sabato 26 novembre 2011

26-11

Ricordando, con un racconto scritto in India ad una settimana dal fatto, le oltre 150 vittime dell'odio terrorista, a tre anni dalla strage di Mumbai.

Il numero undici sembra un infausto denominatore comune delle stragi terroristiche. Anche l’India ha adottato la via più breve per parlare dei fatti di Mumbai. Come l’undici settembre americano, la stampa locale titola compatta a quattro cifre: 26-11.

Ma che cosa è il terrorismo? Il terrorismo è uno stato d’animo. Capisci che hanno centrato l’obiettivo quando arrivi in albergo, ti guardi intorno e ti chiedi per prima cosa come si scappa da lì, e vuoi una camera ad un piano da cui puoi ancora saltar di sotto senza spetasciarti sull’asfalto come una pesca marcia. Capisci che hanno vinto quando guardi male per strada il tipo che ti approccia, e che voleva essere solo gentile ed aiutare un buffo straniero vestito in giacca e cravatta, geneticamente impreparato ad affrontare l’attraversamento di un viale di Delhi senza rischiare la vita quanto un ostaggio di albergo a Mumbai. Sai che i bastardi magari sono morti ma hanno compiuto con successo la loro infame missione, quando un ragazzo con lo zaino che ti passa accanto non ti ispira simpatia ma ti fa scorrere brividi gelati lungo la schiena.

Gli stranieri – nello specifico, un gruppo di italiani – hanno due tipi di atteggiamento. Spavaldo alla cosa vuoi che ci succeda, siamo italiani, mica americani. Oppure preoccupato e teso tutto il tempo, in parte a causa di un bombardamento altrettanto snervante, ma stavolta da casa. Grazie, tigi e carta stampata. Ci rendete un bel servigio. Un’italiano si lamenta, mia moglie ascolta le notizie e mi rompe i corbelli ogni tre ore, come stai, tutto bene, ma sei sicuro che sia sicuro?

L’altra notte all’aeroporto di Delhi da una macchina sono stati esplosi due colpi d’arma da fuoco. Prima che l’elefantesco ed impreparato apparato militare, riparato da sacchi di sabbia piu’ adatti a contenere una piena del fiume che a proteggere da pallottole di fucili automatici, si mettesse in moto e tentasse un inseguimento, la vettura era scomparsa nella bolgia del traffico locale. In Italia si e’ letto di sei persone coinvolte nella sparatoria, di terrore in aeroporto, di seconda strage mancata. Nessuno si e’ fatto un graffio – per fortuna. Quanti morti ci sono stati ieri sulle strade italiane? Più equilibrio e meno sensazionalismo, per favore. Facciamo le proporzioni e verifichiamo le fonti, prima di sgomentare chi ha un parente che vive – o ci si trova solo per qualche giorno – in India.

La vita continua, senza apparenti intoppi o sospensioni del fare quotidiano. I giovani frequentano in massa ritrovi dai quali sbuca musica a pieno volume, facendo immaginare serate spensierate ed allegria danzerina. Escono poi tutti insieme da queste discoteche alla buona, senza il problema di dover guidare dopo aver bevuto un goccio di troppo. Si riversano in strada e danno l’assalto a degli autobus senza portiere, che sporadicamente si palesano nel rado traffico notturno. Sono allenatissimi a salire al volo, agili come gazzelle, mentre il mezzo è ancora ben in corsa. Ma perché non aspettano che si fermi, mi interrogo ingenuamente. Semplice. Quando il bus è finalmente fermo, non solo è già strabuzzante di gente, ma due o tre ragazzi pencolano avventurosamente di fuori, abbarbicati solo con mani e piedi a mancorrenti e pedana. Robe da trapezisti circensi. La legge del più lesto. Chi non osa – e non imbarca al volo – non trova più posto e va a piedi.

Nella sera tiepida e umida si epifanizza improvvisa una piccola parata di gente in costumi che sembran tratti da un film sull’impero coloniale inglese. È una rumorosa banda musicale, seguita da una folla versicolore che danza e si sfrena per strada. Notati gli sguardi incuriositi di noi italiani, subito il nostro anfitrione spiega: è un matrimonio. Bello. Il ritmo delle percussioni via via che il calore cresce assume connotazioni carioca. I tamburi battono ritmi ossessivi, i pepli di mille sgargianti tonalità, che fasciano le donne fino ai piedi, svolazzano attorno come pavoni ubriachi. Sembra un piccolo carnevale di Rio fuori stagione ed in trasferta in India. Chiude il corteo un cavaliere con tanto di ombrello cerimoniale, in coppia con una prepubere e bellissima damigella, entrambi a malapena sopportati da un mesto ronzino bianco, ingualdrappato come un elefante dei tempi dei maragià. La celebrazione si conclude, alla faccia del subdolo terrorismo venuto da oltre confine, con l’allegra esplosione di una salva di fuochi d’artificio, che tingono di rosso e di verde il cielo aranciato dai riverberi della capitale, e stordiscono le orecchie con le loro deflagrazioni troppo vicine.
Una pioggia di scintille odorose di salnitro ed è tutto finito. I musici si avviano alla caccia di un autorisciò – geniale definizione degli apini, ubiquitari e popolari taxi a tre ruote da ceto meno abbiente – libero, da inzeppare di tamburi, tromboni ed esseri umani emaciati.

Il ventisei undici promette una stagione fruttifera per la stampa indiana. Pagine e pagine riempite di ipotesi, cure, opinioni le più varie, teorie di complotti e dita puntate verso questo e quello. Pezzi grossi della politica si dimettono (a proposito: qualcuno ricorda un ministro italiano che abbia fatto altrettanto, da piazza Fontana fino a Ustica?), la Rice si è subito fiondata sia a Delhi che in Pakistan a dire ragazzi piantatela un po’ di fare casino che abbiamo già i cavoli nostri da risolvere in Iraq e Afghanistan, poliziotti e militari si lamentano pubblicamente di essere stati mandati a morire, affrontando dei terroristi ben addestrati e dotati di armi automatiche, con dei moschetti utili solo per il museo dell’artiglieria, con una preparazione ai limiti del ridicolo ed un coordinamento pari a zero. Un poliziotto all’inizio della carriera guadagna meno di 50 euro al mese, al poligono non va perché i proiettili costano, viaggia su vetture coeve e perfino assomiglianti alla millecento Fiat degli anni sessanta. Nemmeno Rambo avrebbe avuto una chance. Figuriamoci della gente con l’uniforme sdrucita, scarpe da ginnastica da quattro soldi ai piedi e nella fondina una colt che sembra quella di Buffalo Bill.

La popolazione osserva il balletto delle accuse e delle responsabilità dei soloni del giorno dopo, quelli che sono capaci di sentenziare e offrire consigli non richiesti su cosa si sarebbe dovuto fare, a cose fatte. Ma la gente manifesta soprattutto il suo bisogno primario: continuare a vivere, mettersi dietro le spalle anche questa ennesima tragedia – molto somigliante alla nostrana strategia della tensione, seppur con quantità di attentati e numero di morti ben superiore alla orribile stagione italiana – le cui origini e motivazioni provengono dal mai risolto conflitto tra India e Pakistan per il possesso della contesa provincia del Kashmir. Guarda un po’ cosa si arriva a fare per due golfini.


Prima pubblicazione : 6 dicembre 2008

2 commenti:

  1. Numero 11? Povera me, io sono nata un giorno 11, con l'aggravante del 'settembre'.
    Tesea

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  2. Ciao Tesea,

    ma dai, vuoi dire che sei nata l'undici settembre? Fino a dieci anni fa sarebbe stata solo una data come un'altra. Dopo il 2001, tutto è cambiato. In peggio.

    Grazie della visita e del commento, a presto,
    HP

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