A distanza di quattro mesi dal sisma, rieccomi in Giappone. Si parla sottovoce e malvolentieri di Fukushima. Ho qualche giorno per provocare, e stimolare la voglia di raccontare dei locali. Nel frattempo voglio rispolverare un vecchio racconto. È un mio obbligo morale nei confronti di due onesti lavoratori dell’aria che non ci sono più. Ricordiamoli. Perché lassù, mentre scrivo, mentre leggete, è pieno di questi
Camionisti del cielo
Chi si ricorderà di Kevin e Anthony tra pochi giorni? Altri due piloti morti nell’adempimento del loro oscuro dovere.
Per spirito corporativo sono particolarmente sensibile alle disavventure degli aeroplani. E mi inquieta sempre il sapere che, mentre io sono per aria o sono appena atterrato o mi accingo a prendere un volo, da qualche parte del mondo, come spesso ci informano con un delicato eufemismo, un aereo si è appena schiantato al suolo. Questa stessa sensazione di inquietudine, di trepidazione, di inane partecipazione l’ho provata a Caselle alcuni anni fa, quando, essendo pronto all’imbarco, si sono diffuse le prime, frammentarie ma già luttuose notizie del Concorde caduto a Parigi, fatto che ha decretato la morte commerciale di quell’incongruenza aeronautica, anacronistica, in tempi di necessari risparmi energetici, come una spensierata cicala che prediligeva la velocità all’efficienza.
Mi è successo di nuovo ieri. Atterro ignaro e tranquillo a Shanghai e scopro che a Narita, l’internazionale di Tokyo, era appena andato distrutto un MD11 cargo. Dettato dalle agenzie quasi con sollievo, come se la vita di quei due piloti valesse – o costasse, che tutto ha un prezzo – di meno rispetto a quella di un carico di vacanzieri in bermuda e infradito o di affaristi col computer sempre acceso e il telefonino che non è più uno strumento ma una droga.
Mentre osservavo le riprese di quel tragico atterraggio finito male ed ascoltavo un esperto discettare sulle potenziali cause, snocciolando un’inquetante antologia di passati episodi in cui lo stesso aeromobile aveva dimostrato, in condizioni specifiche di vento forte, un comportamento allegro (il termine tecnico è stabilità rilassata, e
non promette niente di buono) in fase di atterraggio, al punto da avere già una interessante casistica di aerei di quel tipo finiti come questo a ruote all’aria – spesso con morti e feriti – mi è venuto da riflettere sulla vita di chi li pilota.
Solitudine e noia, lunghe ore passate ai comandi, senza il conforto di una parola o un caffè recato da una hostess premurosa, partenze nelle ore strane, usando i buchi lasciati liberi dal traffico passeggeri. Ecco la vita dei piloti degli aerei da trasporto merci. I camionisti del cielo.
Chi li vede mai, i piloti dei cargo? Il comandante del volo passeggeri arriva, circondato dal suo staff, fa il briefing pre-volo, sorride sicuro di sé o scherza col vice, spesso è bello, abbronzato, veste l’uniforme con nonchalance, il cappello spiritosamente sulle ventitrè, gli occhiali da sole sempre all’ultima moda, le numerose strisce di senape sulla manica della giacca blu sono galloni che celebrano il cospicuo numero di ore di volo sul suo libretto, ispirando fiducia e sicurezza anche nei più intimoriti e novizi, tra le greggi che si accingono ad imbarcare. È l’uomo forte, l’uomo che non deve chiedere mai, l’uomo che vince la gravità e contro ogni logica fa sollevare e sa poi riportare a terra – dolcemente e in un pezzo solo – quel gigantesco ammasso di ferraglia ripieno di carne umana.
I piloti dei cargo non hanno un pubblico pagante che li ammira sfilare. I loro aerei sono lontani, in qualche sezione poco in vista dell’aeroporto, quasi ci si vergognasse a mostrarli, così spartani e poco eleganti, nudi di finestrini e di allegre livree. Aerei di rude sostanza, non frivoli apparecchi multicolori per atterraggi in famose località turistiche dalle spiagge semideserte e dal mare cristallino.
Come il pullman granturismo sta al camion a rimorchio, come l’elettrotreno superveloce da satrapi confindustriali sta all’onesto ed infinito treno merci sferragliante nella notte, così l’aereo di linea sta al negletto cargo.
Talvolta, in attesa del decollo, accodati come una teoria di pachidermi, i cugini ricchi sfilano davanti all’area mercantile, dove i buoni giganti addormentati attendono, una volta che la loro capace pancia sia stata riempita di merci, l’arrivo di un paio di uomini che li condurranno ancora una volta dall’altra parte del mondo. Sembra quasi di avvertire lo sguardo di commiserazione che i tronfi e scintillanti velivoli rivolgono ai parenti poveri, privi di luci, di cinema e giochi, di sedili briciolosi di cibo, di bagni puzzolenti di deodorante sempre troppo forte, di carrelli spigolosi e di bevande inebrianti, di riviste patinate e di salviette umidificate, di gente che si alza tutta insieme per assaltare i martoriati cessi dopo la distribuzione del rancio e pianti di bambini che iniziano prima del decollo che c’è sempre chi organizza giri di scommesse clandestine per stabilire quante ore dureranno...
Tutto questo bailamme, sui voli cargo non c’è. Ci sono solo degli uomini che fanno il loro dignitoso mestiere, senza mai aspettarsi luci della ribalta, applausi a fine volo, donne che si girano ammirate alla loro maestosa apparizione.
Per questo oggi voglio ricordare Kevin Kyle Mosley e Anthony Stephen Pino. Perché forse questi due cinquantenni sono dovuti morire per essere, per un attimo, conosciuti e riconosciuti dal mondo. Perché loro sono gli ultimi due di una lista infinita di morti sul lavoro. E cadere da un’impalcatura, soffocare in una miniera allagata o invasa dal micidiale grisou, restare sotto una pressa o essere ghermito dagli ingranaggi di un macchinario, o morire in un aereo capovolto e semibruciato, non fa quella gran differenza di risultato. Sono tutte vittime evitabili della corsa al profitto e della disattenzione alla sicurezza. E non mi si venga a parlare di errore umano. Troppo comodo, quando Kevin e Anthony sono morti e non possono più replicare.
Prima pubblicazione : 24 marzo 2009