Sta arrivando il fine settimana dei fiorai. Tra sabato e domenica – tempo infame permettendo – si ripeterà la tradizionale visita dei vivi ai morti. Ai pochi che vanno al cimitero indipendentemente dal calendario e per un omaggio sincero ai propri defunti, si aggiunge una maggioranza rumorosa di chi lo fa per sentirsi la coscienza a posto. Sono quelli che ci vanno una volta all’anno perché si deve, con lo stesso spirito con cui si va a messa o a teatro (quando non ce ne importa un fico né del prete né della recita): perché bisogna esserci, perché gli altri ci notino e non pensino, vedi, quello lì non frequenta. Presenzialismo perbenista.
Voglio fare un omaggio postumo a mia madre che, pioggia, freddo o solleone, non mancava mai di fare una visita, lungo tutto l’arco dell’anno, alla tomba di mio padre, offrendogli sempre e solo dei garofani rossi, l’unico fiore che lui adorava, ed una carezza alla foto dopo un rapido segno della croce. Il suo spirito toscanaccio ed anticonformista la spingeva a non andare al camposanto proprio il due novembre. Una settimana prima magari sì. Ma in quei due giorni quasi obbligatori proprio no, quello mai. Diceva: vai lì e trovi comari che stanno lì a ore a chiacchiera, oh, signora, come sta bene, guardi, anche lei, non invecchia mai, ma come mai qui, davvero, il suo povero marito?, aah, quanto mi dispiace… Ma ti pare che mi possa confondere con tutta questa gente che si comporta come se fosse al caffè in centro, e non in un posto di silenzi e di rispetto? E, infervorata, rincarava la dose: e quelli che sanno tutto di tutti, leggono le scritte sulle lapidi e spettegolano? Guarda lì tizio, fu consorte integerrimo, sì, poi era scappato con una ballerina, o quella, invece?, che coraggio scriverci madre e moglie esemplare, il marito, poveromo, aveva più corna lui che un corbello di chiocciole...
Tanto per stare in tema, che è la stagione giusta. Nelle piccole città di provincia usa ancora incollare ai muri gli annunci mortuari. Quando toccherà a me, gradirei che sul mio foglietto non si scrivessero le bestialità che ho scoperto in questi giorni sulle colonne dei portici cuneesi. Per favore. Un minimo di rispetto, se non per il morto, almeno per l’italiano.
Forse devo essere previdente, e contattare con largo (si spera) anticipo una rispettabile casa di onoranze funebri. Mai e poi mai sopporterei, seppur trapassato, di essere definito “la cara salma”. La cara salma riposa... Non sarei capace di riposare per l’eternità, sapendo di essere stato proditoriamente qualificato così, e senza neppure la possibilità di tornare dagli inferi sotto forma di fantasma e prendere per la palandrana gli autori di tale orripilante misfatto lessicale.
Non fiori ma eventuali opere di bene. Eventuali. Robe da matti. Già “opere di bene” è vecchio e consunto, ai limiti dello sfilacciamento. Ma eventuali, che puzza di se proprio vi avanzano dei soldi e non sapete cosa farne, è veramente uno sproposito. Via, via. Questi non fanno per me. Rivolgiamoci a gente che, oltre al cannello ossidrico, sa usare anche la penna e il dizionario.
Una nota di ottimismo in cotanta luttuosa desolazione. Ho conservato da anni un affettuoso annuncio pubblicato da figli amorosi sul quotidiano di Singapore, estremo tributo di gratitudine per una madre che sarebbe valsa la pena conoscere. È una poesia dolce ma non sdolcinata. Eccone qui la traduzione.
Wu Chuen Chuen è morta nel sonno il 17 maggio 2004, dopo una breve malattia. Avrebbe compiuto ottantanove anni a settembre. Ha vissuto la sua vita al massimo, senza tempo per alcun rimpianto. Una buongustaia prima che la parola fosse inventata, amava mangiare quasi quanto amava cucinare. Stamford Cafe, il ristorante in Bras Basah Road che lei gestì per circa 30 anni, nutrì legioni di locali, espatriati, turisti e soggiornanti. C’erano militari inglesi affamati di bistecche e tortini e pudding di pane e burro, marinai americani con la nostalgia di casa, alla ricerca di un hamburger o delle patatine fritte, e l’occasionale russo contento di trovare un borscht dignitoso.
Quando i suoi figli furono cresciuti, lei decise che era tempo di chiudere lo Stamford Cafe. Trasferì la cucina a casa per continuare a cibare famiglia e amici. La sua cucina era sempre aperta. Stufato di coda di bue, pollo arrosto, gallina al curry o dei frutti di mare si trovavano spesso sui fornelli, oppure nel frigorifero, pronti ad essere saltati in padella.
La cucina ora è chiusa.
I cinque figli di Madame Wu non hanno cercato né paroloni né voli pindarici per raccontare una madre che ha offerto a lungo, e a tanti, la semplice, basilare gioia di una refezione. Ma hanno saputo concentrare in poche righe una vita di passione e di impegno. Bravi.
Prima pubblicazione : 1° novembre 2008