Esattamente quindici anni fa Hong Kong si ricongiungeva alla madre Cina. Dopo 150 anni di colonizzazione inglese.
Per ricordare com’era allora la città-stato, un’oasi di stile britannico circondata dal continente cinese, pubblico oggi un racconto inedito scritto nell’ottobre 1996, una manciata di mesi prima della fatidica data, con Carlo d’Inghilterra presente alla cerimonia: 30 giugno 1997.
Una sera alla stazione di polizia
Non ci vuole molto a trasformare la vettura più sicura in un ammasso di ferraglia. Così recita un poster in bella mostra sulla parete della stazione di polizia di Tsim Sha Tsui, Kowloon. Con in primo piano, davanti al citato mucchio di rottami in bianco e nero, un’allettante pinta di birra, la schiuma esuberante che trabocca oltre il bordo del bicchiere, madido e freddo come si conviene. Questo è il benvenuto al visitatore. Bel messaggio subliminale, penso. La spiacevole necessità di denunciare la perdita del portafoglio da parte di un amico cinese mi forza a visitare, un sabato sera, questo luogo di sicurezza e di soccorso.
Uomini e donne, tutti giovanissimi, gentili e professionali, quasi allegri del loro compito. Gli utenti attendono tranquillamente il loro turno seduti in alcune file di seggiole tipo sala conferenze, proprio dirimpetto al bancone dove almeno quattro poliziotti si occupano dei casi esposti. Sul fondo della stanza troneggia una foto a colori della regina Elisabetta e consorte Filippo, unica evidenza del fatto che – per ora e non per molto – Hong Kong è ancora un protettorato britannico. Ormai neppure le monete hanno più la testa della regina. Si è già passati al conio di spiccioli esibenti più neutri fiori, che tanto piacciono ai cinesi.
Passano alcuni agenti di rientro da un servizio di ronda. Nella loro uniforme verdina, spiccano il nero sia degli stivali anfibi allacciati a mezza gamba nonostante i trenta gradi della sera, sia del cappello, e soprattutto una cintura, anch’essa in tinta, da cui pende un armamentario incredibilmente vasto. Ogni pezzo ha la sua brava fodera. Ho contato un pistolone a tamburo, lo sfollagente, una pila di dimensione subacquea, le manette, la radio ricetrasmittente, il cui microfono è fissato alla bandoliera che dalla cintura stessa diparte, una borsina presumibilmente contenente penne e libretti per verbali, ed almeno altri tre misteriosi piccoli contenitori di chissà che cosa.
Una radio di servizio continua la cantilena cinese, informando i colleghi di crimini e misfatti. Rientra una graziosa poliziotta, la camicia marcia di sudore sulla schiena, si avvicina alla radio e intavola un dibattito con chi sta dall’altra parte dell’etere. Un’altra nel frattempo, fasciata da una uniforme color kaki, con vezzosa gonna al ginocchio, e con una clamorosa caduta di stile negli scarponi regolamentari con suola a carrarmato, sta stendendo a mano dei rapporti su di un incunabolo formato Divina Commedia illustrata da Dorè.
Non sembra di essere in una stazione di polizia. Manca completamente quella lieve, impercettibile ma fastidiosa sensazione di disagio che capita di provare da noi quando vai per denunciare qualcosa e temi sempre che alla fine si insinui che è colpa tua se ti è successo, anzi, è proprio sicuro che sia andata così?
La denuncia di uno smarrimento qui non ha quella nostra freddezza da pratica burocratica, l’appuntato che arranca sulla tastiera di una Olivetti meccanica d’annata, grossa e pesante come una locomotiva, ma in compenso molto più rumorosa.
I due ragazzi che raccolgono la deposizione del mio amico paiono due assistenti universitari che interrogano una matricola. Lo studente spiega, si aiuta con un foglio sul quale schizza alcuni appunti, i due professori lo prendono, se lo rigirano fra le mani, lo scarabocchiano ulteriormente, l’allievo prima espone i fatti, che loro scrivono, ascoltano e commentano, poi annuisce, come tutti gli studenti che vogliono ingraziarsi il docente che gli dovrà firmare il libretto con un voto. I due sorridono fra di loro in quella maniera riservata tipica dei cinesi, l’atmosfera è rilassata, l’esame è andato bene, chissà che voto gli daranno, il libretto - il passaporto superstite dello smarrimento - viene reso all’esaminando. Grazie ed arrivederci. Un sogno ad occhi aperti. Ho assistito ad una denuncia a due pubblici ufficiali e, complice il linguaggio tuttora misterioso, mi sembrava tutta un’altra cosa. Come un film muto, in cui capisci la trama dai gesti, non dalle parole. E puoi equivocare. Oppure puoi usare la fantasia, e decidere di leggere le immagini come meglio ti aggrada, libero dai vincoli delle parole, che spiegano, ma nel contempo limitano le interpretazioni.
L’ampia stanza è piena di luce, c’è rumore, si avverte la cordialità nell’aria, c’è un sorriso anche per quel buffo straniero là in fondo, è un quarto d’ora che scrive, che diavolo avrà da annotare su quello stupido blocchetto di appunti!?
Il 30 giugno 1997 Hong Kong tornerà alla madre patria cinese. Per ora il livello di civiltà e di civilizzazione è uno dei motivi che fa apprezzare ai numerosi europei residenti questa sovraffollata, caotica, indaffarata città-stato. Poi si vedrà.