Ci sono giorni che sanciscono davvero la fine di qualcosa. Da vari anni il Pajo Vejo era chiuso, ma stamani all’alba l’edificio che lo ospitava, ormai mezzo espugnato da rovi e sterpaglie, è bruciato. Era diventato un rifugio di senzatetto e a marzo la notte fa ancora freddo. Si fa presto, cercando di scaldarsi alla meglio, a dar fuoco a pagliericci e a povere masserizie facilmente combustibili.
Ci volevano le fiamme per cancellare il vuoto simulacro – ma pieno di ricordi – di un ristorante tra i miei prediletti a Cuneo negli ultimi trent’anni.
Era uno di quei locali dove il menu non cambiava granchè. Ma ti offriva con prodigalità quelle rassicuranti certezze, quei sapori casalinghi – era gestito dai Balestra, e l’intero nucleo familiare lavorava lì – che magari si ripetevano ma non deludevano mai.
Con gli anni ero divenuto un cliente affezionato. Ricordo la figlia, Monica, che agli inizi degli anni ottanta arrivava da scuola sul suo vespino all’una in punto, giusto il tempo di parcheggiare e passava subito all’azione, cassa o sala, a seconda di dove servisse il suo impegno. Il figlio Davide col tempo affiancò il papà e la mamma in cucina, per reiterare quei piatti della tradizione che attiravano clienti fin dalla riviera francese, specie il martedì, giorno di mercato. Non ho mai saputo i nomi dei genitori, ma li salutavo sempre ed ero ricambiato con inalterabile cordialità.
Ricordo, pinzata alla meglio su un muro, una foto mezza stinta di Alberto di Monaco, allora giovane principe ereditario, che evidentemente si era fatto sedurre da quei vassoi di funghi porcini che in stagione formavano il cuore della cucina, crudi affettati o trifolati, con i tajarin rigorosamente in bianco o meravigliosamente fritti di fresco, in un tripudio di profumi e di sapori.
Ricordo Ermanno, lo storico cameriere del locale, che sempre recitava come una dolce filastrocca la serie dei nomi degli antipasti, a mano a mano che arrivava al tavolo con la guantiera colma di bontà genuine. La carne cruda, che nel cuneese non può mancare, il manzo coi finocchi affettati, il vitello tonnato, il vol-au-vent con la fonduta fragrante di tartufo, le salsicce calde coi funghi, il flan di porri, e chi si ricorda più tutti gli altri, freddi o caldi che fossero. So solo che non ne mancavo mai uno.
Ricordo la delusione ed il rammarico del giorno in cui scoprii che il ristorante non era chiuso per ferie, ma per sempre. I muri non erano della famiglia, i costi dell’affitto erano lievitati e – forse a malincuore, certo lasciando un vuoto sia nel cuore che nello stomaco di molti clienti – i Balestra chiusero per l’ultima volta la catena del cancello.
Ora il fuoco ha completato l’opera. Per questo mi è affiorata di getto la voglia di raccontare di questo luogo di ghiottonerie ormai defunto. Perché se tra qualche tempo non resteranno nemmeno quelle quattro mura bruciacchiate a ricordarci di quando la famiglia Balestra sfamava e deliziava torme di viandanti golosi, almeno rimarrà questo mio pensiero. E la gratitudine per averci così a lungo appagato le papille gustative, con la semplicità e l’amore per il mestiere dell’onesto vivandiere.
Meglio tardi che mai: grazie, famiglia Balestra.