domenica 27 ottobre 2013

Quando un amico se ne va

Caro Luigi,

grazie per essere stato con me tutta la domenica. Mi hai parlato, mi hai fatto i tuoi soliti, graditissimi complimenti per le mie cose che hai letto con piacere. Ho risentito la tua voce, come cinque anni fa a Novara.

Alla fine, quando credevo che non avessi quasi più nulla da dirmi, ho ritrovato le tue parole più belle, quelle che mi scrivesti all’inizio di aprile del 2008. Eccole:

Appeso ad una parete ho un quadretto su cui è scritto "chi sopravvive nei ricordi e nel cuore dei sopravvissuti non è mai morto".

E quel ricordo diventa una fiaccola da tenere accesa.



Con queste tue parole voglio accommiatarmi da te. Vivo, perché lo sarai sempre nel cuore di chi ti ha conosciuto, apprezzato e stimato. Come me.

So che sentirò la tua mancanza. Ma quando accadrà, farò come oggi. Passerò la giornata rileggendo i nostri piccoli, preziosi scambi epistolari.

Ciao, Luigi.





domenica 20 ottobre 2013

Contrasti


Tradizione



Modernità


Fotografate entrambe a Singapore la sera del ventidue settembre. Un paio di chilometri più in là si stava svolgendo il gran premio di Formula Uno. Ma molta gente, me compreso, al rombo dei motori della corsa in notturna più abbacinante al mondo ha preferito il quieto semibuio della gita nel parco per ammirare il tradizionale festival delle lanterne. Cinesi, ma fini ed educati come dei lord inglesi. Solo a Singapore.



giovedì 17 ottobre 2013

Beni primari

Domenica pomeriggio, stazione di servizio su un’autostrada vicino a Seoul. In un angolo vedo un’apparecchiatura in parte insolita. Perché quattro rubinetti sporgenti da una specie di frigo blu non sorprendono affatto. Ma la vetrinetta accanto mi incuriosisce troppo. Piena di file ordinate di bicchieri d’acciaio, con un cestino sotto. L’amico locale che ormai conosco da quasi vent’anni mi spiega. Anzi ride, ripensando a vecchie e buffe vicende avvenute in Italia. Ricorda dei suoi clienti lamentarsi perché avevano bevuto una bottiglia d’acqua in albergo e questi strambi italiani insistevano per farsela pagare.

Qui in Corea l’acqua è gratis, chiosa. Vedi? Prendi un bicchiere, bevi per quanto hai sete e poi lo butti nel cestino. Tutto offerto. Acqua filtrata, sana, garantita. Perfino buona.

Vagli a spiegare che da noi, se mai succedesse, la gente per prima cosa si fregherebbe i bei bicchierini d’acciaio. Poi si riempirebbe bottiglie e bottiglie, infischiandosene di quelli in coda per vera sete. Ammesso che l’apparecchiatura durasse in funzione e non venisse vandalizzata dai soliti idioti che pensano sia divertente spaccare tutto.

Generosità è offrire un bicchiere d’acqua gratuito a chi ha sete. Civiltà è farlo con eleganza.




venerdì 11 ottobre 2013

Dedicato a un’ex ministra…

... che ci vuol far diventare tutti vegetariani.

I giapponesi riescono sempre ad essere originali. In tutto il resto dell’estremo oriente non c’è modo di mangiare una braciola che non sia stracotta, e le bistecche sono spesso delle tristi suole di scarpa incartapecorite. Agli orientali basta veder comparire una goccia di sangue mentre tagliano il filettino per rimandarlo indietro schifati per un’ulteriore radicale cottura.

Io adoro la carne appena scottata in superficie, quasi fredda dentro, e per quanti sforzi faccia nell’ordinare, non riesco mai ad averla come piace a me. Evidentemente i cuochi cinesi non concepiscono che uno appetisca un pezzo di carne non completamente asciugato di qualsiasi umore. Diatriba simile per le uova fritte: io amo il tuorlo crudo per meglio assaporarlo, e loro insistono a martoriare quelle povere uova. Finchè il tuorlo non è assodato e l’albume quasi bruciacchiato, dopo un paio di capriole in padella, non te le servono. De gustibus.

Invece in Giappone c’è la cultura delle cruditè. Sashimi e sushi sono sinonimi della loro cucina. Ma non c’è solo il pesce, di crudo. Nell’isola meridionale di Kyushu, a Kumamoto, un piatto tradizionale è la carne di cavallo. I veri buongustai la mangiano rigorosamente cruda.

I giapponesi hanno il senso della gratitudine. Una sera, forse per ricambiare certe libagioni subalpine a base di carne all’albese o di fresche battute al coltello da saporiti manzi piemontesi, mi è stata imbandita una tavola essenziale ma prelibata. Pochi, sceltissimi tagli. Bocconcini da centellinare uno per uno, intinti, proprio volendo dar loro una parvenza di cottura, in salsa di soia in cui stemperare erba cipollina e zenzero tritati. Che io ho trascurato, per apprezzare l’autentico sapore della carne.

In Italia c’è il mito della carne di cavallo che fa bene perché ricca di ferro e soprattutto magrissima. Invece questa aveva delle deliziose marezzature, degne di un Angus beef. Per non parlare di un taglio bello come un prosciutto, con magro e grasso separati con precisione nipponica. Ma l’apoteosi è stato il tategami, candido lardo equino di una delicatezza incomparabile. Roba da vergognarsi di aver qualche volta decantato con loro il lardo di Colonnata o quello di Arnad.

Mi attirerò le ire degli animalisti? Pazienza. Non si può sempre piacere a tutti. E a chi mi dirà che non amo i cavalli, rispondo che mi invece mi piacciono. Da vivi. E non solo.




giovedì 10 ottobre 2013

Caldo e freddo

Caro Chuck Abbott, ho deciso di scriverti. Per parlarti della differenza tra caldo e freddo. Anche se il tuo messaggio si apre e si chiude con la parola warm, che sta per calorosi (il benvenuto e gli ossequi), non sei riuscito a trasmettere il supposto tepore del tuo interessamento. Perché il mezzo è freddo: lo schermo del televisore in camera. E perché il messaggio è freddo: impersonale, probabilmente trasmesso da un computer a tutte le camere con la sola piccola personalizzazione del nome dell’ospite – ma visto che non siamo così in confidenza da usare il nome di battesimo, al cognome sarebbe stato carino far precedere un Mr., che così suona un po’ sgarbato.

E non mi prendere per un incontentabile. Perché nella tua stessa catena alberghiera c’è anche chi del messaggio di accoglienza sa davvero far sentire il calore. Come mi è successo, solo pochi giorni prima, in un hotel di Jakarta.

Un semplice cartoncino sulla scrivania. Ma scritto a mano. Mi piace pensare che il tuo pari ruolo Andreas abbia speso un minuto del suo tempo per darmi il benvenuto, magari usando una poetica stilografica, e che quel biglietto sia reso esclusivo dall’unicità della calligrafia, mai uguale a se stessa. E mi piace il disegno in stile coloniale dai tenui colori pastello, che volendo diventa una cartolina da staccare e spedire a qualche amico speciale degno di ricevere un antiquato souvenir con tanto di francobollo esotico, invece di un banale e frettoloso sms o un’anonima foto buttata lì in qualche social network, più per esibizionismo che per vero piacere di condivisione del momento.

Ecco, tutto questo è veramente caldo. Solo per farti presente la differenza, Chuck.





martedì 8 ottobre 2013

Fire escape device


Corda, due paia di guanti, maschere antifumo, martello appuntito per rompere il vetro della finestra. Era davvero tanto tempo che non trovavo in una camera d’albergo un set completo per mettersi in salvo in caso d’incendio. L’ultima volta mi era successo a Taiwan, nel 1998. Mi aveva incuriosito al punto da scrivere un raccontino.

Paese che vai...

... attrezzature che trovi. Mi era capitato di scoprire, nelle camere di albergo, le cose più sorprendenti, almeno per gli standard degli hotel nostrani. Un kit di emergenza antincendio costituito da una maschera antigas (Corea), istruzioni dettagliate su cosa fare e come non farsi prendere dal panico in caso di terremoti (Giappone e Taiwan), le paperelle di gomma sul bordo della vasca da bagno (Inghilterra), perfino i preservativi in confezione da tre (con tanto di prezzo nella lista del minibar) gaiamente proposti fra noccioline, mignon di liquore e patatine per lo spuntino notturno (Brasile, e dove altro sennò?).

Ma la scatola metallica bianca che trovo in un angolo della stanza, a Kaohsiung, supera la mia capacità di non sorprendermi più. Ascend escape device, le uniche parole leggibili in una selva di caratteri cinesi, risaltano in rosso vivo sul coperchio. Un cartello di plastica per l’uso del contenuto, privo di traduzione, ma per fortuna con disegnini esplicativi, fa bella mostra di sé sulla parete.

Possibile?, mi chiedo guardando le istruzioni. Possibile. Sollevo il coperchio, e trovo, ordinatamente disposti, un verricello, una grossa matassa di fune da alpinista, un moschettone ed un’imbragatura.

Però! E se mi venisse la voglia di usarlo per calarmi dal nono piano, in caso di emergenza? Osservo le istruzioni, considerando quanta gente troverebbe il sangue freddo necessario - magari col fuoco che incombe - per passare cento metri di fune attraverso il verricello, agganciarla correttamente al moschettone, e quest’ultimo all’imbragatura, dopodiché vestirla, e poi…. Già, e poi? Per calarsi da trenta metri occorre assicurare il verricello ad un gancio infisso nel muro, peccato che esista solo sul cartello appeso alla parete. E la finestra? Sigillata. Neppure un martelletto di quelli che vedi sulle porte sugli autobus, rompere il vetro in caso di necessità. Un appiglio dove tentare di agganciare il verricello? Nemmeno a parlarne, facciata verticale e liscia come un patinoire!

Risultato? Un’attrezzatura pensata in grande. Peccato che si sia pensato in grande, ma solo a metà!


Ma stavolta in Corea ho trovato l’anello mancante. Letteralmente. Sotto la scrivania, vicino alla finestra, ben imbullonato a terra c’era un robusto tassello a testa tonda, a cui agganciare la corda. Meno male. Hanno pensato anche a quello, oltre al martello assente a Taiwan.

Ah, a proposito di emergenze. Da qualche parte ho letto una di quelle notiziole che potrebbero un giorno tornare utili (anche se si spera di no…). Quando arrivate in un albergo, scegliete sempre – se possibile – una camera fino al settimo piano. Strane superstizioni? No: pare che le autoscale dei pompieri si estendano solo fino a quell’altezza. Quindi, in caso d’incendio, se siete più su dovete farvela a piedi per le scale. Oppure, ammesso che abbiate la corda d’emergenza in camera e il sangue freddo per agganciarla e calarla, dovete pregare che le vostre braccia vi reggano per l’intera discesa, magari mentre tutto intorno l’edificio sta bruciando… Fate voi. Se avete un fisico bestiale, liberi di scegliere il piano che più vi aggrada. Se no, ricordatevi il numero magico: sette.




mercoledì 2 ottobre 2013

La pizza più cara del mondo


Avete, che so io, un migliaio di euro che vi avanzano? Vi state chiedendo come scialacquarli? Con quel gruzzolo potete comprare una bella, appetitosa, filante pizza.

La buona notizia? Ve la potrete godere giorno e notte, esposta nella vetrinetta del buffet del salotto buono, insieme ad altre improponibili chincaglierie regalatevi da falsi amici, che non avete il coraggio civile di rottamare (né le chincaglierie, né gli amici). Perché si tratta di una inossidabile creazione di un maestro giapponese che plasma i finti (ma quasi indistinguibili dagli originali) cibi per le vetrine dei ristoranti nipponici.

La cattiva notizia? Per la suddetta modica mercede non vi danno nemmeno una pizza intera. No. Vi dovete accontentare di mezza razione, resa artificialmente intera con un sapiente gioco di specchi. E sapete perché? Non perché l’artista si sia stancato a metà opera. Perché così occupa solo la metà del posto, pur mantenendo intatto il pregevole risultato estetico. Straordinari, minimalisti giapponesi.