Ma guarda se mi tocca venire nella vicina Germania per apprezzare finalmente qualcosa di gustoso, di piacevole, di nostalgicamente divertente in un programma televisivo italiano.
Non essendo un drogato da tubo catodico (che non ho ancora pensionato, nonostante le lusinghe dei produttori di schermi ultrapiatti e iperprezzati), ho acceso la televisione nella camera d’albergo solo dopo alcuni giorni di permanenza, ed ho scoperto che oltre a RAI International, congerie delle più nefande trasmissioni a premi italiane, inframmezzate da insopportabili sceneggiati con struggenti primi piani sudamericani e vere e proprie perle di spazzatura televisiva e cinematografica, improvvidamente riesumate da qualche cassonetto, loro appropriata residenza, e così sottratte ad un meritato perpetuo oblio, era sintonizzato un secondo – a me sconosciuto – canale, Rai 2 Educational.
Proprio in questo contenitore dalle apparenti pretese culturali e formative ho trovato un programma che una sera mi ha quasi fatto far tardi a cena, tanto mi ci sono perso dentro.
Qui veniva intervistato un signore d’età, dal viso abbronzato e solcato di rughe, sorriso smagliante, occhio vispo e voce inconfondibile. Guido Pancaldi. Che rammentava come lui e il suo notorio ed imprescindibile socio, Gennaro Olivieri, fossero i veri deus ex machina di una trasmissione cult, negli anni sessanta e settanta: Giochi senza Frontiere.
Arbitri plenipotenziari, dal giudizio insindacabile (e senza tante moviole ad aiutare), cronometro sempre alla mano, col loro caratteristico breve trillo di fischietto davano il via ad ogni gara di quella sarabanda settimanale che vedeva opposta la miglior gioventù atletica di mezza Europa. Sfide spassose, rigorosamente in diretta, commentate argutamente da altri personaggi, mostrati come sono oggi o in immagini dell’epoca. Rosanna Vaudetti, il tempo non sembra esserle passato. Ettore Andenna. Un giovanissimo Claudio Lippi, con una folta capelliera laccata color Biscardi.
Quanti ricordi. La televisione ancora in bianco e nero, con manopole misteriose che solo il tecnico aveva licenza di toccare, e pochi tasti meccanici che schioccavano come nacchere. Il telecomando – peraltro inutile – doveva ancora nascere. Il primo e il secondo canale, ecco tutto quello che si vedeva, salvo i fortunati che con difficoltosi smaneggiamenti riuscivano a sintonizzare fruscianti visioni di Svizzera e Capodistria. UHF e VHF, sigle esoteriche per iniziati, gente con il diploma Scuola Radio Elettra. Il monoscopio notturno e l’intervallo con le immancabili pecore e l’arpa che suonava.
Giochi senza Frontiere annunciava l’arrivo della primavera, si spingeva fin dentro l’estate, e raccoglieva davanti alla tivù comunitaria, nella saletta piena di fumo e di poltroncine spaiate della pensione versiliese, un pubblico eterogeneo fatto di vecchi negozianti a riposo, signorine quarantenni milanesi bencreate e mai maritate, allegre famiglie fiorentine dedite al sorseggio della sambuca con la mosca (il chicco di caffè da sgranocchiare alla fine della libagione), truccatissime carampane con la sigaretta incistata su un lungo bocchino d’osso che faceva tanto fatalona d’anteguerra.
Questa varia umanità tifava per i nostri, riconoscibili dalla grossa I appiccicata su tute attillate ed essenziali, che ben evidenziavano la prestanza degli atleti, dibatteva appassionatamente sull’uso talvolta azzeccato, talaltra disastroso del jolly, che consentiva ad ogni nazione di raddoppiare i punti conseguiti in un gioco solo per puntata, si entusiasmava per il Fil Rouge, altra sadica invenzione del duo Olivieri e Pancaldi, e infine poteva a pieno titolo esercitare ciò che ogni italiano sente come diritto divino: il campanilismo. L’Italia, come peraltro le altre nazioni, era talvolta incarnata da cittadine o borghi in cerca di notorietà, di fama, di una ribalta internazionale che li togliesse dal buio del puntino su un atlante e li lanciasse nella ricca orbita delle località che un turista, italiano o estero, avrebbe potuto visitare. Quando giocava Montecatini i toscani aumentavano le salve di tifo, se passava in tivù Pizzighettone, le milanesi si scalmanavano e vociavano in dialetto meneghino.
Giochi senza Frontiere, in un’epoca di confini ancora pattugliati da gendarmi che ti ficcanasavano nel baule della macchina e sfogliavano il tuo passaporto mentre recitavano il classico niente da dichiarare?, era annunciata dalla sigla dell’Eurovisione, archè e premonizione di un vecchio continente diverso, più vicino, più propizio ai viaggi, oggi addirittura con la moneta unica. Quel refrain trionfale e ridondante sortiva da cento finestre aperte su stanze sfarfallanti di luce bluastra, e richiamava le genti davanti allo schermo, come le campane annunciano l’entrata della messa. E mentre eri seduto lì, in ciabatte infradito e calzoncini corti per dar aria alla gambe arrossate dalle strinature di un sole estivo ancora ritenuto benefico e non foriero di cancheri e altri malanni, pensavi con stupore alla tecnologia che in quello stesso momento permetteva a chissà quanti altri milioni di persone, in Francia o in Germania o in Olanda e perfino nell’isolana Inghilterra di gustare le stesse immagini e di tifare come te per un paesetto semisconosciuto che le rappresentava.
Giochi disputati all’aperto (alle bizze del maltempo si rimediava con un ombrello per i presentatori), scenografie monumentali, quantità industriali di gommapiuma consumate per i goffi costumi che i concorrenti indossavano a impaccio dell’andatura ma anche a tutela da botte e capitomboli, settimane di preparazione per una puntata da novanta rigorosi minuti, niente supplementari, nemmeno un parsimonioso recupero di stile calcistico. E senza l’assillante presenza delle pubblicità che interrompono tutto e diluiscono il pathos. Tutto doveva filare liscio e preciso come un orologio svizzero. Svizzero come l’accento peculiare di Guido Pancaldi, che oggi ride e rievoca, insieme a noi che l’abbiamo vissuta in gioventù, quella stagione straordinaria di divertimento semplice, senza isole, senza reality, senza telecamere indiscrete che spiano la falsa intimità di un gruppo di sfaccendati, senza la volgarità e lo squallore che infesta e rende insopportabile l’odierno intrattenimento televisivo.
Erano ragazzi che giocavano misurandosi caparbiamente, per premio solo una modesta gloria strapaesana. Era una televisione più pulita. Forse più ingenua. Di certo più ricreativa. Allora perfino il canone non si pagava malvolentieri. Anche se le frontiere non ci sono più (sebbene ci sia chi ne vorrebbe costruire di nuove in Italia), ridateci Giochi senza Frontiere. Ma con Pancaldi, le sue giacche color panna, il suo trois, deux, un, friiiiiii!
Prima pubblicazione: 26 ottobre 2008