Fèrmati per andare avanti. È il motto dell’Eremo del Silenzio.
E pensare che pochi mesi fa, all’arrivo a Perth, avevo sorriso, vedendo, proprio all’uscita dall’aeroporto, la pubblicità dalla vecchia galera di Fremantle. Che, con squisito senso dello humour australiano, recitava: dando il benvenuto ai visitatori da centocinquanta anni. Il nuovissimo mondo. Talmente recente da non avere nient’altro di più antico o di più rimarchevole da visitare. Che idea bizzarra, vero, visitare una prigione?
Invece, una domenica di maggio, mi capita di passare davanti alle Nuove, a Torino. Fin da ragazzo ricordo di aver osservato quei muri in mattone pieno con un senso di inquietudine e di curiosità insieme. Curiosità di sapere che mondo ci fosse dietro quella recinzione, dietro quelle sbarre, attraverso le quali ogni tanto capitava di vedere un detenuto comunicare con qualche parente – prima degli anni di piombo, che porteranno misure più severe e ancor più spinto isolamento dal mondo esterno. Inquietudine per quel senso di ovvia pericolosità del luogo, dell’ambiente, il pensiero teso all’auspicio di non dover mai, neppure per errore, trovarsi a dover frequentare da ospite tale luogo di pena ed espiazione.
E la curiosità mi ha sopraffatto, quando ho trovato un nuovo varco laterale spalancato di recente nel muraglione. Impossibile resistere. Bastano pochi, timidi passi, ed eccomi dentro al perimetro del carcere. Una signora mi chiede: vuole visitare il Museo delle Nuove? Forse, dico, ma mento. Certo che voglio. La seconda e la quarta domenica del mese ci sono visite guidate, alle nove di mattina. Unico viandante mattiniero, ho la fortuna e il privilegio di avere una guida tutta per me. Michele, volontario, mi accompagna attraverso un percorso di oltre un’ora. Attraverso il camminamento interno, recintato dalle due cinte murarie, si entra nella struttura. Non prima di aver reso un omaggio ad una teoria di fotografie d’epoca, ritratti seri, fieri, volti non sconfitti, vittime delle rappresaglie naziste in tempo di guerra. Persone che oggi si ritrovano nella toponomastica di Torino. Il generale Perotti, Massimo Montano, Paolo Braccini, Eusebio Giambone, Ignazio Vian, Emanuele Artom. E tanti altri sconosciuti combattenti morti per darci un’Italia migliore. Chissà se lo rifarebbero, vedendo l’odierno stato miserevole della nostra penisola.
Michele alterna interessanti notizie storiche e architettoniche con le vicende di umili eroi, come suor Giuseppina, che salvò uomini, donne e bambini, in tempo di guerra. Come padre Ruggero, cappellano carcerario, cinquant’anni tondi passati lì dentro, dalla guerra alla seconda repubblica.
E poi ci sono le odissee di ignoti reclusi, raccontate dai graffiti incisi sui muri delle celle. Disegni, incerte parole in dialetto, ma anche le ultime lettere dei partigiani condannati, piene della loro straziante certezza di morire, pur confortata dalla serena fierezza di aver lottato per un mondo migliore, che lasciavano in eredità a mogli, figli, parenti.
Fra tutte queste testimonianze scarabocchiate da animi angosciati, c’è chi, nella sezione femminile, è stata capace di sintesi massima, mentre esternava cosa si prova a stare in cella: qui si fa solo strage di sogni.
Michele mi chiede, alla fine, di far conoscere il loro oscuro lavoro di volontari, retribuito solo dall’apprezzamento e dalla riconoscenza dei visitatori. E di lasciare due parole sul registro. Faccio entrambe le cose molto volentieri. Ci sono esperienze che vale la pena fare, nella vita. Come questo viaggio attraverso un luogo opprimente, ancora grondante dolore e echeggiante grida e lamenti di sofferenze passate. Per capire il valore della parola libertà, spiegata nell’ambiente in cui è costretto a vivere – e spesso a morire – chi la libertà l’ha persa. Giusta o sbagliata che sia la ragione per cui si son trovati lì.
Sono di nuovo fuori da quelle mura alte e scure. Respiro a pieni polmoni l’aria tersa e fresca. Il sole non mi è mai sembrato così caldo e scintillante.