Il crepuscolo degli dei. Lacrime quattro anni fa. Lacrime oggi. Ma di tutt’altro sapore. Una rara ammissione di colpa, totale, senza la minima ricerca di scuse o attenuanti. Addirittura sospetta, in un mondo niente affatto abituato a gente che si assume le responsabilità dei propri errori.
L’Italia perde un atleta: quel paesino sperduto nel Trentino ritrova un uomo. L’uomo qualsiasi che Alex voleva ritornare, forse oppresso da una responsabilità più grande di lui. Non riesco a non provare simpatia per questo ragazzo costretto a vincere contro la fatica immane ed oscura, costretto ad essere un personaggio pubblico contro la sua timidezza, costretto ad una solitudine quotidiana ripagata ogni quattro anni da titoloni e osanna – ma solo se vincente. Hai fatto la cosa sbagliata, come atleta. Ma come uomo ne hai fatte varie giuste ed onorevoli, compreso il riprenderti la tua vita privata.
L’Italia – forse – sopravviverà anche senza la tua medaglia. Se destinata ad un fato avverso, di certo non sarebbe stato quel pezzo di metallo a salvarla. Tu d’ora in avanti viviti la vita normale che agognavi, Alex. Oggi, come ultimo saluto, ti voglio dedicare il mio ricordo di quando ci hai fatto emozionare quattro anni fa a Pechino. Ed un modesto, ma sentito, grazie.
Benvenuto nel club
Per le mie limitate capacità di resistenza televisiva, è umanamente impossibile trascorrere di giorno quasi quattro ore incollato davanti al teleschermo per vedere in diretta l’odissea di un gruppo di scodinzolanti atleti che percorrono cinquanta chilometri di marcia. Figuriamoci di notte, dall’una e mezza fin quasi alle sei.
Eppure ci tenevo a vederlo. Ma Morfeo era suadente e tentatore stanotte. Tra la partenza e l’arrivo ho dei vaghi ricordi di un dormiveglia pieno di visioni assortite di polpacci gonfi, di sederi dimenanti, di braccia arrancanti, di bottigliette d’acqua raccattata al volo per ingollarla o per aspergersi il corpo accalorato, di sudori veri o indotti da docce nebulizzate che tentavano di portare refrigerio a questo manipolo di folli camminatori estremi.
La marcia è questo. Esasperare il gesto quotidiano di una qualsiasi passeggiata, portandolo alla massima velocità possibile, senza mai raggiungere quella fatale fase aerea in cui entrambi i piedi, sia pur per una frazione di secondo, sono entrambi sollevati da terra. Come i trottatori che rompono il loro ordinato passo, scoppiando in un fragoroso galoppo, così il marciatore che tecnicamente corre anziché camminare viene prima richiamato e poi squalificato.
Un esercizio paradossale, se non altro per il fatto che va perpetuato, passo dopo passo, per la bellezza di cinquanta chilometri. Fate i vostri conti. Immaginate una località così distante dalla vostra, e vedetevi mentalmente raggiungerla, a piedi, ancheggiando impettiti, in meno di quattro ore. Follie.
La marcia ha sempre avuto una buona scuola in Italia. Oggi abbiamo l’ennesima conferma. Alex Schwazer parte in testa dal primo metro, si lascia dietro qualcosa come cinquantamila passi ed arriva primo. Ohh. Finalmente un oro nell’atletica leggera. Ho visto la partenza, di quelle che ti viene da pensare, ma dove vai (nemmeno dove corri, che non si può!), guarda che il traguardo è lontano, rispàrmiati, gli altri ti vengono a prendere. E invece aveva ragione lui. Tre ore e trentasette minuti dopo, eccolo di nuovo, solitario, nello stadio da cui era partito. Un ingresso da trionfatore, più di due minuti sul secondo classificato.
Ma non è la medaglia d’oro la cosa più importante oggi. Oggi vincono i sentimenti, i buoni sentimenti. Questo ragazzo di ventitré anni, che un mese fa ha perso il nonno, e che concorreva con una fascia nera sulla bretellina della canotta, è entrato in quello stadio di gloria e per prima cosa, piangendo, ha baciato la fascia sul suo petto. Poi, superato il traguardo che lo incoronava campione olimpico, si è chinato, si è messo le mani tra i capelli ed ha continuato, sommessamente, a piangere. Si avvertiva, si vedeva che quelle erano lacrime sgorganti da sentimenti misti. Gioia, incredulità, tensione finalmente scaricata, riscatto, rimpianto. Tutto insieme, in quel singhiozzare composto.
Nell’intervista a caldo, ancora grondante gocce di ginnico sudore, ha mostrato il volto umano di un giovane campione, esibendo poche ma sane, fondamentali certezze.
Ha tenuto a sottolineare che lui è pulito. E non è dichiarazione da poco – anche se, in un mondo di sport ideale, e non quello furbesco e truffaldino di oggi, dovrebbe essere la norma, non un fatto da mettere in risalto a distinguersi da altri che invece si dopano. Un giorno potrà arrivare decimo o ventesimo anziché primo, ma ci arriverà sempre solo con le sue forze. Perbacco. Ha difeso ostinatamente la propria privacy, non intendendo rivelare – nonostante l’insistenza dell’intervistatrice in cerca di un futile scoop pettegolo – la provenienza del braccialetto portafortuna ostentato alle telecamere poco prima dell’arrivo. È un messaggio pubblico ma strettamente privato, diretto solo a chi sa lui, e tale deve restare. Ha ricordato il nonno, scomparso di recente, che chissà come sarebbe stato orgoglioso del suo Alex campione, e ancora gli sono affiorate delle lacrime che scorrevano calde sul primo piano del suo viso sudato. Rallegrati, Alex. Il nonno ti vede e oggi festeggia con te. Ha voluto ricordare tutto il gran lavoro di preparazione fatto a Saluzzo con Sandro, e l’intimità del rapporto con il preparatore gli ha fatto dimenticare che non tutti gli italiani sanno che Sandro è Damilano, uno della famiglia dei fratelli marciatori protagonisti di imprese e successi di circa tre decenni fa. Ha detto, suscitando un’arguta simpatia, che il duro non sono stati i quindici giorni di preparazione a Pechino, saranno i prossimi quindici giorni di festeggiamenti a casa. E casa è un paesino minimo di trentuno abitanti, che fanno di Alex il campione olimpico proveniente dal borgo più lillipuziano del mondo.
Bellissima infine una sua dichiarazione, fonte di insegnamento per tanti supposti fuoriclasse. Stimolato dalla giornalista a confrontare la vittoria di oggi e la mala sconfitta di un anno fa ai mondiali di Osaka, ha risposto, con la pulizia e la schiettezza di un ragazzo semplice, da allora sono cresciuto molto. Del resto, non è che dalle vittorie si impari molto. Che cosa sensazionale. In un mondo di campioni boriosi, saccenti, spocchiosi, che hanno visto tutto e vinto tutto e sanno tutto, ecco un ragazzo che istintivamente, in presa diretta, ci dice che è dalle sconfitte che si impara a diventare più forti, più umili, più uomini. Bravo Alex. Benvenuto nell’esclusivo, privilegiato, semivuoto club dei campioni veri. Nonché degli uomini veri.
Prima pubblicazione : 22 agosto 2008