Due giorni dopo l’operazione chiede che al letto vengano fissati degli elastici, per ricominciare a esercitare la gamba ed il braccio superstiti. E vuole un computer. Gli uomini non son bravi ad esternare i propri sentimenti, a parlare, a trovare conforto nella presenza di parenti e compagni d’arme. Più che conversare, Paul vuole leggere e documentarsi. Vuole capire come hanno fatto gli altri a vivere con le stesse mutilazioni.
C’è luce in fondo al tunnel. La prima gioia dopo tanto dolore. Allora ho un futuro! Potrò rifare le stesse cose. Magari un po’ più lentamente. Magari con un bel po’ di ferraglia addosso. Una frase australiana, la cui potenza espressiva è intraducibile, riassume il suo pensiero: it’s gonna be alright.
Sì. Attraverso il percorso di riabilitazione e idroterapia Paul fa progressi quotidiani. Tre mesi dopo l’incidente, stufo di piscine e gente che lo guarda come un miracolato, chiede e ottiene di tornare nel suo elemento. Spiaggia di Sydney, una nuotata nell’oceano. Non fa paura. Non più, e mai più, dopo quello che ha passato.
Uno alla volta, supera i piccoli e medi obiettivi che si pone. Sono le piccole cose, quelle a cui non pensiamo mai perché sono processi e maccanismi automatici, le più frustranti da affrontare. Come allacciarsi una scarpa. Scrivere con la sinistra. Guidare la macchina.
La negatività non fa parte del suo carattere. Paul si motiva con un pensiero costante e bellissimo: non lasciare che le cose che non puoi fare ti impediscano di fare quelle che puoi.
Per tornare ad essere se stesso ha bisogno di sentirsi libero. Libero da quel coacervo di medicinali che lo hanno aiutato, ma che ora offuscano la mente e disturbano il corpo: antidepressivi; antidolorifici; cicatrizzanti; ricostituenti. Basta con questi farmaci!
Ripulito dentro, è l’ora di tornare al lavoro. La Marina lo attende a braccia aperte. Sentire di avere un ruolo, il senso di appartenenza, motivare gli altri e dare un esempio riempiono la vita. Ma per una persona che si descrive, con straordinario senso dello humour, metà uomo e metà mountain-bike, non è facile accettare i limiti imposti dalla nuova condizione. Perfino i compagni d’arme, seppur per spirito di protezione, lo fanno sentire disabile, attento a questo, bada lì, quello è meglio di no. Insomma, più riunioni e chiacchierate in poltrona che operatività. Non è quello che voleva.
Positività e motivazioni vanno conquistati, non sono merce di facile disponibilità. Come molte altre vittime di attacchi di squali, Paul non porta dentro di sé rancore per l’animale che lo ha menomato. Anzi. Considera una grande fortuna aver potuto parlare a New York, alle Nazioni Unite, sostenendo una campagna per proteggere questo grande, primordiale predatore, alla vetta della catena alimentare. Cento milioni di squali vengono uccisi ogni anno per le loro pinne. Senza questa specie, gli equilibri del mare saranno compromessi per sempre. Ammirevole, per uno che a causa di un esemplare che ora sta difendendo ha dovuto affrontare un’odissea di sofferenza e patimenti.
Paul, dopo aver parlato per un’ora ad un auditorio ammutolito e affascinato, si accommiata con un breve video che racconta il suo percorso. Incluse le scene, confuse ma inequivocabili e drammatiche, dell’attacco, filmate dai suoi commilitoni sulla barca d’appoggio. E mentre scorrono queste immagini tremende, Paul chiude gli occhi, e chissà quali mille pensieri gli affollano la mente. Tutti riassunti in un motto: never give up. Mai rinunciare – a lottare, a fare cose, al proprio diritto ad avere una vita.
La musica sfuma. Applausi. Scende dal palco con un sorriso sincero, con quell’allegria contagiosa che solo un sopravvissuto sa trasmettere.
Lo incontro, gli parlo, ed è una bella persona, non solo sul palcoscenico ma anche nel colloquio diretto. Mi dice che è stato di recente in Italia, da vero aussie mi chiama mate, ma soprattutto mi offre la destra, quella artificiale, per una stretta di mano indimenticabile. I muscoli del braccio trasmettono impulsi all’arto bionico, che contrae le dita, oppone il pollice, impugna oggetti con una delicatezza e precisione insospettabili. C’è più calore umano in quella mano sintetica di tante in carne e ossa che ho stretto in vita mia.
Ho conosciuto una specie di robocop. Ma immediatamente simpatico e affabile come solo certi australiani sanno essere. E bello come un dio greco.