Nuova categoria negli argomenti classificatori del mio blog. Criptica sigla derivata dall’inglese, lingua principe della sintesi. Blog to blog. In pratica, da un blog all’altro. Spinto dalla non imminente – ma quasi certa – perdita del mio vecchio e romanticamente amato contenitore de La Stampa, ho deciso di riproporre, sotto questa famiglia, racconti che mi era piaciuto scrivere, e che vorrei continuare a condividere con gli amici di passaggio qui.
Oggi, sedici agosto, è il giorno del Palio dell’Assunta. Riecco la cronaca – differita di due anni – della sfida di Siena.
Mission impossible
Cercare di far capire ad una persona non senese, non italiana, e neppure europea, che cosa è davvero il Palio di Siena.
Per me è una specie di rito dionisiaco. Se sono in Italia (ed una volta riuscii perfino a Pechino) devo cibarmi, due volte l’anno, di una gara tra le più illogiche, scorrette, irrazionali che esistano al mondo, compresa l’ora e passa di ansia che la precede. Forse, in quanto a mancanza di razionalità, la corsa dei tori di Pamplona la batte. Ma in Italia è unica, nonostante un fiorire di palii, tornei, giostre cavalleresche e manifestazioni similari. Quelle due date, due di luglio e sedici d’agosto, le segno sul calendario per paura di dimenticarmele.
Bisogna partire da un presupposto fondamentale. Il Palio, contrariamente a quanto dicono le apparenze, non è una corsa di cavalli. È una delle maniere di sublimare l’italianissimo campanilismo, nutrito da delle rivalità che possono sfociare in autentiche inimicizie quando non odii. Esso si manifesta a tutti i livelli: tra nord e sud, tra regione e regione, tra provincia e provincia della stessa regione, ed in calando, tra paesello e paesello, per arrivare finalmente allo spirito della corsa di Siena. Diciassette contrade (di una città che fa a malapena cinquantamila abitanti) che riproducono, nel loro microcosmo, quello che in grande è l’Italia. Con le loro alleanze, le contrade amiche, e l’irriducibile antagonismo verso i perenni rioni nemici. Se non si vince – o non si partecipa, stante il meccanismo di selezione delle dieci contrade che corrono ogni palio – il secondo obiettivo, altrettanto sadicamente godereccio, è che il nemico perda. Molto italiano. Io non ho vinto, ma tu hai perso.
Non so come convincere una persona asiatica, abituata alla logica ed alla razionalità, beneducata all’ordine costituito ed al rispetto delle regole, cresciuta nel credo della lealtà e dell’onestà e della correttezza, che l’essenza, l’anima stessa della corsa senese è nella furbizia, nella soperchieria, nell’accordarsi prezzolato tra fantini per danneggiare un nemico comune, nel cercare di ottenere il massimo vantaggio facendo innervosire i cavalli avversari, nell’essere sordi al pubblico che rumoreggia spazientito, perché tutto quel che conta è vincere, e al diavolo tutto il resto!
E che sarebbe snaturare l'antiquata sacralità della corsa, se i cavalli fossero ordinatamente schierati in una tecnologica gabbia, come negli ippodromi di galoppo, e poi oplà, via tutti insieme all’apertura degli cancelli, e non l’incertissimo ondeggiare di nove cavalli tra due canapi tesi a fatica da quattro uomini che governano, come vecchi marinai, un verricello degno di un ponte levatoio medievale. È vero, si risparmierebbe anche quella mezzora di manfrine, girotondi, cavalli che travolgono il canape e pastette in diretta televisiva, ma l’attesa e la crescente trepidazione fanno parte dello spirito della corsa, come quel suo senso di arcaico, di manuale, di immutabile. Di tradizionale. Ed in fondo è quello che il pubblico vuole e si aspetta dai preparativi, due false partenze ed un paio di chiamate fuori dai canapi per manifesta incapacità di tenere la sequenza giusta, il fantino dell’Aquila che intraversa il cavallo sul varco per impedire al Drago di entrare di rincorsa, la Torre e l’Oca che si scambiano sgarberie mentre la Pantera guarda di sottecchi l’odiata Aquila, il mossiere che si sgola per metter ordine in quella bolgia di stinchi fasciati, di nerbi di bue agitati minacciosamente, di redini tese e di froge dilatate dal nervosismo...
Non si spiega tutto questo. Solo un senese, o forse solo un toscano riesce a trovare bello, avvincente, entusiasmante aspettare un’ora vedendo quel marasma di zampe, dorsi sudati e bocche ammorsate schumanti bava, di fantini che contrattano e bisbigliano e si guardano torvi mentre cercano di tenersi in equilibrio su quella bestia priva di sella che dovranno portare all’unico obiettivo possibile, il primo posto.
Non conta nient’altro nel Palio di Siena. Chi arriva secondo non si ricorda nemmeno. Vale meno che zero, secondo o ultimo è lo stesso. Quello che conta è mettere il muso del proprio cavallo davanti a tutti gli altri. Le regole delle normali corse negli ippodromi son tutte ribaltate. Se il fantino cade, il cavallo scosso, da solo, non solo non viene squalificato, ma può perfino vincere il Palio, ed a volte è successo davvero.
E cosa spinge tutta quella moltitudine compressa all’interno del Campo a starsene lì ad ore, sotto un sole canicolare, a farsi calcinare le cervella per un minuto scarso di violenta, isterica emozione? Impossibile trovare delle motivazioni razionali. Certo, il Palio si vede meglio, molto meglio in televisione. Ma vuoi mettere, per un vero contradaiolo, essere lì, in prima fila, sentire l’odore delle bestie accaldate e il rumore sordo degli zoccoli sul tufo e – gioia suprema – vedere il proprio cavallo vincere? Poter scavalcare le barriere e correre in pista mentre i cavalli stanno ancora arrivando, a rischio di farsi travolgere da qualche animale, pur di poter abbracciare il proprio campione a quattro zampe tutto sudato e irrequieto, pur di poter disarcionare e spogliare il fantino che lo ha portato alla vittoria, e poi tutti insieme portare in un trionfo seminudo chi ha contribuito alla gloria della contrada per l’anno a venire?
Ogni volta che guardo un Palio, sono in uno stato di eccitazione e apprensione nello stesso tempo. Che sia bello, che sia combattuto, ma che non sia cruento. Che nessun cavallo, povera bestia, si faccia male, si sa che fine fanno i cavalli dalle zampe spezzate. Che nessun fantino finisca ribaltato malamente, calpestato dagli zoccoli, schiantato contro le deboli protezioni del Casato. Il campo di gara in sé è espressione massima di illogicità. Un corto rettilineo, due curve a gomito, una in salita, l’altra in discesa, raccordate da un ampio curvone. Trecento e pochi metri da percorrere tre volte a rotta di collo. Dei materassi foderano i bordi, all’uscita dalle due curve, e spesse volte i concorrenti ci rimbalzano contro. Con un po’ di fortuna si rimettono in carriera, e continuano la loro sfuriata verso quel traguardo annunciato dall’esplosione di un petardo. A volte ci si fanno male, e seriamente.
Questa volta è stato un bel Palio. Anzi bellissimo. L’unico brivido, lo scivolone della cavalla del Drago, il fantino che ruzzola sul tufo, e poi quella disperata rincorsa della bigia giumenta che, libera dal peso dell’uomo, cerca di superare gli avversari. Ma non ce la fa, due giri senza guida sono troppi, la scarica lievità non basta a vincere la malizia degli altri fantini, che la costringono a traiettorie larghe, faticose, impossibili da tenere senza perder metri. Al terzo giro si conclude la battaglia in testa tra l’Oca e il Bruco, con un sorpasso all’interno degno di una formula uno. Il morello del Bruco vola solitario verso il traguardo, lo supera in scioltezza, bum, il botto annuncia la fine della corsa e l’inizio delle selvagge celebrazioni. Invasione di campo.
Come faccio a spiegare ad una persona di Singapore che la gente piange davvero, e sono lacrime di gioia, che gli abbracci a Giuseppe Zedde detto Gingillo ed i baci al cavallo sono veri, che quei pazzi che si stanno arrampicando su un palazzo vogliono solo raggiungere un drappo che è la loro agognata e sofferta conquista, e che non ha nessun valore materiale ma per loro ne ha – ed incommensurabile – morale? Non si può. Semplicemente non si può. Bisogna essere nati lì, per capirlo. Perché queste non son cose che si spiegano. Si provano, e basta.
Prima pubblicazione : 19 agosto 2008