sabato 30 luglio 2011

Cicale in città

Non so se siano un piacevole sintomo di una città non inquinata. So solo che da noi quel lontano, alto frinire di cicale si ode solo lassù, tra le fronde degli allampanati pini mediterranei, e mai è dato vedere il rumoroso insetto all’opera, mentre modula la sua melodia stridula. Vi è mai capitato di vederne una da presso, a tu per tu? A me, finora, no.

Invece in Giappone le cicale le trovi sugli alberelli nani che costeggiano le vie cittadine, e se segui quel suono – che da vicino quasi trapana i timpani – riesci a scovarne l’origine ed ammirare quella minuscola, chiassosa meraviglia della natura in azione. Vibra tutta mentre emette la sua voce addominale. La pancia ondeggia, variando la tonalità, come una fisarmonica abilmente manovrata da un mastro di Castelfidardo.

Ma d’improvviso sembra innervosita da questa inopportuna presenza, il suo gracidio si fa inquieto, quasi arrabbiato. Percepisce di essere spiata. E nel regno animale esser spiati non è mai presagio di eventi buoni. Dopo pochi istanti, appena il tempo di ritrarla, smette di cantare, fulminea dispiega le ali e migra su un altro albero, lasciando nell’aria la scia di un distinguibile ronzio.

La Fontaine ne ha fatto il simbolo della superficiale imprevidenza. Credo che, con quelle ali venate, le zampe acquattate, i grandi occhi neri protrudenti dalla testa, e quel corpo inquietante, massiccio e flessuoso insieme, potrebbe fornire ispirazione ai creatori di mostri antropomorfi di certi film horror.

La cicala: non bella, ma affascinante. Come molti piccoli prodigi della natura.


venerdì 29 luglio 2011

Sussurri e grida – 2

Disagi giapponesi. Piccole riflessioni di viaggio maturate in un giorno di cattiva forma fisica.

Se hai mal di testa, evita i ristoranti di sushi: i cuochi non stanno in cucina ma dietro al bancone, direttamente in faccia ai commensali, che possono ammirare in diretta l’abile preparazione dei tocchetti di pesce crudo. Ma detti chefs hanno la peculiare abitudine di urlare un saluto – a squarciagola e all’unisono – ogniqualvolta un cliente si presenta all’ingresso, oppure si alza per accommiatarsi, o semplicemente viene fatto un ordine che propizi una corale strillata. È sorprendente il numero di decibel che un sushi master riesce a tirar fuori dai polmoni. Sentirti urlare nelle orecchie dai sullodati personaggi è divertente e folcloristico per cinque minuti. Molto meno se hai un principio di emicrania.

Se, dimentico del fatto di non avere più vent’anni, ti sei procurato una contrattura alla schiena, sollevando inopinatamente e a freddo un bagaglio pesante come una torpediniera, farai improvvisamente – e con gran pena – caso a quanto tutto sia dannatamente basso nelle camere d’albergo giapponesi: le sedie; la scrivania; il lavandino; il getto della doccia; perfino il letto. Ogni pezzo d’arredo è almeno quindici centimetri più corto dei corrispondenti nostri. Non la ricetta ideale per chi non riesce nemmeno a girare un braccio senza provare una fitta nella zona lombare che sembra ti abbiano dato una scossa elettrica con un taser. Si riscopre così l’utile funzione suppletiva delle ginocchia, per variare il livello di lavoro del corpo. Sembrerò un ballerino in pensione, farò anche sorridere i giapponesi che mi osservano andare su e giù sulle articolazioni, rigido di schiena come un baccalà, ma ecco la maniera per sopravvivere – a Osaka – ad un colpo della strega.

Sempre a proposito di camere d’albergo. Ma perché i giapponesi amano complicare la vita della gente anche nei dettagli? Per aprire la porta, la chiave va girata verso lo stipite. Come facciamo di solito noi per chiuderla. Così, per la forza dell’abitudine di gesti automatici che ripeti senza neppure più collegare il cervello, ti trovi a trafficare con la chiave, spingendo una porta che si rifiuta ostinatamente di aprirsi. Finchè ti ricordi che devi girare dall’altra parte e finalmente la porta si arrende, investita dai tuoi improperi mormorati all’indirizzo degli inventori di tale illogica estrosità.

Una buona parola va però spesa per gli alberghi giapponesi. A parte la quasi innaturale gentilezza del personale, che si perde in profondi inchini e in convolute e cerimoniali formule di saluto ogni volta che ti incrocia, nelle aree comuni – ascensori, corridoi, la hall d’ingresso – c’è sempre un piacevole e rilassante sottofondo di musica classica. Dolci quartetti d’archi e delicate sonate di pianoforte, mai orchestre al gran completo, mai percussioni. Solo un sussurro di Chopin o di Vivaldi ti accompagna mentre ti muovi in mezzo a gente che mette alla prova le due parole d’inglese che sa per presentarsi, o mentre in ascensore sali al piano insieme con una signora che ti squadra come se fossi un alieno, poi ti chiede da che parte della galassia tu provenga, e quando glielo dici le esplode un sorriso sulla faccia spigolosa e intona trionfalmente Siamo solo noi. Maledetta globalizzazione. Fino a qui è arrivato Vasco Rossi.

mercoledì 27 luglio 2011

Sussurri e grida - 1

A distanza di quattro mesi dal sisma, rieccomi in Giappone. Si parla sottovoce e malvolentieri di Fukushima. Ho qualche giorno per provocare, e stimolare la voglia di raccontare dei locali. Nel frattempo voglio rispolverare un vecchio racconto. È un mio obbligo morale nei confronti di due onesti lavoratori dell’aria che non ci sono più. Ricordiamoli. Perché lassù, mentre scrivo, mentre leggete, è pieno di questi

Camionisti del cielo

Chi si ricorderà di Kevin e Anthony tra pochi giorni? Altri due piloti morti nell’adempimento del loro oscuro dovere.

Per spirito corporativo sono particolarmente sensibile alle disavventure degli aeroplani. E mi inquieta sempre il sapere che, mentre io sono per aria o sono appena atterrato o mi accingo a prendere un volo, da qualche parte del mondo, come spesso ci informano con un delicato eufemismo, un aereo si è appena schiantato al suolo. Questa stessa sensazione di inquietudine, di trepidazione, di inane partecipazione l’ho provata a Caselle alcuni anni fa, quando, essendo pronto all’imbarco, si sono diffuse le prime, frammentarie ma già luttuose notizie del Concorde caduto a Parigi, fatto che ha decretato la morte commerciale di quell’incongruenza aeronautica, anacronistica, in tempi di necessari risparmi energetici, come una spensierata cicala che prediligeva la velocità all’efficienza.

Mi è successo di nuovo ieri. Atterro ignaro e tranquillo a Shanghai e scopro che a Narita, l’internazionale di Tokyo, era appena andato distrutto un MD11 cargo. Dettato dalle agenzie quasi con sollievo, come se la vita di quei due piloti valesse – o costasse, che tutto ha un prezzo – di meno rispetto a quella di un carico di vacanzieri in bermuda e infradito o di affaristi col computer sempre acceso e il telefonino che non è più uno strumento ma una droga.

Mentre osservavo le riprese di quel tragico atterraggio finito male ed ascoltavo un esperto discettare sulle potenziali cause, snocciolando un’inquetante antologia di passati episodi in cui lo stesso aeromobile aveva dimostrato, in condizioni specifiche di vento forte, un comportamento allegro (il termine tecnico è stabilità rilassata, e
non promette niente di buono) in fase di atterraggio, al punto da avere già una interessante casistica di aerei di quel tipo finiti come questo a ruote all’aria – spesso con morti e feriti – mi è venuto da riflettere sulla vita di chi li pilota.

Solitudine e noia, lunghe ore passate ai comandi, senza il conforto di una parola o un caffè recato da una hostess premurosa, partenze nelle ore strane, usando i buchi lasciati liberi dal traffico passeggeri. Ecco la vita dei piloti degli aerei da trasporto merci. I camionisti del cielo.

Chi li vede mai, i piloti dei cargo? Il comandante del volo passeggeri arriva, circondato dal suo staff, fa il briefing pre-volo, sorride sicuro di sé o scherza col vice, spesso è bello, abbronzato, veste l’uniforme con nonchalance, il cappello spiritosamente sulle ventitrè, gli occhiali da sole sempre all’ultima moda, le numerose strisce di senape sulla manica della giacca blu sono galloni che celebrano il cospicuo numero di ore di volo sul suo libretto, ispirando fiducia e sicurezza anche nei più intimoriti e novizi, tra le greggi che si accingono ad imbarcare. È l’uomo forte, l’uomo che non deve chiedere mai, l’uomo che vince la gravità e contro ogni logica fa sollevare e sa poi riportare a terra – dolcemente e in un pezzo solo – quel gigantesco ammasso di ferraglia ripieno di carne umana.

I piloti dei cargo non hanno un pubblico pagante che li ammira sfilare. I loro aerei sono lontani, in qualche sezione poco in vista dell’aeroporto, quasi ci si vergognasse a mostrarli, così spartani e poco eleganti, nudi di finestrini e di allegre livree. Aerei di rude sostanza, non frivoli apparecchi multicolori per atterraggi in famose località turistiche dalle spiagge semideserte e dal mare cristallino.

Come il pullman granturismo sta al camion a rimorchio, come l’elettrotreno superveloce da satrapi confindustriali sta all’onesto ed infinito treno merci sferragliante nella notte, così l’aereo di linea sta al negletto cargo.

Talvolta, in attesa del decollo, accodati come una teoria di pachidermi, i cugini ricchi sfilano davanti all’area mercantile, dove i buoni giganti addormentati attendono, una volta che la loro capace pancia sia stata riempita di merci, l’arrivo di un paio di uomini che li condurranno ancora una volta dall’altra parte del mondo. Sembra quasi di avvertire lo sguardo di commiserazione che i tronfi e scintillanti velivoli rivolgono ai parenti poveri, privi di luci, di cinema e giochi, di sedili briciolosi di cibo, di bagni puzzolenti di deodorante sempre troppo forte, di carrelli spigolosi e di bevande inebrianti, di riviste patinate e di salviette umidificate, di gente che si alza tutta insieme per assaltare i martoriati cessi dopo la distribuzione del rancio e pianti di bambini che iniziano prima del decollo che c’è sempre chi organizza giri di scommesse clandestine per stabilire quante ore dureranno...

Tutto questo bailamme, sui voli cargo non c’è. Ci sono solo degli uomini che fanno il loro dignitoso mestiere, senza mai aspettarsi luci della ribalta, applausi a fine volo, donne che si girano ammirate alla loro maestosa apparizione.

Per questo oggi voglio ricordare Kevin Kyle Mosley e Anthony Stephen Pino. Perché forse questi due cinquantenni sono dovuti morire per essere, per un attimo, conosciuti e riconosciuti dal mondo. Perché loro sono gli ultimi due di una lista infinita di morti sul lavoro. E cadere da un’impalcatura, soffocare in una miniera allagata o invasa dal micidiale grisou, restare sotto una pressa o essere ghermito dagli ingranaggi di un macchinario, o morire in un aereo capovolto e semibruciato, non fa quella gran differenza di risultato. Sono tutte vittime evitabili della corsa al profitto e della disattenzione alla sicurezza. E non mi si venga a parlare di errore umano. Troppo comodo, quando Kevin e Anthony sono morti e non possono più replicare.

Prima pubblicazione : 24 marzo 2009

domenica 24 luglio 2011

Madonna come camminano

Cadel Evans: il primo australiano a vincere il Tour de France. Tre anni fa l’ho visto passare in maglia gialla sulle nostre strade, quando la carovana è transitata per Cuneo. Per celebrare questa vittoria dello sport di Down Under, ripropongo il racconto scritto allora.

Madonna come camminano

L’attesa, la trepidazione, l’impegno per cercare il punto giusto in mezzo a una folla accaldata che tutto occupa e tutto invade, nonostante le sporadiche raccomandazioni di qualche volonteroso addetto con giubba catarifrangente. Il tempo passato ad immaginarsi l’inquadratura giusta, l’angolo ideale, privo di teste, di mani, di giornali che ti impediscono la vista e lo scatto. Il risultato di tutto questo si concentra in quel baleno multicolore.

Arriva qualcosa. Moto con le sirene che guaiscono. Un paio di macchine. Altre moto, più nervose, con ammonitori fari accesi. Sale la tensione, la gente si sporge sulla strada. Rumoreggia. Come una ola che corre lungo il percorso. Ed infine, all’imbocco della salita, quattro fuggitivi che si agitano sui pedali. Il tempo di respirare, di imbracciare lo strumento, ripassando mentalmente se le regolazioni sono tutte a posto, il dubbio dell’ultimo istante che ti assale sempre quando maneggi queste malefiche diavolerie elettroniche, è accesa?, sono sul programma giusto?, la batteria reggerà la raffica di scatti?, e poi, pronti via, eccoli qui, clic clic clic clic clic sono già passati, sono già chissà dove, urla applausi incitamenti bambini sulle spalle dei genitori che imitano l’entusiasmo dei padri.

Lo sai che sono professionisti, è il Tour de France, mica la pedalata della parrocchia. Lo sai che è la loro vita macinare chilometri su chilometri con il sedere sul sellino di quella navicella spaziale che è diventata la bicicletta da corsa. Lo sai che ci vuole del coraggio a buttarsi giù a novanta all’ora da certe discese, salvaguardati da un caschetto che ti dà la stessa idea di protezione di un guscio d’uovo. Lo sai che ci vogliono delle gran gambe per il colle dell’Agnello che ti toglie il fiato solo a guardarlo sulla mappa.

Ma non sei mai preparato a vedere questi quattro proiettili che ti arrivano addosso in un batter d’occhio. In salita. Dopo centocinquanta chilometri di montagne. Ditemelo, dove diavolo lo avete nascosto il motore? Swoooooosh. Un silenzioso refolo di vento tecnologico ed è tutto finito. Un tifoso accanto a me ha la faccia stupefatta. Mi guarda e fa: Madonna come camminano.


Prima pubblicazione : 20 luglio 2008

sabato 23 luglio 2011

Berlusconeide

I commercianti, sempre sensibili a mode e filoni atti ad incrementare il volume d’affari, hanno fiutato una miniera d’oro nelle avventure boccaccesche del miglior politico degli ultimi 150 anni.

Nel regno d’Albione e nel piccolo principato da favola esentasse si vende ogni sorta di orpello raffigurante le nozze delle teste coronate, presenti e a venire? Tranquilli. Da noi, in mancanza di sponsali d’alto lignaggio, sono diventate ispirazione per spicciolo mercimonio le festicciole piccanti a base di olgettine e prosseneti per hobby, non certo per necessità.

L’ultima scoperta in ordine di tempo rientra di diritto nell'ampia categoria del Mai più Senza. Ammirata in un negozio di Firenze, ma certamente di diffusione nazionale. Alla vista di cotanta opera d’ingegno e di fantasia, non sono riuscito a trattenere alcune esternazioni ad alta voce. Poi mi sono accorto di un casuale osservatore della stessa vetrina, che parlava con la moglie – per fortuna – in spagnolo. E mi son consolato, pensando che forse loro non sanno, né gliene cale, chi sia Ruby, sebbene Silvio sia nome inequivocabile urbi et orbi.

Quasi centomila lire del vecchio conio son la mercede necessaria per finalmente sfoggiare a casa propria la coppia di macchinine, vezzosamente in celeste e rosa. Altro che tamarreide: questa è berlusconeide bella e buona. E non so cosa sia peggio.

mercoledì 20 luglio 2011

lunedì 18 luglio 2011

Botteghe oscure 2

Non sempre la delazione è cosa cattiva. Talora è arma necessaria a difendersi da certe insegne nocive. Ma nella pineta di Viareggio odorosa di resina un’incognita aleggia nell’aria. Si tratta di brillante e sapidissima presa in giro di recenti malcostumi d’Italia? Oppure, al contrario, è solo un dozzinale atto di piaggeria, una laida strizzata d’occhio ad avventori senza speranza alla ricerca di fanciulle che ben altri locali frequentano, piuttosto che quel modesto baracchino da crodini proletari per aperitivo, accompagnati da patatine di sottomarca?

Si sente il bisogno – e impellente – di una specie di comitato morale che approvi o bocci irrefutabilmente certe proposte per nomi di botteghe. Si suppone che il padrone di tale locale abbia sottoposto l’applicazione in qualche ufficio pubblico. Buongiorno, vorrei registrare il mio bar. Bene. Come lo vuole chiamare? Bunga bunga bar. No, guardi, carnevale è ancora lontano, siamo di luglio, per gli scherzi ripassi a febbraio. E nel frattempo gli trovi un nome più decente.

Perché proprio non ci fa bene, mentre ci apprestiamo al frugale rito dionisiaco dell’aperitivo preserale, insaporito da guantiere piene di olive piccanti e pizzette avanzate da colazioni non consumate, che ci vengano rammentati, anche visivamente, gli squallori di questa nostra povera Italia puttana.

domenica 17 luglio 2011

Il paese del bengodi

Sono i piccoli episodi a dirla lunga sul miserevole stato del rispetto delle regole in Italia. Viareggio, stazione ferroviaria. Un giovane romeno viene sorpreso a forzare la cassettiera di un telefono di una pensilina. Primo errore: ci sarà già chi dice cosa vuoi che sia, c’è ben di peggio in Italia. Vero: ma non per questo rubare può diventare giustificato. Né è lecito lanciarsi in analisi sociologiche sul disagio degli immigrati, con assoluzione morale preventiva.

Il furfantello, vista la polizia, scappa, si nasconde su un treno e quando viene acciuffato minaccia i gendarmi: dirò al giudice che mi avete picchiato durante l’arresto.

Tattica certamente ritenuta efficace, e purtroppo non a torto: ci sono buone probabilità che il mariuolo incontri un giudice che alla fine mette sotto inchiesta i poliziotti, e magari trova la maniera di mandare assolto un ladro colto con le mani nel sacco.

Quando apprendo fatti del genere, mi corre immediatamente il pensiero a Singapore. E alla sua giustizia orientata unicamente verso un obiettivo. Incentivare i comportamenti leciti, punendo severamente, rapidamente e diligentemente l’illegalità. A Singapore i poliziotti non picchiano gli arrestati. Non si sostituiscono ai giudici. Non ce n’è bisogno. Ad ognuno il proprio ruolo.

A Singapore nessun ladro ricatterebbe una guardia che lo sta arrestando. Perché a Singapore i giudici stanno dalla parte della legge. E sono loro a poter – legalmente – comminare un numero di frustate proporzionale alla gravità del reato. Metodi correttivi estremi? Certo. Ma provate una sera a passeggiare per il centro (o per la periferia, fa lo stesso, è altrettanto sicura) di Singapore, provando un senso di tranquillità che da noi è da lungo tempo perduto.

Dirò al giudice che mi avete picchiato, dice il ladruncolo rumeno di Viareggio, sperando di evitare una condanna e di inguaiare due sgherri. Gli fosse successo a Singapore, avrebbe scongiurato gli agenti di esser indulgenti nel verbalizzare il suo reato. Perché lì è il giudice – davanti al quale si compare in una questione di giorni, talvolta di ore – a decidere se basta un po’ di gattabuia, oppure è appropriato assegnare una punizione fisica al malfattore. Sei colpi di rattan, ben affibbiati sulle terga snudate del reo, lasciano un segno. E non parlo solo del sedere.

sabato 16 luglio 2011

Inaco

Di te ricordo, allora ero un ragazzo, quella voce intensa, calda, profonda, che caricava di un’aura di fascino d’artista, quale eri, quel viso ornato dal pizzo già argentato dall’età. Ricordo quei personaggi schizzati su grandi fogli di cartone del colore della vecchia carta da pane, gouache e carboncini di visi di pescatori, di cristi sofferenti sulla croce, di gente del popolo viareggino, calafati e vecchi rammendatori di reti, quali ce li tramandò Tobino nei libri sulla sua Viareggio.

Ricordo i tuoi figli, il più grande, robusto e gioviale, con cui l’estate si passavano certi pomeriggi solatii a giocare a scacchi, come colonna sonora un gaio frinire di cicale, ed il più giovane, riservato e di bell’aspetto, che vedevo nella penombra del suo negozio di cornici al limitare della pineta.

Ti ritrovai, a distanza di anni da quei tempi spensierati, invecchiato e quasi assente, smarrito, sembravi avere perso il senso della vita e dell’arte. E seppi solo dopo che il tuo adorato cucciolo, il figlio bello e timido se ne era andato tragicamente.

Quel ciocco di legno d’ebano che tenevi lì, fuori dall’uscio di casa, mezzo scolpito e da terminare di sbozzare, rimase così. La passione, la furia creativa forse se l’erano portate via quella circostanza troppo dolorosa per non minare irrimediabilmente un cuore d’artista.

Dopo qualche anno sul muro della casa dove abitavi comparve una lapide ed una piccola scultura bronzea che ritraeva le tue fattezze. E capii che eri andato a finalmente riabbracciare il tuo figliolo.

Ogni volta che passo di lì mi sembra di rivederti sulla soglia della cancellata e di risentire quella tua voce così profonda, che mi dice, come facevi allora: bimbo, come va?

Prima pubblicazione : 19 luglio 2008

venerdì 15 luglio 2011

Carioca nostrani

I soliti immancabili tre giovanotti impegnano un tratto di bagnasciuga con le loro esibizioni calcistiche. Due palleggiano tra di loro sulla battigia, mentre il terzo, portiere dopolavoristico di rango, una diecina di metri più in là, nell’acqua fino alle caviglie, attende i tiri a tradimento dei compari, per esibirsi in plateali tuffi accompagnati da gran spruzzi d’acqua che provocano i garruli urletti dalle ragazze di passaggio, il richiamo della cui attenzione è il vero obiettivo del terzetto.

Si vede dalla foga che ci mettono, fisico all’aria e sole sulla pelle, che le hanno attese a lungo, nell’inverno intorpidito di freddo e di vestiti pesanti, queste prime opportunità di mettersi in mostra con il gentil sesso, che ricambia volentieri con l’ostensione di tenere e bianche carni. Come i pavoni che fanno la ruota, ognuno sfoggia i propri richiami, le piume più seducenti. Schermaglie amorose, risatine, fischi sguaiati di apprezzamento, tutto il repertorio del corteggiamento da spiaggia. Ormoni impazziti galleggiano sulla battima.

Prima pubblicazione : 18 luglio 2008

giovedì 14 luglio 2011

Aspettando Casablanca

Un vecchio marocchino, magro, volto scavato e capelli grigi, coperto come un tuareg, trascina il suo carico di mercanzie. Poi si ferma, appoggia sulla rena il fardello di tovaglie e lenzuola, sputa per terra e quindi si dirige con faticato passo verso un ombrellone. Si siede sulla sdraia e incrocia due chiacchiere con un suo sodale, grasso e sudato, appena adagiato sulla stanga d’estremità, forse per paura di affondare nel molle telo e rimanere intrappolato come un capodoglio arenato.

Il breve conforto dell’ombra è finito, un bagnino smilzo che pare un ippocampo e già nero come un manovale asfaltatore li invita a proseguire altrove i loro commerci. Muti, si rialzano e ripartono verso la loro erratica attività, consci di non avere diritto a nulla, neppure a un po’ di riposo e refrigerio sotto un ombrellone vuoto.

Prima pubblicazione : 17 luglio 2008

mercoledì 13 luglio 2011

Pretese

Una passeggiata sul bagnasciuga, alla ricerca di immagini e sensazioni che risveglino dalla indolente ripetitività di vacanze dai giorni sempre uguali.

Un orizzonte di barche a vela che sonnecchiano nella bonaccia, pigramente immobili, vele mosce e dondolanti come orecchie d’elefante. Il sole illumina di mille riverberi uguali la superficie del mare pomeridiano.

Bambini spalettano i loro castelli o le loro buche nella rena, sorvegliati speciali di madri apprensive, non ti bagnare, non ti sporcare, non tirare la sabbia in faccia alla sorellina. Ma allora cosa ce li portano a fare al mare? Signora, mi vuole spiegare come diavolo fa un bimbo di quattro anni a scavare una buca in riva al mare e a non bagnarsi e a non impanarsi di sabbia come una cotoletta alla milanese??

Prima pubblicazione : 16 luglio 2008

martedì 12 luglio 2011

La mia Toscana

Ho un sacco di racconti fermi lì, sospesi, a metà strada. Solo abbozzati sul Moleskine, come creta che non si plasma, ma ti si affloscia fra le dita. Deve essere il caldo. Forse il bisogno di una pausa, di riposare la testa. La voglia di vacanze. Fatto sta che non riesco a finirne nemmeno uno in maniera accettabile.

Quando succede questo, ho solo due strade. O mi fermo, oppure leggo. Di solito i miei autori favoriti mi fanno venire di nuovo voglia di scrivere. Spirito di emulazione, forse. Ammirazione per i professionisti che, quelli sì, sanno scrivere davvero. Insomma, in genere il motore, stanco ed ingolfato, riparte tossendo, finché la scrittura non si fa scorrevole e liscia, ed allora tutto torna facile.

Ma se non funziona nemmeno lo stratagemma della lettura di qualche buon libro, allora non resta che attingere dal pozzo, non profondissimo, delle mie riserve di racconti.

Faccio un salto indietro nel tempo, ad una decina di anni fa, quando frequentavo con assiduità le spiagge versiliesi. Ecco che mi viene voglia di inaugurare una nuova categoria. La mia Toscana. Quanto mi piace ritornarci. Sento odore di casa. Sento i suoni familiari della parlata locale, che mi delizia le orecchie tutte le volte. Rivedo facce note, sempre le stesse, anno dopo anno, che ti danno quella rassicurante sensazione di appartenenza, di continuità, di clan. E nello stesso tempo rivivo storie lontane, anni di fanciullezza trascorsi laggiù con la famiglia. Tradizioni che ritornano. I nostri morti sono ancora vivi, in quelle immagini, in quei ricordi.

Qualche giorno di vacanza, goduto appieno, a cavallo tra fine giugno e inizio luglio, mi ha consentito di riassaporare la dolce oziosità di poche giornate viareggine. Qualche giro in bicicletta per quella darsena che il tempo non ha cambiato neppure molto da quarant’anni a questa parte mi ha fatto venire voglia di rispolverare vecchi ritratti e immagini fotografate con la penna nel 1996. Alcune sono istantanee, cronache minime di poche righe. Le avevo scritte per una sfida con me stesso. Era facile raccontare di mondi lontani. Ma il modesto quotidiano di una vacanza nei familiari lidi di Toscana era qualcosa di più difficile, di più impegnativo da cogliere. Richiedeva una speciale attenzione ai particolari che la maggioranza della gente, col naso immerso nel gazzettino sportivo o nel rotocalco pettegolo, nemmeno degnava di uno sguardo.

Il mio piccolo cimento era osservare la gente e raccontare. Non è, in fondo, quello che facciamo noi blogger? Inizia qui la mia breve raccolta di personaggi, anonimi e non, della Viareggio estiva.

Prima pubblicazione : 15 luglio 2008

domenica 10 luglio 2011

Troncamenti equivoci

Forse varrebbe la pena suggerire a questi signori, importatori di cibi e bevande di pregio dalla vecchia Europa, che se si vuole dare al proprio negozio un nome contenente un tocco di raffinata allusione ai termini meno consueti ma più identificativi del vero gourmet, allora prima di perfezionare la scelta sarebbe saggio consultare qualche italiano. Perché se no, nel tentativo di evocare la scienza culinaria, si ottengono questi spassosi risultati.

Non solo: fanno pure proseliti. Come gli autori di questo ricettario, visto negli scaffali di una libreria di Singapore.

sabato 9 luglio 2011

… ed altri mezzi…

Rassegna semiseria di mezzi di trasporto indiani.

Multitasking

Viaggiare seduti di sghimbescio su una vecchia vespa. Rispettare i propri canoni religiosi indossando il turbante, e nel frattempo infischiandosene della sicurezza stradale. Guidare con una mano mentre con l’altra si telefona. Si può. A Delhi. Ecco la prova.


Eguaglianza religiosa

Allora perché i Sikh possono andare in giro in motoretta con il turbante al posto del casco, e noi mussulmani dovremmo costringere le nostre donne a complicate evoluzioni per calzare l’elmetto sopra il velo? Non sia mai detto. Libertà di espressione religiosa per tutti. Donne islamiche: tranquille. Siete autorizzate a viaggiare senza casco. Tanto a cosa serve, sulla motocicletta?

Sport estremi

Ma secondo voi il tizio spenzolante fuori dall’autobus come un windsurfista in allenamento sul lago di Garda in un giorno ventoso lo paga davvero il biglietto?

Apino cabriolet

Inutile soffermarsi sulla peraltro comune condizione miseranda della carrozzeria, dei molteplici strati di vernice versicolore artisticamente alternati a sana ruggine, del telone protettivo merci e del tettuccio a telino con tanto di classico sette in stile vecchia cinquecento. Ma una menzione speciale la meritano il supersicuro sistema di fissaggio della batteria (a vista), nonché l’inquietante intreccio di fili che pende sotto la scocca, passando vicino alla ruota prodiera e toccando quasi terra proprio davanti ad essa. Un miracolo che l’anziano e ansimante trabiccolo vada ancora avanti senza distruggersi per autocombustione.

Sorridi: sei su candid camera

Come certe barzellette sulla Settimana Enigmistica: senza parole.

venerdì 8 luglio 2011

Auto blu


Per essere un’auto, è un’auto. Blu è indubbiamente blu: chiaro, ma blu. Quanti dei nostri politici, amministratori, dirigenti che godono di tale privilegio accetterebbero di essere scarrozzati su un tale cimelio vivente (peraltro in grandissimo spolvero)?

Ad ognuno le auto blu che si merita. Qui siamo in India, all’aeroporto di Bangalore. E attenzione: non che sul mercato non si trovino Mercedes, Biemmevu, Audi e perfino Bentley e Rolls. Ma per i funzionari degli enti pubblici si usano ancora le vetuste ma affascinanti Ambassador, dai corruschi paraurti cromati e addirittura con i deflettori al posto della venefica aria condizionata. Che in India siano più civili – e democratici – di noi?

giovedì 7 luglio 2011

Sincerità

Li Na, nuova eroina sportiva cinese, la prima a vincere un torneo del Grande Slam, ha rifiutato un posto governativo, offertole quale premio per i suoi successi sportivi. La sua provincia, il Hubei, voleva nominarla vicedirettore del centro tennistico dipartimentale.

L’ho sentito, ha commentato la tennista, ma non l’ho preso in seria considerazione. Non sono capace di dirigere gli altri. E anche se fosse, l’unico con cui riesco è mio marito, Jiang Shan.

Viva la sincerità.

martedì 5 luglio 2011

Pubblicità a confronto

Poveretto, come soffre! Non usa il callifugo Ciccarelli.

Mal di testa? Basta un Moment. Giusto il moment necessario a prendersi delle manganellate sul cranio.

Come sempre è interessante notare l’equilibrio sia di risultati sia di dispiegamento di potenza di tiro delle parti antagoniste. Referto dell’ultima domenica NoTAV: un centinaio tra poliziotti, carabinieri ed altre forze dell’ordine assortite (siamo l’unico paese con una tale panoplia di corpi militari o paramilitari i più svariati, a quando il corpo delle giovani marmotte?) in ospedale a Torino per curarsi le ferite nei selvaggi scontri montani (si suppone causate principalmente dalla disabitudine a pattugliare le erte e le selve pietrose). Dall’altro schieramento, come testimonia lo scatto in alto, i feriti sono imputabili a colpi di sole causati dalla canicola, punture di api impazzite per i suffumigi lacrimogeni, maldestre lesioni alla mani causate da coltellini da picnic usati per affettare il prosciutto di capriolo tipico della vallata.

Nelle foto (fonte: La Stampa-De Bello Gallico) due momenti degli scontri tra le centurie consolari al comando di Publio Varrone Marone ed i Barbari abitanti della Gallia Cisalpina.

sabato 2 luglio 2011

Uno per tutti

Due passi in una sera pioviginosa in centro a Bangalore, dove il buio cela pietoso le miserie ma anche assassino tende trappole ai pedoni costretti ad arrancare in marciapiedi dissestati al punto che è un eufemismo chiamarli tali.

C’è un cane accucciato contro un muretto. Gli occhi si sollevano per un attimo. Incrociamo uno sguardo. Avessi saputo come fare lo avrei portato con me. Aveva un’espressione indescrivibile: un misto di quieta pazienza, di fatica profonda, eppure di illogica fiducia in un mondo ingeneroso.

Dedicato ai milioni di randagi che ho visto in giro per l’Asia in quasi vent’anni di frequentazioni. Uno per tutti. Un’immagine che ho – ancora una volta – esitato a rubare. Alla fine ho deciso, dal cuore commosso: ecco questo anonimo, universale cane.


E con essa, un racconto inedito scritto nel lontano 1995, in Tailandia. In tutti questi anni non è cambiato nulla. Sono – e saranno – sempre così.

Cani, cani ovunque, tutti imparentati fra di loro e dunque rassomiglianti. Omologamente scarni: qui di ciccia ce n’è poca anche per gli umani, figuriamoci cosa resta ai cani. Hanno lo sguardo altero ma non cattivo, come rassegnati da atavica sofferenza a vivere di stenti. Poi, osservandoli bene, ti accorgi che lo sguardo non è perso nel vuoto. Scruta distante, attento a scoprire qualcosa da mangiare, come se già sapessero di non poterne trovare vicino. Cani.