutamente imperdibili, costituenti la hit parade di un non meno balzano comitato di begli ingegni albionici, i quali hanno vagliato e deliberato. La palma d’oro dell’inutilità va ad un sensazionale oggetto: il ruota-cono-gelato motorizzato. Super pigri, se il pur modesto sforzo di girarvi fra le mani il cornetto pralinato vi sembra già troppo: è pensato per voi. Tutto quello che dovete fare è tirare fuori la lingua ed azionare il dispositivo.

A dimostrazione di quanto siano personali i gusti in fatto di oggetti inconcludenti, sono lieto di annunciarvi che a tale classifica appartiene un solo arnese che avevo già individuato, e di cui mi accingevo a scrivere una recensione nella domenicale colonna Mai più Senza: la forchetta elettrica gira-spaghetti. E che un altro attrezzo ha suscitato in me un po’ di rammarico per non averlo scoperto in tempo. Di certo col passaporto giapponese, la corda per saltare con conta-salti (e calorie bruciate) elettronico incorporato nella maniglia è degnissimo ospite dell’elenco.

Devo confessare che tutti questi giracose hanno, per associazione di idee, causato un leggero giramento di corbelli anche a me. Ma come, uno spende del tempo e della fatica ricercando in lungo e in largo le invenzioni più strambe e più imprevedibili, decide di dosarne - in modiche razioni settimanali – l’elargizione romanzata ad un piccolo gruppo di lettori disincantati, ed oggi, tutto d’un colpo, subiamo questa invasione degli ultracorpi, dieci baggianate al prezzo di una? Eh no. Così non vale. Questa è concorrenza sleale.

Prima pubblicazione : 11 aprile 2009

venerdì 28 gennaio 2011

Icaro

If God wanted us to fly, He would have given us tickets.

Se Dio avesse voluto che volassimo, ci avrebbe dato dei biglietti.

Mel Brooks

giovedì 27 gennaio 2011

Buona pace

Il giorno della memoria. Evidentemente c’è molta gente che ce l’ha corta, se c’è bisogno di un giorno specifico per ricordare qualcosa che chiunque dovrebbe vergognarsi a dimenticare. Poi c’è anche chi trova comoda la scusa della sbadataggine. Oh, toh, mi ero scordato. E dai oggi e dai domani, si arriva al punto di convincersi che magari non è mai successo. Da lì a cercare di persuadere anche gli altri il passo è breve. Il problema è che se qualche vecchio bacucco si sveglia un giorno dicendo che l’olocausto non c’è mai stato, invece di consigliargli col dovuto garbo di farsi dare una controllata alla teca cranica, mai fossero le prime avvisaglie di un Alzheimer incombente, ecco che ci sono editori pronti a pubblicare le sue elucubrazioni, giornali e tv se lo contendono per un malinteso senso di libertà di espressione, e nei casi più interessanti arrivano perfino perdoni papali mascherati da magnanimi gesti di cristiana riconciliazione con pecorelle che avevano smarrito la via maestra.

Purtroppo è l’intero genere umano a soffrire di un persistente e tenace calo della memoria – o forse si può chiamare assuefazione, indifferenza oppure cinismo. I milioni di morti della seconda guerra mondiale non ci hanno insegnato nulla. Da allora abbiamo avuto la guerra di Corea, il Vietnam, il conflitto lampo delle Falkland, l’Afghanistan (prima i russi, poi gli americani), la guerra del Golfo (Bush padre), la Bosnia, il Kosovo, la Cecenia, la seconda guerra del Golfo (Bush figlio), i genocidi in Rwanda, Cambogia e Darfur, varie scaramucce tra Cina e Russia, India e Pakistan, le due Coree. Più sessantanni di conflitto in Medio Oriente. E non sto a citare tutti i dissidi etnici o religiosi (che spesso coincidono) all’interno di un numero imprecisato di stati, dove fazioni opposte si scannano fra di loro nel generale disinteresse, se no facciamo nottata. Ah, dimenticavo: si segnala una certa acrimonia tra i tifosi del Pisa e del Livorno, e anche tra quelli della Juventus e della Fiorentina. L’ONU sta a guardare in attesa di sviluppi, pronta a mandare i corpi di pace allo stadio Artemio Franchi.

Ho parlato di cinismo. Un grande, sarcastico, scorretto comico americano, George Carlin, brutale istrione da palcoscenico, ha dissertato della guerra con uno spirito disarmante. Ottimo per risvegliare le coscienze sopite di un pubblico in catalessi mediatica.

Ne traggo dei brani. Dovunque tu sia andato, George, non te la prendere. È per una buona causa. Sì, lo so, proprio quelle che tu detestavi. Vabbè. Lasciamelo fare lo stesso.

La guerra è il più antico e il più grande spettacolo al mondo. Altrimenti perché lo scenario si chiamerebbe “teatro di guerra”?

Molta gente lavora ai piani di guerra. Non altrettanta a quelli di pace. Ci sono perfino le Scuole di Guerra. Vicino a Washington c’è l’Università di Difesa Nazionale. Si parla di difesa, ma è una scuola di guerra. E le Scuole di Pace dove sono?

Ho un piano di pace: la Pace Mondiale Attraverso le Presentazioni Formali. Funziona così: ognuno al mondo dovrebbe incontrare almeno una volta, formalmente, ogni altro abitante della Terra. Guardare l’altra persona negli occhi, stringergli la mano, ripetere il suo nome, cercare di ricordarsi i tratti del volto. La mia teoria è che se conosci personalmente tutti gli altri, sei meno propenso a combatterci contro in una guerra: Chi? I malesi? Stai scherzando?! La conosco quella gente!!

Sembra una stravagante freddura, ma se ci pensate bene contiene i semi di una grande verità. Se tutti, ma proprio tutti, facessero lo sforzo di capire un po’ gli altri, di rendersi conto che diverso non vuole necessariamente dire nemico, di usare parole e cervello anziché le armi per dirimere le proprie differenze con i coinquilini di pianeta, forse si riuscirebbe – magari solo per un minuto – ad avere la pace universale. Solo sogni? Lasciatemeli. Sono l’ultima cosa sulla quale non ha il controllo nessun altro, se non il nostro subcosciente.

Con le graffianti parole di Carlin: buona pace a tutti. Ma solo a chi se la merita.

Prima pubblicazione : 27 gennaio 2009

lunedì 24 gennaio 2011

Se questa è un’auto

Sono passate a malapena tre settimane dal mio racconto Vietato ai minori. E si continua a morire per mano di idioti ubriachi. È una lotta impari, quella contro l’imbecillità umana. Ma non per questo smetterò di lottare. Di parlare. Di maledire chi ammazza con un’arma più subdola di un fucile a pompa: l’auto, come dicono in America, DUI. Driven Under Influence. Guidata sotto l’influenza, tout court, sottinteso di alcool o di droga.

Stamani presto, nel piacentino, tre morti, due ragazze e un ragazzo, passeggeri, no, anzi, prigionieri di un assassino. L’unico sopravvissuto dell’ennesima demenza alcolica. Mi domando come abbiano fatto a tirarlo fuori vivo da quell’involucro orrendamente esploso, a cui solo una portiera dà ancora delle vaghe sembianze di una vettura.

Quattro famiglie staranno soffrendo, imprecando, rimpiangendo atrocemente di non aver saputo o potuto evitare questi lutti assurdi. Non posso far altro che provare un’immensa pena, che però non restituirà la vita a quei giovani persi. Ma posso, e voglio, continuare i miei appelli, i miei inviti, i miei racconti.

Per questo ripropongo oggi una storia con delle analogie, narrata dalla Cina circa un anno fa.

Carcere a vita per cinque vite

Ergastolo per un ubriaco al volante. No, non è uscito di nuovo Il Male, coi suoi titoli esorbitanti. È quanto succede oggi in Cina. Ma bisogna ascoltare, riflettere, confrontarsi con quella società così differente dalla nostra, prima di emettere giudizi lapidari, sempre facili dal comodo del nostro divano.

Spinto dalla curiosità suscitata da tutto un altro titolo di un nostro giornale online (ultime ore di speranza per l’inglese condannato a morte in Cina) faccio una delle mie consuete visite di verifica su China Daily. Organo ufficiale, quindi soggetto ai severi filtri ideologici del partito, è pur sempre informazione, anche se ci fa vedere la Cina come la vogliono conosciuta i dirigenti di Pechino. Ossia, in uno slancio di trasparenza verso il mondo esterno che pochi decenni fa sarebbe stato inconcepibile, con le sue notizie luttuose, con le sue malefatte, certo, ma anche con una rassicurante certezza della pena, comminata con un’ansiosa celerità, perché qui tutto viaggia due marce più veloce che altrove, il progresso, la crescita economica, l’arricchimento, ma altresì la corruzione, l’arroganza del potere economico, la disarmonia tra città ricche e campagne povere, e quindi occorre limitare i danni, punire chi abusa del proprio ruolo, fare capire che chi sbaglia paga, e paga salato, mica una ramanzina e via.

Non una parola oggi sul giustiziando Akmal Shaikh, arrivato all’aeroporto di Urumqi con quattro chili di eroina. In Cina per chi ne importa oltre 50 grammi c’è la pena di morte. Il signore in oggetto ne aveva con sé ottanta volte tanti. Pena comminata. Verificata. Ratificata dalla corte suprema. Erano cinquant’anni che uno straniero non veniva condannato a morte in Cina. E allora? Vuol dire che finora si erano comportati bene. O forse gli era sempre andata di lusso. Per qualcuno (che portava quattro chili di eroina con sé) non è stato così. Gli appelli degli inglesi andranno inascoltati. Questo è un esempio. Punirne uno per educarne cento, che va sempre di moda.

Un altro esempio, quasi passato inosservato, della longa manus cinese: vari fomentatori uiguri dello Xinjiang che hanno ammazzato degli Han durante le sommosse di luglio, sono poi scappati in Cambogia nella speranza di sfuggire al processo. La Cambogia, una volta presi, ha dichiarato: sono immigrati illegali e potenziali criminali. Ha negato loro alcuna forma di asilo e li ha restituiti alla Cina. Dove verranno processati per i crimini di cui sono accusati.

Ma veniamo all’episodio del giorno. Ubriaco al volante condannato all’ergastolo. Esagerazioni cinesi? Vediamo i fatti. Il trenta giugno scorso (si noti bene, meno di sei mesi fa: qualcuno può citarmi una causa in Italia, sia pur per un cane che ha pisciato sulle ruote di una macchina, che abbia raggiunto un verdetto in tale lasso di tempo??) Zhang Mingbao, di Nanjing, ubriaco fradicio (cinque volte oltre il limite di alcool nel sangue ammesso in Cina), alla guida della sua Buick, ha falciato nove persone e sei veicoli. Risultato : cinque morti, quattro feriti.

Ha pianto ed ha chiesto perdono al processo. Ha venduto la sua casa (Zhang era il padrone di un’agenzia immobiliare) per risarcire i parenti delle vittime. Ma questo non è stato sufficiente a garantirgli una sentenza clemente. Punito con l’ergastolo, per avere ucciso cinque persone ed avere messo a repentaglio la sicurezza pubblica.

Credete che si siano sollevati cori di dissenso verso una sentenza così apparentemente spropositata? Tutt’altro. I parenti delle vittime si sono dichiarati insoddisfatti, definendo la sentenza troppo indulgente. Volevano la pena di morte. Quell’assassino mi ha portato via una figlia – incinta di otto mesi -, un nipotino mai nato, un buon genero, dice Zheng Cuihong all’emissione della sentenza.

Lontanissima da me l’idea di giustificare, seppur minimamente, l’idiota Zhang. Ho sempre affermato con veemenza il fatto che chi ferisce o uccide al volante, se ubriaco, deve passare del gran tempo in galera. Per me ci dovrebbe trascorrere qualche nottata anche chi non fa incidenti, ma guida pieno di alcool. Giusto per fargli passare la voglia di rifarlo.

Però rifletto sulle mille volte in cui ho visto serate, iniziate all’insegna dell’allegria post-negoziale, svilupparsi in scriteriati agoni alcoolici, in cui l’incolpevole straniero veniva preso a bersaglio generalizzato di brindisi continui e insistenti fino alla noia. Quante volte ho osservato con orrore questa gentaglia traballante e assolutamente inadatta perfino a premere il pulsante del piano corretto in ascensore, avventurarsi fuori, esigere imperiosamente le chiavi della propria macchina dal parcheggiatore di turno e quindi eclissarsi nel traffico già caotico senza la loro irresponsabile presenza? Quante volte ho sentito storie di gente che può ringraziare di avere scelto robuste macchine di fabbricazione tedesca o svedese per essere ancora vivi e quindi aver facoltà di raccontare di come si era malamente accartocciata la vettura dopo che l’avevano guidata, nell’obnubilamento bacchico, contro un muro, eppure loro ne erano usciti con qualche graffio o poco più?

È questa l’incultura che la Cina dovrebbe combattere per prima. Lo so che è più facile metter leggi draconiane nei confronti di chi fa danni seri al volante, se sorpreso con tassi da coma etilico. Ma la cosa giusta da fare sarebbe convincere tutti questi sbevazzoni che non occorre conciarsi da sbatter via, per confermare la propria amichevole attitudine nei confronti dei commensali. Che non si è veri uomini solo se si è capaci di trangugiare tre bicchierozzi di liquore urticante e puzzolente a cinquanta gradi alcolici a stomaco vuoto. Che se spendi mille euro in un karaoke pagando da bere a quattro clienti e a quattro sfitinzie smaliziate che fanno finta di bere il tuo whisky da trecento euro la bottiglia, ma poi invece lo ripompano nel bicchierone di cocacola che simulano di bere subito dopo il brindisi, allora non sei un uomo d’affari: sei un coglione. Ecco, se a Pechino cercassero di far capire queste cose ai cinesi, allora forse non ci sarebbero più così tanti casi di ubriachi al volante che ammazzano e poi vanno portati davanti ad un tribunale, che non accontenta mai nessuno con le sue sentenze. Troppo severe, come dice la moglie di Zhang, che si vede privata a vita del supporto economico di un marito benestante. Troppo miti, come dice Zheng, il padre di due – anzi, tre – delle vittime.

Sono l’arroganza, l’ineducazione, il troppo repentino arricchimento che dà alla testa e causa delirii di onnipotenza, le vere cause di tanti piccoli, quotidiani disastri in una Cina squilibrata. Compresi quelli causati dai troppi ubriaconi alla guida.

Prima pubblicazione : 28 dicembre 2009

domenica 23 gennaio 2011

Cabaret Italia

Ci son giornali che considero seri e degni di lettura. Altri che considero spazzatura faziosa ed inguardabile.

Uno dei pochi che mi piace scorrere, quando sono in giro per il mondo, è l’IHT. Non sempre concordo con le sue posizioni, ma fa informazione in maniera razionale e sufficientemente equilibrata.

Recentemente la nostra piccola repubblica non ha avuto grosse vetrine sul foglio di respiro planetario. Scarni trafiletti, per lo più incentrati sulle avventure erotiche o giudiziare – talora peculiarmente coincidenti – di chi l’Italia dovrebbe rappresentare tra i potenti del mondo.

L’altro ieri, venerdì, nelle due pagine centrali dedicate a sagaci opinionisti che parlano autorevolmente e senza facezie di problemi assortiti, dalla rivolta in Tunisia alla questione palestinese, Haiti, la Russia, la potente Cina di Hu in visita agli Stati Uniti, l’onere di mantenere la pace nel mondo – missione molto disattesa, a quanto pare – mi è saltata all’occhio una vignetta, in alto, proprio in centro ai due fogli.

Nemmeno un titolo. Una riga di commento. Un tentativo di recensione. Evidentemente non ce n’è più bisogno. Il livello del rispetto per l’Italia da parte della comunità internazionale è tutto rappresentato in quella assoluta, crudele mancanza di chiosa.

Mi sono vergognato di essere italiano. La politica ridotta ad un cabaret. Un teatrino d’avanspettacolo, con soubrettine scosciate e sguaiate che per far strada la danno al vecchio capocomico.

Ma a differenza del cafechantant, qui si parla di chi in Italia ha il potere di Obama, di Wen Jiabao, di Putin, di Singh. Tanto per citarne qualcuno.

Una volta i politici erano dei grigi burocrati. Ma oggi si è passato il limite della decenza – dalla parte opposta. Possibile che non si riesca ad trovare una dignitosa via di mezzo tra i vecchi tromboni avulsi dalla realtà quotidiana della prima repubblica ed un imprenditore infiltrato a Palazzo, che resterà famoso per le sue formidabili gaffes, per la sua corte di servitori – televisivi e non – pronti alla genuflessione, per le leggi fatte ad hoc per restare ingiudicabile, per le promesse non mantenute (salvo gli evasori, qualcuno può dimostrarmi che paga meno tasse rispetto a quattro anni fa?), per le emergenze mal affrontate e sfruttate per puri scopi mediatici, ma non certo come ambasciatore dell’immagine italiana all’estero?

Voltiamo pagina. Essendo in Cina, leggo un po’ di giornali locali, almeno quelli non si occuperanno dei nostri piccoli squallori. Macchè. Shanghai Daily, stesso giorno: Ruby difende il generoso Silvio. Dichiarando ai microfoni di Mediaset (i cinesi non sono tenuti a saperlo, per cui meglio specificare che il network è stato fondato da Berlusconi) che lo stesso non le ha mai messo un dito addosso, che alla cena durante la quale lo incontrò lei gli raccontò tutta la sua storia con sincerità – tranne tre piccoli irrilevanti dettagli: il nome, l’età, 24 anni anziché i reali 17, e la nazionalità (egiziana invece che marocchina). Davvero un modello di genuinità. Alla fine della cena lui la invitò nel suo ufficio e le consegnò una busta che lei aprì (si suppone rimanendo molto sorpresa, visto che conteneva settemila euro) nella macchina che la riportava indietro.

E poi ci domandiamo perché vengono pubblicate vignette come quella di Chappatte.

sabato 22 gennaio 2011

Gambe al vento

Oggi le regole della sicurezza in campo impongono ai calciatori di proteggersi le gambe coi parastinchi. Quando ero bimbetto il calcio era una cosa più familiare, dagli interessi meno mirabolanti, la gente passeggiava la domenica pomeriggio con la radiolina a transistor attaccata all’orecchio, che gracchiava scusameri, scusameri, ti interrompo da Ferrara, gran gol della Spal!, e poi alla fine tutti andavano al bar a festeggiare o a consolarsi con un bicchierino di brandy, come suggeriva la immancabile pubblicità in chiusura di trasmissione. A quei tempi c’erano dei temerari che, o per vezzo o per idiosincrasia delle costrizioni, amavano giocare con i calzettoni mollemente adagiati sugli scarpini, i pregevoli polpacci esposti al pubblico ma anche ai rischi del mestiere, in un guascone gesto di sfida a terzini rocciosi e dalla pedata facile.

Di questa rara categoria di matadores da stadio che sfidavano le metaforiche e temibili corna di tori miura, rappresentate da vili tacchetti di difensori agganghiti, facevano parte Omar Sivori, il cabezon dal tunnel facile e dal dribbling ubriacante, Mariolino Corso, il piede sinistro di Dio, il compianto Gigi Meroni e alcuni altri pedatori ormai inghiottiti dall’oblio dal quale non li resusciterà neppure un album di figurine Panini ritrovato nel baule in soffitta.

Avessero giocato nel Giappone odierno, qualcuno avrebbe avuto la balzana idea di propor loro la sponsorizzazione di un prodotto dalle virtù mirabolanti. Giusto perché quei calzettoni flosci fanno tanto trasandato, e il disordine (con lo sporco e la mancanza di puntualità) è una delle grandi angosce dei giapponesi. Cosa sono quelle brutture, che stonano con l’inamidato portamento da parata militare degli altri dieci in campo?

Squadra schierata negli spogliatoi prima del grande match. L’allenatore con passo marziale e occhio di lince passa in rivista la truppa. Maglie sgargianti e lindissime nelle brachette. Bene. Calzoncini annodati. Ok. Catenelle e orecchini tolti. Ci siamo. Improvviso un sobbalzo. Fermo davanti al campione d’importazione, il mister sbotta: ehi, come sarebbe a dire? Cosa sono quei brutti polpacci pelosi di fuori? E dove sono i parastinchi? Qui non vogliamo sovversivi. Ci costi come una petroliera carica di greggio, e ti vogliamo in campo, non all’ospedale.

Magazziniere, presto, un paio di parastinchi. Eccoli. Come?? Hai dimenticato i lacci dei calzetti? Che vuol dire tanto non li uso mai?? Qui da noi funziona così, punto e basta! In campo si scende in ordine, non sciatti come dei rappers di Harlem. Chiaro!?!

Ma il vecchio, fidato custode del guardaroba sa il fatto suo. Estrae lo stick della miracolosa invenzione, destinata a studenti e studentesse con le cosce di fuori e i calzerotti bianchi, e salva la situazione. La squadra trionferà sugli avversari di turno. Qualche goccia di magica colla per calzetti applicata sul giro pelle del polpaccio, ed il nostro campione delizierà anche questa domenica i fans nipponici in delirio, convenuti allo stadio per godere delle sue finezze e dei suoi numeri funambolici col pallone, che manco le foche ammaestrate. Quando si dice: Mai più Senza!


Prima pubblicazione : 5 aprile 2009

venerdì 21 gennaio 2011

Me generation

Scritto più di due anni fa, ma sempre attuale. Come fresco di giornata.

Me generation

Appropriata e sintetica definizione dei giovani cinesi appartenenti alla generazione dei figli unici nati dopo il 1980, frutto della legge che prevede un solo erede per nucleo familiare.

Milioni di individui cresciuti nella bambagia, coccolati, viziati, riforniti di ogni bene materiale prima ancora di chiedere, da dei genitori nati nel periodo tenebroso della rivoluzione culturale che alla loro età nemmeno si sognavano potesse esistere il paese del bengodi che è oggi la Cina. Tutto quello che io non ho avuto, lo voglio per mio figlio. Bell’educazione.

Tutti questi figli singoli crescono nella convinzione che tutto sia loro dovuto e che il mondo ruoti attorno a loro. Trascorrono l’infanzia privati della presenza e del confronto con dei fratelli, nella totale ignoranza del concetto di condividere con gli altri sia i beni materiali, balocchi, cibo, libri di scuola, sia emozioni, sentimenti, giochi, studio, baruffe, abbracci. Crescere insieme. Zero.

Orde di giovani egocentrici e materialisti, ineducati alla convivenza, abituati a genitori che fanno qualsiasi sacrificio al fine di non fargli mancare non solo il necessario ma anche il superfluo, invadono le città dal tenore di vita consolidato come Shanghai.

Non un bel biglietto da visita per il domani della nazione più popolosa del mondo. Spesso mancano l’educazione e il rispetto. Colpa del governo? Forse. Dei genitori? Certo. Si vedono mamme che spingono il proprio ragazzetto verso l’unico sedile liberatosi sul metrò, invece di insegnargli a cedere il posto a chi ne può avere più bisogno. Si osservano bambini inscenare bizze accompagnate da urla e pianti asciutti, e genitori affranti prontamente provvedere affinché il piccolo principe non sia privato di alcunché.

Un confortante contraltare è costituito dalla fascia rurale e meno abbiente della società, che vive ancora secondo i tradizionali principi di rispetto dei vecchi, di apprezzamento per ciò che si ha, di applicazione della sana regola che non si spreca nulla di ciò che è stato acquisito coi proventi del quotidiano sudore della fronte. Ma con il graduale diradamento della Cina contadina ed il massiccio flusso migratorio verso le zone urbane, fonti di impareggiabili opportunità, c’è ben poco da illudersi per il prossimo futuro.

Fossimo a Singapore (agevolata sia dalla dimensione della nazione, sia dalla lungimiranza dei governanti), il problema sarebbe stato già affrontato lanciando delle campagne per la gentilezza e la cortesia nei confronti del prossimo, come è capitato in passato. Sono in maggioranza cinesi anche lì, ma non mancano iniziative tese a migliorare una società che già funziona. Eccome.

A Pechino, in vista delle olimpiadi prossime venture, e per timore di una figuraccia planetaria, si stanno già mobilitando, accontentandosi però di traguardi meno ambiziosi ma non per questo meno impegnativi. Insegnare ai cinesi a smetterla di infischiarsene delle code e di sputare per terra dappertutto. Ad avere una parvenza di rispetto per le regole del traffico urbano. A non urlare nelle orecchie della gente quando parlano, specie quando sono al cellulare (che ormai hanno anche i cani in Cina). A non pretendere di salire sui mezzi pubblici sgomitando mentre altri disgraziati stanno cercando di scenderne. A capire che quei buffi oggetti detti cestini della spazzatura hanno una funzione non solo decorativa dell’arredo urbano.

Se il governo, sia pur con delle operazioni dai nomi comici, come il giorno della coda non saltata, riuscirà ad ottenere dei risultati apprezzabili, allora saranno soldi ben spesi. E sarà un buon inizio, che farà ben sperare nella possibilità, nel giro di qualche generazione, di fare della Cina un posto civilizzato. Forse non come Singapore. Ma magari una buona imitazione. Arte nella quale, in Cina, sono maestri.

Prima pubblicazione : 6 novembre 2007

giovedì 20 gennaio 2011

Nuntio vobis...

The flight attendant will always tell you the name of your pilot. Like anyone goes, “Oh, he’s good. I like his work.”

La hostess annuncia sempre il nome del pilota. Come se qualcuno dicesse, oh, sì, è uno bravo. Mi piace come atterra.

David Spade

mercoledì 19 gennaio 2011

Avviso ai naviganti

Spam. Quante volte abbiamo aperto la nostra casella di posta elettronica, trovandola inondata di proposte e offerte e vincite e affaroni che nessuno ha sollecitato e che la maggioranza di noi, saggiamente, cancella con un clic generale e benefico, cacciando temporaneamente fuori gli intrusi che si ripresenteranno puntuali come una cambiale alla prossima apertura della mailbox?

Ebbene, spendiamo qualche minuto del nostro tempo per considerare una minaccia nascosta in tanti mirabolanti annunci che ci giungono quotidianamente.

Sono in Cina, nell’aeroporto di una qualche città di media dimensione (sui 4 milioni di abitanti, per intenderci), e un’insistente commessa di mezza età, da uno dei tanti negozietti pieni di tutto e di più, paradiso dei viaggiatori all’ultima chance di ricordarsi i regalini per casa, richiama ad alta voce ogni singolo straniero che le capiti a tiro, mostrando con fare complice la inconfondibile scatoletta azzurra. Manca solo la strizzatina d’occhio e la gomitata nelle costole. Viagra. Ad una frazione del prezzo. Non compro mai nulla in questo aeroporto, mi dice il solito onnipresente amico cinese con cui viaggio. Tutta roba falsa. Anche il Viagra? Specialmente quello, replica pronto. Ho rapidamente – e con ilarità – immaginato la scena di un cliente bidonato che torni a sporgere un reclamo presso la signora, presentando circostanziata evidenza del fallimento dello scopo (absit iniuria verbo) della suddetta medicina...

Dunque basta resistere alle lusinghe di venditrici aeroportuali cinesi o di botteghe di dubbia serietà, per evitare fregature e soprattutto rischi per la salute? No. Il falso Viagra venduto in Cina a stranieri in cerca di prestazioni ormai smorzate da età o stress, non è che la punta di un iceberg.

Finora, avendo da qualche anno viaggiato qua e là per il mondo, avevo sempre serenamente (o incoscientemente) creduto che le medicine fossero una cosa sulla quale non si scherzava. Che anche in un paesino in Malaysia o nel Mato Grosso brasiliano si potesse con fiducia comprare una scatola di pasticche per il mal di testa o un antipiretico in caso di febbre, senza rischi per la salute. Invece mi documento un po’ e scopro che si fanno addirittura congressi internazionali per dibattere le strategie da intraprendere per combattere questo problema planetario. Perché di tale si tratta.

In Africa, Sud America ed Asia un buon 30% delle medicine in vendita in negozi regolarmente autorizzati (il prodotto da banco venduto fuori dalla farmacia è di uso comune, contrariamente a quanto avviene in Italia) è a rischio di essere contraffatto. I falsi farmaci si vendono perché non occorre ricetta medica e sono più a buon mercato dell’articolo di nome. E vanno a colpire i pazienti più indifesi. Chi non si può permettere di consultare un medico. Chi si vergogna della propria malattia e cerca l’anonimato nel self-service. Chi non potrebbe comprare la vera medicina in farmacia, perché più cara.

E noi, nel mondo civilizzato della vecchia Europa e degli opulenti Stati Uniti, siamo al sicuro? Nemmeno per sogno. Alla diffusione di tali fraudolenti articoli, che vanno da inefficaci placebo a veri e propri veleni per la salute, provvede in questo caso Internet. Quando è troppo bello per essere vero, di solito non lo è. Impariamo a diffidare invece di abboccare. Oltre il 50% delle medicine vendute da siti che inviano spam, specie se nascondono il proprio indirizzo fisico – e questa è una pratica comune tra i disonesti mercanti di illusioni – sono imitazioni.

Non stiamo solo parlando di pillole contenenti materie inerti. Di certo inutili a curare, ma quantomeno non dannose. Spesso il principio attivo della vera medicina è sostituito da prodotti chimici che gli assomigliano, ma che possono risultare addirittura tossici. Causando un doppio danno al malato. Nessun progresso nella cura, anzi un peggioramento dovuto ai componenti nocivi presenti nel truffaldino medicinale.

Ciononostante, in certi paesi chi falsifica una maglietta griffata rischia una pena maggiore di chi produce o smercia un falso farmaco contro la malaria, l’ipertensione o il colesterolo.

Questo è un chiaro sintomo di quanto, a livello mondiale, sia ancora trascurato il problema della contraffazione delle medicine. E di quanto poco al sicuro sia ognuno di noi, se tale cancro, il cui traffico si stima generi un giro d’affari di svariate decine di miliardi di dollari (sì, avete capito bene, più del PIL di vari paesi emergenti), non verrà combattuto con ogni mezzo, da leggi severe per trafficanti e rivenditori, a catene di distribuzione farmaceutica a prova di corruzione e infiltrazioni, ad una maggiore collaborazione internazionale tra gli enti preposti alla salute pubblica, la polizia ed il sistema giudiziario.

Ci sono statistiche per quasi tutto l’umanamente contabilizzabile. Ma non per sapere quanta gente muoia ogni anno a causa di medicinali contraffatti inefficaci o dannosi. Occorre mettere il dito nella piaga, portare alla luce un problema di questa portata. Creare consapevolezza.

Estromettiamo dalle nostre vite questi malfattori che prosperano mettendo a repentaglio la pelle degli altri. Essere – tutti – informati dei rischi esistenti e delle modalità operative è già il primo passo per evitare errori che potrebbero risultare fatali. Ne va della nostra stessa vita. E scusate se è poco.

Prima pubblicazione : 8 gennaio 2008

martedì 18 gennaio 2011

Tacchi a spillo

High heels were invented by a woman who had been kissed on the forehead.


I tacchi alti sono stati inventati da una donna che era stata baciata sulla fronte.


Christopher Morley [1890 – 1957]

Comunicazione di servizio

Sono in Cina per alcuni giorni. Ho già programmato le pubblicazioni dei prossimi post prima di arrivare qua, ma il mio blog è inaccessibile (come del resto Twitter, Facebook, eccetera). Non potrò rispondere ai vostri commenti, anche se li riesco a vedere nella mia posta (almeno quella si apre...).

Questa comunicazione è qui perchè ho sfruttato la capacità di Blogger di ricevere e pubblicare post via email. Abbiate pazienza, risponderò ai vostri commenti appena possibile. Nel frattempo, se ne avete voglia, lasciatemi comunque i vostri pensieri!

Grazie,

HP

lunedì 17 gennaio 2011

Il riformista dimenticato

Sono passati esattamente due anni da quando scrissi questo piccolo ricordo di un cinese speciale: Zhao Ziyang.

Il riformista dimenticato

Ricorre oggi il quarto anniversario della scomparsa di un personaggio che avrebbe potuto cambiare il corso degli eventi in Cina, se non fosse stato rimosso dal suo ruolo di dirigente del partito nel 1989.

Zhao Ziyang era persona totalmente fuori dagli schemi. Il suo gesto politico più rilevante è stata l'apparizione in Piazza Tian An Men il 19 maggio 1989. Con un megafono in mano, si mescolò ai dimostranti e parlò loro. Gesto di gran valore innovativo. Distanze siderali dividevano l’apparato dai milioni di cinesi qualunque. Mai nessun leader del partito era sceso in piazza in mezzo al popolo. Né sarebbe successo negli anni a venire. Ci voleva il disastroso terremoto del maggio scorso nel Sichuan, per portare il premier Wen Jiabao a contatto con la gente di quella provincia disgraziata, con quelle madri private dell’unico figlio, con quei bambini senza più casa e senza più famiglia, con quei padri disperati che scavavano a mani nude nelle vergognose scuole fatte di formaggio di soia, crollate come castelli di carte, portandosi via una generazione di studenti ed insegnanti.

Sono passati vent’anni da Tian An Men. Zhao, quindici giorni prima del massacro di inizio giugno, disse ai contestatori che era arrivato troppo tardi. Non spiegò il significato, ma, nel linguaggio criptico compreso solo dai cinesi e da pochi, assidui frequentatori della terra di mezzo, quella frase disse molto. Era chiarissimo: sapeva che i suoi giorni da dirigente erano contati, e per lui era ormai troppo tardi per salvare i manifestanti. Avrebbe voluto che si ritirassero in buon ordine, prima dell’irreparabile. Avrebbe voluto salvarli. Ecco il messaggio nascosto.

Il giorno dopo a Pechino veniva proclamata la legge marziale. Il 4 giugno l’esercito sparò sulla folla, uccidendo un numero di studenti e dimostranti che non è mai stato precisato. Tuttora, per il cinese medio, Tian An Men significa solo la piazza davanti alla Città Proibita. Dei tumulti dell’89 la gente non parla perché non sa.

Zhao da quel giorno non apparve più in pubblico e l’apparato lo condannò all’oblio, segregandolo nella sua casa pechinese fino alla morte, il 17 gennaio 2005. I leader stranieri in visita a Pechino evitavano perfino di nominarlo, per non creare imbarazzi negli algidi detentori del potere cinese.

La Cina non ha mai ammesso il minimo dissenso nei confronti della politica decisa dal partito unico. Zhao non fu un rivoluzionario, né contestò apertamente l’oligarchia del comitato centrale. Ma si oppose con fermezza, finchè fu membro del partito, alle scelte sanguinarie di Deng Xiao Ping per reprimere i moti di Tian An Men. La sua discordanza di vedute con Deng gli costò cara. Fu esautorato e reso un fantasma politico, ben prima della sua morte.

Era stato primo ministro per sette anni, prima di raggiungere la carica di segretario generale. Forte fautore delle riforme, in una Cina terrorizzata dal minimo vento di cambiamento, abbozzò il concetto di economia di mercato, allentando la morsa statalista nelle zone urbane e concependo l’embrione di impresa privata che oggi ha preso piede in Cina.

Sono soprattutto i vecchi contadini a ricordare ancora – con nostalgia – la figura illuminata di Zhao Ziyang. Già negli anni ’70, quale soprintendente della provincia del Sichuan, promulgò riforme agricole che favorirono la coltivazione gestita da nuclei familiari piuttosto che il vecchio modello di collettivo rurale. Il primo passo verso la privatizzazione delle imprese, partendo dalla immensa base contadina.

Spesso i nomi cinesi hanno degli omonimi con un significato. Zhăo vuole anche dire cercare. Questo diede origine ad un distico, a testimonianza di quanto la sua opera fosse apprezzata dal popolo. Yào chī liáng, zhăo Zĭ Yáng. 要吃粮, 找紫阳. Se vuoi mangiare dei cereali, cerca Ziyang. Ben pochi altri leader cinesi hanno avuto l’onore del tributo popolare. Il riconoscimento di un vero valore politico, mentre molti puntavano alla mera salvaguardia del proprio lontano e distaccato potere.

Comrade Zhao, ci manchi. E c’è chi non ti ha dimenticato. Pochi, sporadici dissidenti cinesi oggi hanno manifestato, con morigerazione, e ben sorvegliati da guardie in borghese, davanti alla sua casa pechinese, nella quale trascorse, praticamente agli arresti domiciliari, gli ultimi sedici anni di vita. A distanza di quattro anni dalla sua morte, è ancora un’icona, un esempio, un faro splendente per i contadini, le minoranze, i poveri senza giustizia di una Cina molle coi potenti e prepotente coi deboli.

Prima pubblicazione : 17 gennaio 2009

domenica 16 gennaio 2011

Caro amore

Eccomi in patria. Una passeggiata domenicale sotto i portici. Sul muro adiacente una farmacia chiusa risalta un nuovissimo, scintillante cassettone metallico. Un distributore automatico di profilattici, appena installato. Nomi ammiccanti, etichette multicolori con diafane immagini di coppie che si accingono ad amplessi confortevoli e sicuri. Tutto bene. Checché ne dica la chiesa, evviva la libertà di godere senza procreare, e soprattutto di difendersi da morbi che ti stravolgono la vita. Malattie mortali, mica un raffreddore.

Ma ecco le dolenti note: i prezzi. Da cinque a sette euro per una confezione da sei. Dieci euro per quella da dodici pezzi. Fatta la rapida matematica, quasi un euro cadauno, talvolta anche più di uno. Ora, io non so se tali tegumenti nascondano speciali sistemi di processo e collaudo, garanzie esclusive e siano fatti di lattici provenienti dai migliori cru delle piantagioni di gomma della Cocincina. Se perlomeno così fosse, si spiegherebbe perché degli articoli che dovrebbero essere di universale accessibilità nella popolazione in età riproduttiva (ed oltre), abbiano prezzi che li equiparano a beni di lusso.

Si sa che un distributore automatico ha facoltà di esporre prezzi più alti di quelli di mercato. In fondo si compra lì quando i negozi sono chiusi, la sera, di domenica. Si paga per un servizio che non si troverebbe altrove. Un po’ di ricarico in più magari scappa. Anche se la logica vorrebbe il contrario. Quelli sono guadagni fatti senza spese di personale. Una macchina che lavora sempre, senza ferie, senza domeniche, senza mutua. Ma tant’è.

Per riconfermare i miei presupposti, la prima volta che visito il mio abituale supermercato spendo qualche minuto davanti ad una panoplia delle più svariate confezioni di condom. I prezzi non si scostano di molto da quelli visti nel macchinario in centro. Appena più bassi, roba di centesimi. La sede di produzione non è sempre chiaramente indicata, costringendo a meticolose analisi della scatola, che probabilmente avranno suscitato l’ilarità degli astanti. Che pignolo. Se ci mette tutto questo tempo a scegliere un preservativo, chissà il resto. Alla fine delle verifiche d’origine, l’assortimento arriva da Italia, Spagna, Regno Unito, India.

Un profilattico quasi duemila delle vecchie lire? Non è certo la politica giusta, se si vogliono incentivare i giovani e le fasce sociali meno abbienti a fare sesso sicuro. È così dappertutto? No.

Ma perché sono sempre costretto a fare paragoni imbarazzanti? In Australia, dove i costi di produzione non sono inferiori a quelli europei, e comunque ben lontani dal lucroso livello cinese, una confezione da dodici costa meno di sei dollari locali. Al cambio, poco più di tre euro. Esattamente un terzo di quello che occorre in Italia. Allora c’è qualcosa che non quadra. Perché se un delta del genere ci si potrebbe aspettare per manufatti di dubbia qualità provenienti da qualche anonimo e precario opificio del Guangdong, non mi spiego come mai ci sia una differenza così abissale tra due paesi le cui economie – e relativi costi della vita – sono equiparabili. Qualche solone del marketing me lo sa spiegare?

Ogni volta che ne parlo, mi accorgo di fare un’apologia dell’Australia. Ma se va a finire così, ci sarà pur qualche ragione. Eccone un’altra: su ogni confezione da dodici di una marca di pregio, con tanto di garanzie e certificazioni di qualità, è riportato un codice numerico univoco. Basta andare sul sito internet del produttore, digitare il numero, insieme con il proprio indirizzo, per vedersi recapitare a casa, gratis, altri due profilattici. Gli australiani pensano a tutto. Non avete internet? (e ci può stare benissimo, nello sperduto outback, vaste aree del quale non sono nemmeno coperte da segnale per il cellulare, beati loro). Non c’è problema. Basta compilare il modulo stampato sul depliant e spedirlo per posta.

Oppure, e qui viene il bello, si può decidere di regalarli all’iniziativa Condoms for Africa. Per ogni donazione di due pezzi, l’azienda ne aggiunge altri due, raddoppiando il valore del contributo. Spiega il riccamente illustrato bugiardino: il costo di un condom in Africa è spesso pari a tre giorni di lavoro. Venticinque milioni di africani, adulti e bambini, sono malati di AIDS o cercano di sopravvivere all’HIV. Diamo il nostro contributo, con un semplice click o con l’esiguo costo di un francobollo, per fermare questa strage. Regaliamo due profilattici per una nobile causa. Aiutiamo l’Africa a non consumarsi di AIDS.

Se non è civiltà questa, che cosa lo è?

Prima pubblicazione : 23 aprile 2008

sabato 15 gennaio 2011

Pubblicità occulta

Qualche fervoroso mattacchione che per campare fa finta di avere delle idee brillanti (quelli della categoria si autotitolano creativi e lavorano nella scienza pomposamente chiamata promozione commerciale), avendo probabilmente abusato oltre il consueto di polveri bianche di consistenza e peso equiparabili alla farina, ma al contrario di questa totalmente inefficaci per sfornare pani o pizze, se n’è uscito un giorno con una strabiliante trovata.

La scena si svolge nella sala riunioni di una nota agenzia pubblicitaria. Musi lunghi, aria di reprimende, alle pareti grafici minacciosamente orientati verso il basso. Il direttore sta in piedi, coi pugni piantati sul tavolo, e indirizza i suoi prodi cervelli: signori, qui andiamo male. Scarseggiano le idee. E sapete una cosa? Mi è venuto in mente un posto che nessuno aveva mai pensato di sfruttare per la pubblicità. Quale, quale?, replicano in coro i copywriters, illuminandosi all’istante. Forza, pensateci un po’. Cosa vi pago a fare?? Devo fare sempre tutto io in quest’azienda? Allora? Niente?… Capo, lo sai benissimo. Se si escludono le mutande del papa, non c’è posto al mondo dove non abbiamo piazzato le nostre propagande. Città e campagne, giornali, riviste e televisioni sono pieni zeppi delle nostre reclames. Abbiamo saturato tutto il saturabile. Eh, no, cari creativi dei miei stivali. Guardate qua (esibisce un oggetto di uso quotidiano, che tutti noi abbiamo molte volte avuto per le mani, giusto il tempo necessario a buttarlo nel cestino della spazzatura).

Ci sarà una cavolo di ragione se nessuno ci aveva mai pensato, no? Quale è l’ultima cosa che volete vedere quando, pacificamente accomodati sul trono quotidiano, avendo terminato di utilizzare il suddetto per l’umile ma necessaria funzione, vi accingete all’operazione che naturalmente segue, e scoprite con orrore che i dieci piani di morbidezza sono terminati, e l’insulso cilindretto di cartone vi guarda beffardo, come dire: e ora?

Maledicendo senza esclusione tutti i restanti componenti del nucleo familiare, incluso l’incolpevole gatto che, come è noto, né la usa né sa come cambiare il rotolo della carta igienica, infilate una sequela di parolacce che farebbe arrossire anche la cortigiana più scafata.

E questi fenomeni vorrebbero raccontarci che, in tale imbarazzante frangente, uno vedrebbe con favore e buona disposizione d’animo una qualsiasi merce, perfino la più utile, che fosse – hic et nunc – sottoposta alla sua attenzione?

Gli inutillimi che hanno partorito un simile capolavoro si meritano senza tema di smentita un posto in un’altra rubrica del caro Cuore, ideatore di Mai più senza: Braccia rubate all’agricoltura.

Prima pubblicazione : 29 marzo 2009

venerdì 14 gennaio 2011

Eccitante

Sei in Giappone? Prima o poi si sa che – statisticamente – ti capiterà. Si sentono citare frequenze strabilianti, per noi. Un terremoto al giorno. Scosse avvertite, per la massima parte, solo dai sensibili strumenti sismici. E così, quando ne arriva uno vero, forte, da sentire, uno di quelli che fa danni, non sei preparato a intuire che è lui.

E lui arriva mentre sono in una fabbrica. Un rumore crescente, un brusio che si fa tuono, le campate metalliche del capannone che cominciano a vibrare ritmicamente, più veloce, sempre più veloce. Sorpreso, interrogo i locali, come a dire: cosa è, un’altra diavoleria come il suono del big ben che scandisce gli intervalli di pausa, o la musichetta – sempre uguale, sempre quella, da bambini delle elementari alla tomba – che accompagna gli esercizi ginnici obbligatori delle otto di mattina, tutte le dannate mattine? O gli insopportabili carillon dei muletti, che suonano in un modo quando vanno a marcia indietro, in un altro quando avanzano, e perfino se alzano o abbassano un carico c’è un apposito accompagnamento sonoro...

No. Questa volta il concerto non è organizzato dall’uomo. È la natura che si fa sentire. Alla mia ingenua domanda, le mani dei giapponesi ondeggiando spiegano. Avverto in loro il timore addirittura di evocarla, quella parola. Terremoto.

Provo ad ascoltare il mio corpo. Cosa mi comunica, cosa percepisco nelle gambe, nella testa. Nelle viscere. Penso alla sensibilità istintiva degli animali, i cani che latrano, i cavalli che nervosi nitriscono, ad annunciare l’evento. Ma il mio corpo non mi trasmette nulla. Perché? Mi concentro, ne ho tutto il tempo, appoggio le mani per terra, a tentare di avvertire meglio il tremore del pavimento.

Macché. Che rabbia. Troppo bravi anche in questo. Non fosse stato per quelle putrelle di acciaio che vibravano come enormi tasti di xilofono suonati dalla forza della Terra, non mi sarei accorto di nulla. Ma un canto di Ulissidi sirene metalliche mi ha stregato, e tenuto lì a dispetto di ogni logica, di ogni istinto, che mi avrebbe dovuto spingere a scappare ed a cercare rifugio all’aria aperta. Eppure. Ero tranquillo. Tutti, lì, erano tranquilli, mentre accadeva. Cemento a prova di sisma. Pareti che non si muovono. Imponenti colonne e spessi pavimenti progettati per resistere agli shock tellurici.

Tutto dura un tempo che è difficile da quantificare. Le travi continuano ad oscillare, ma non risuonano più. Come le campane che continuano, mute, a dondolare, ben oltre lo sforzo del campanaro. Arrivano le prime informazioni. Allora so quanto è durato. Due minuti e mezzo. Un nulla. O un’eternità.

È passato. I giapponesi, battendosi vigorose manate sul corpo, come quando ti rialzi da una caduta nella neve fresca, dicono: eccitante.

Allora capisco. Forse ci vuole proprio un terremoto per eccitare un popolo programmato per nascondere, reprimere, cancellare dalla faccia – e da molto più dentro – ogni emozione, ogni sentimento, ogni eccitazione.

La Terra in fondo è giusta. Unicuique suum.

Prima pubblicazione : 22 giugno 2007

giovedì 13 gennaio 2011

Nel 2011...

Ti rendi conto che siamo nel 2011 quando:

1. immetti distrattamente la tua password sul microonde. O sul citofono. O sulla calcolatrice.
2. sono anni che non giochi al solitario con carte vere.
3. hai un elenco di 15 numeri per contattare il resto della famiglia. Di tre persone.
4. mandi una email al tuo vicino di scrivania invece di parlargli.
5. la scusa per aver perso i contatti con degli amici è che non hanno un indirizzo email.
6. parcheggi sotto casa e usi il cellulare per vedere se c’è qualcuno che può scendere per aiutarti a portar su la spesa.
7. ogni pubblicità in televisione ha un www scritto sullo schermo, in basso.
8. se dimentichi a casa il cellulare (che per i primi venti, o trenta, o sessanta anni della tua vita non hai posseduto), vai in panico e devi assolutamente tornare indietro a prenderlo.
10. ti alzi la mattina e ti colleghi a internet prima ancora di accendere il gas sotto il caffè.
11. stai cominciando ad inclinare la testa quando sorridi : )
12. mentre leggi questo annuisci e ridacchi.
13. peggio ancora, sai già a chi invierai questo testo.
14. eri troppo preso nella lettura per accorgerti che manca il punto 9 della lista.
15. sei subito andato a controllare se davvero non c’era il numero 9.

E ora stai ridendo di te stesso. Dai, non resistere. Mandalo ai tuoi amici. Lo sai che lo vuoi fare.

martedì 11 gennaio 2011

La scatola d’oro

Era passato molto tempo da quando Jack aveva visto l’ultima volta il vecchio. L’università; le ragazze; poi il lavoro. Tutto si era frapposto tra lui e il suo passato. Jack inseguiva i suoi sogni, spostandosi da un posto all’altro.

Preso dall’affannoso stile di vita dell’uomo in carriera, Jack non trovava un momento per ripensare ai tempi andati. E talvolta nemmeno per occuparsi della moglie e del figlio. Faceva progetti per il futuro, nulla sembrava poterlo fermare.

Una telefonata dalla madre: l’altra notte è morto il signor Belser. Il funerale è mercoledì. Improvvise, nella sua mente riapparvero immagini del passato. Ripensò ai tempi della fanciullezza e una calma innaturale lo attraversò.

Jack, mi senti?, disse la madre.

Sì, mamma. Ho capito. È passato tanto tempo… anzi, ti dirò, credevo fosse già morto qualche anno fa.

Sai, lui non ti aveva dimenticato. Spesso mi chiedeva di te, di come ti andava la vita. E rievocava i giorni che trascorrevi ‘dalla sua parte della staccionata’, come diceva lui, aggiunse la madre.

Mi piaceva quella vecchia casa dove viveva, replicò Jack.

Sai, Jack, dopo che tuo padre morì, il signor Belser si preoccupò di offrirti una figura paterna, perché tu non crescessi senza.

È lui che mi ha insegnato il mestiere, – Jack concordò – senza di lui non sarei quello che sono. Passò tanto di quel tempo a spiegarmi cose che lui riteneva importanti... mamma, ho deciso: vengo al funerale.

Nonostante gli impegni, tenne fede alla sua parola. Il funerale del signor Belser fu modesto e senza gran seguito. Non aveva figli, e quasi tutti i suoi parenti se n’erano già andati.

La sera prima di ripartire, Jack e la madre decisero di fare un’ultima visita alla casa del vicino.

Fermo sulla porta, Jack si sentì trasportato in una dimensione differente: un salto spazio-temporale. La casa era uguale a come se la ricordava. Tutto gli faceva riaffiorare dei ricordi. Le foto, i mobili... Jack si arrestò d’improvviso.

Cosa c’è, Jack?, domandò apprensiva la madre.

La scatola. Non c’è più.

Che scatola?, chiese la madre.

C’era una piccola scatola dorata che teneva sulla sua scrivania. Gli avrò chiesto mille volte che cosa ci fosse dentro. E mi rispondeva invariabilmente, la cosa che ho più cara.

La scatola era scomparsa. Tutto il resto era esattamente come Jack lo ricordava, tranne quel piccolo scrigno. Jack pensò: forse l’aveva preso qualche parente del signor Belser.

Ora non saprò mai che cosa era così importante per lui, si lamentò Jack. Meglio andare a dormire. Domattina ho il volo presto.

Due settimane dopo il funerale Jack, tornando a casa, trovò un messaggio nella posta. Un collo da consegnare, nessuno a casa. Si prega di passare dall’ufficio postale entro tre giorni.

Diretto al lavoro, il giorno dopo, per prima cosa Jack andò a ritirare il pacco. L’imballo sapeva di vecchio, la scrittura era incerta e difficile da leggere, ma il nome del mittente lo emozionò: Harold Belser. Jack non seppe aspettare. Appena in macchina, aprì il pacchetto, trovando una busta e la scatola dorata.

Le mani tremanti, Jack lesse il messaggio: alla mia morte, fate avere questa scatola a Jack Bennet. È la cosa che ho avuto più cara nella mia vita. Una chiavina era attaccata alla lettera. Il cuore di Jack pulsava rapido, le lacrime difficili da trattenere: trepidante, aprì con cautela la scatola dorata. Dentro c’era un orologio d’oro da taschino.

Accarezzando lentamente la cassa finemente cesellata, fece scattare il meccanismo di apertura. All’interno del coperchio vi erano incise queste parole: Jack, grazie per il tuo tempo. Harold Belser.

La cosa che gli era più cara era… il mio tempo!

Jack rimase meditabondo per qualche minuto, tra le mani caute il prezioso dono. Poi chiamò l’ufficio e cancellò tutti gli appuntamenti dei due giorni a venire. Perché?, chiese Janet, la sua assistente.

Ho bisogno di un po’ di tempo per stare con mio figlio, disse Jack. Ah, a proposito, Janet: grazie per il tuo tempo!


La vita non si misura dal numero di respiri, ma dai momenti che ti tolgono il respiro.

The golden box

It had been some time since Jack had seen the old man. College, girls, career, and life itself got in the way. In fact, Jack moved clear across the country in pursuit of his dreams.

There, in the rush of his busy life, Jack had little time to think about the past and often no time to spend with his wife and son. He was working on his future, and nothing could stop him.

Over the phone, his mother told him, "Mr. Belser died last night. The funeral is Wednesday." Memories flashed through his mind like an old newsreel as he sat quietly remembering his childhood days.

"Jack, did you hear me?"

"Oh, sorry, Mom. Yes, I heard you. It's been so long since I thought of him. I'm sorry, but I honestly thought he died years ago," Jack said.

"Well, he didn’t forget you. Every time I saw him he’d ask how you were doing. He’d reminisce about the many days you spent over ‘his side of the fence’ as he put it," Mom told him.

"I loved that old house he lived in," Jack said.

"You know, Jack, after your father died, Mr. Belser stepped in to make sure you had a man’s influence in your life," she said.

"He’s the one who taught me carpentry," he said. "I wouldn’t be in this business if it weren’t for him. He spent a lot of time teaching me things he thought were important... Mom, I’ll be there for the funeral," Jack said.

As busy as he was, he kept his word. Jack caught the next flight to his hometown. Mr. Belser’s funeral was small and uneventful. He had no children of his own, and most of his relatives had passed away.

The night before he had to return home, Jack and his Mom stopped by to see the old house next door one more time.

Standing in the doorway, Jack paused for a moment. It was like crossing over into another dimension, a leap through space and time. The house was exactly as he remembered. Every step held memories. Every picture, every piece of furniture... Jack stopped suddenly.

"What’s wrong, Jack?" his Mom asked.

"The box is gone," he said.

"What box?" Mom asked.

"There was a small gold box that he kept locked on top of his desk. I must have asked him a thousand times what was inside. All he’d ever tell me was ‘the thing I value most’," Jack said.

It was gone. Everything about the house was exactly how Jack remembered it, except for the box. He figured someone from the Belser family had taken it.

"Now I’ll never know what was so valuable to him," Jack said. "I better get some sleep. I have an early flight home, Mom."

It had been about two weeks since Mr. Belser died. Returning home from work one day Jack discovered a note in his mailbox. "Signature required on a package. No one at home. Please stop by the main post office within the next three days," the note read.

Early the next day Jack retrieved the package. The small box was old and looked like it had been mailed a hundred years ago. The handwriting was difficult to read, but the return address caught his attention. "Mr. Harold Belser" it read. Jack took the box out to his car and ripped open the package. There inside was the gold box and an envelope.

Jack’s hands shook as he read the note inside.

"Upon my death, please forward this box and its contents to Jack Bennett. It’s the thing I valued most in my life." A small key was taped to the letter. His heart racing, as tears filled his eyes, Jack carefully unlocked the box. There inside he found a beautiful gold pocket watch.

Running his fingers slowly over the finely etched casing, he unlatched the cover. Inside he found these words engraved:

"Jack, Thanks for your time! Harold Belser."

"The thing he valued most was... my time."

Jack held the watch for a few minutes, then called his office and cleared his appointments for the next two days. "Why?" Janet, his assistant asked.

"I need some time to spend with my son," he said.

"Oh, by the way, Janet, thanks for your time!"


Life is not measured by the number of breaths we take but by the moments that take our breath away.