domenica 17 luglio 2011

Il paese del bengodi

Sono i piccoli episodi a dirla lunga sul miserevole stato del rispetto delle regole in Italia. Viareggio, stazione ferroviaria. Un giovane romeno viene sorpreso a forzare la cassettiera di un telefono di una pensilina. Primo errore: ci sarà già chi dice cosa vuoi che sia, c’è ben di peggio in Italia. Vero: ma non per questo rubare può diventare giustificato. Né è lecito lanciarsi in analisi sociologiche sul disagio degli immigrati, con assoluzione morale preventiva.

Il furfantello, vista la polizia, scappa, si nasconde su un treno e quando viene acciuffato minaccia i gendarmi: dirò al giudice che mi avete picchiato durante l’arresto.

Tattica certamente ritenuta efficace, e purtroppo non a torto: ci sono buone probabilità che il mariuolo incontri un giudice che alla fine mette sotto inchiesta i poliziotti, e magari trova la maniera di mandare assolto un ladro colto con le mani nel sacco.

Quando apprendo fatti del genere, mi corre immediatamente il pensiero a Singapore. E alla sua giustizia orientata unicamente verso un obiettivo. Incentivare i comportamenti leciti, punendo severamente, rapidamente e diligentemente l’illegalità. A Singapore i poliziotti non picchiano gli arrestati. Non si sostituiscono ai giudici. Non ce n’è bisogno. Ad ognuno il proprio ruolo.

A Singapore nessun ladro ricatterebbe una guardia che lo sta arrestando. Perché a Singapore i giudici stanno dalla parte della legge. E sono loro a poter – legalmente – comminare un numero di frustate proporzionale alla gravità del reato. Metodi correttivi estremi? Certo. Ma provate una sera a passeggiare per il centro (o per la periferia, fa lo stesso, è altrettanto sicura) di Singapore, provando un senso di tranquillità che da noi è da lungo tempo perduto.

Dirò al giudice che mi avete picchiato, dice il ladruncolo rumeno di Viareggio, sperando di evitare una condanna e di inguaiare due sgherri. Gli fosse successo a Singapore, avrebbe scongiurato gli agenti di esser indulgenti nel verbalizzare il suo reato. Perché lì è il giudice – davanti al quale si compare in una questione di giorni, talvolta di ore – a decidere se basta un po’ di gattabuia, oppure è appropriato assegnare una punizione fisica al malfattore. Sei colpi di rattan, ben affibbiati sulle terga snudate del reo, lasciano un segno. E non parlo solo del sedere.

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